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Ma i rapper in quarantena sognano gli strip club?
Bollettino di guerra del complicato rapporto tra hip-hop e Covid-19
Era il 2000 quando in Stan Eminem raccontava la parabola tragica di un fan ossessionato dalla figura di Slim Shady e incapace di accettare che il proprio artista preferito non rispondesse alle sue lettere. Vent’anni fa per un comune mortale l’unica occasione per annullare questa distanza era andare a un concerto, mentre oggi le dirette e le stories sono diventate un mezzo per instaurare un altro tipo di contatto, più mediato, con gli artisti musicali e la loro vita quotidiana. Ciò vale a maggior ragione nel caso del rap, il genere più ascoltato negli Stati Uniti come in Italia, che ha trovato in Instagram un veicolo ideale di promozione e comunicazione con la propria fanbase. Non sorprende quindi che in un periodo di profonda incertezza come quello attuale, in cui le persone cercano conforto e vicinanza anche sui social, i rapper abbiano voluto – e dovuto – esporsi in merito al Covid-19.
Un riflesso appannato
Il primo rapper italiano a prendere una posizione sul coronavirus è stato Hyst a fine febbraio, seguito a ruota dalla stragrande maggioranza degli esponenti della scena, che si sono rivolti al loro bacino d’utenza perlopiù adolescenziale chiedendogli di restare a casa – alcuni incalzati dagli uffici stampa – o portando altre iniziative. Clementino e Nerone, per esempio, hanno risposto con delle esibizioni online al blocco dei live, che, stando alle stime del CEO della Fimi Enrico Mazza, ha provocato solo fino al 3 aprile danni per 40 milioni di euro, oltre a un calo vistoso nelle vendite di album e negli ascolti via streaming.
Ma il tentativo di reazione più riuscito e virale a questo immobilismo obbligato è stato quello della Covid Freestyle Challenge indetta su Instagram da Emis Killa. Una sfida che è riuscita a coinvolgere tanto nuove leve come Tedua e Lazza e quanto leggende del calibro di Raige e Mistaman. In un momento di difficoltà estrema, un rap game che mai come oggi è stato incrinato da faide più o meno futili ha trovato per la prima volta in molti anni un’unità d’intenti, un messaggio comune che ha unito generazioni agli antipodi. Ovviamente questa tregua è durata solo poche settimane, dopo che il sedicente king dei dissing Jamil che ha attaccato la pochezza della strofa di Fabri Fibra e che Noyz Narcos ha sottolineato la ripetitività di questi freestyle, senza che entrambi capissero che il fine ultimo della challenge era quello di sensibilizzare al problema e non di sfornare la prestazione migliore.
Nelle ultime settimane poi alcuni artisti si sono lanciati in riflessioni e dibattiti sociali ai limiti del ridicolo, che sottolineano anche tutta la fragilità di pensiero del rapper medio nell’era di Instagram di fronte a problematiche così complesse. Duke Montana ha avvallato la teoria secondo la quale il virus sia opera di Bill Gates, mentre Salmo ha pubblicato nelle proprie stories il famigerato servizio del TG3 sugli esperimenti condotti a Wuhan nel 2015. Nessuno però ha raggiunto i livelli di delirio di Ketama126, che ha prima criticato lo stato italiano per non aver mandato il tampone a casa degli italiani invece di bloccare l’economia e poi ha paragonato le restrizioni per il Covid a quelle successive all’11 settembre, profetizzando leggi coercitive “che cambieranno la vita di tutto il mondo”.
Sospeso tra polemiche sterili, teorie complottistiche e iniziative benefiche, il teatrino su Instagram del rap italiano ha dato l’impressione di un movimento in salute a livello numerico ma che sta ancora capendo come gestire il ruolo di responsabilità portato dall’improvvisa esposizione mediatica che ha avuto il genere. Uno dei pochi corpi estranei a questa messinscena è stato Marracash, che in un lungo post ha spiegato di essere rimasto in silenzio per non oscurare voci più autorevoli di lui sul tema. Come già era accaduto in misura minore in seguito alla caduta del ponte Morandi e agli episodi di Corinaldo, però, una gran parte della scena è riuscita a trovare un senso di appartenenza condiviso solo davanti ad una tragedia. Ma l’utopia del volemose bene è durata poco e ha subito fatto spazio alla solita bagarre confusionaria, come se alcuni artisti non abbiano ancora realizzato che l’epoca underground nella quale bisognava farsi largo nello struggle generale è finita da tempo. Così mentre fuori è in corso un’emergenza senza precedenti e l’industria musicale è costretta a reinventarsi, il nostro panorama hip-hop è immerso in una nuova crisi d’identità, indeciso su quale immagine pubblica restituire attraverso il riflesso dei social.
Quarantine! Quarantine! Quarantine!
Se in Italia i poeti della strada hanno bisogno di un nuovo terapeuta, negli Stati Uniti si potrebbe passare direttamente alle camicie di forza. La pandemia li ha raggiunti in netto ritardo, di conseguenza l’intervallo di vuoto, di inconsapevolezza della situazione che si stava per affrontare, si è fatto sentire maggiormente. In un primo momento infatti la ricezione è stata confusa: l’idea nella testa dei rapper, trapper e di chiunque gravita attorno a questa enorme nebulosa che è l’hip-hop, non era certamente quella di stare per affrontare qualcosa di epocale.
C’è stata una prima fase, tra lo scettiscismo e l’ironia temeraria, nella quale in molti hanno gridato all’inesistenza del virus o l’hanno preso sottogamba. Waka Flocka Flame ha dichiarato per via radiofonica che il virus era una bufala e che bastava per lui come argomento il fatto che non ci fossero prove che colpisse le minoranze etniche. Pochi giorni a seguire dalla dichiarazione, l’attore afroamericano Idris Elba e diversi giocatori nell’NBA sono riscontrati positivi al coronavirus. Cardi B è stata tra i primi ad affrontare la questione del virus, con un video su Instagram nel quale sbraita per il panico. Eppure, il video non è stato inteso come un monito alla salute e il producer Dj Markkeyz è finito per remixarlo, pubblicando una traccia che è arrivata settima nella classifica di ascolti USA. E come può il sesto senso dell’homo americanus, quello per il business, non approfittare di un risultato del genere? Infatti, la stessa Cardi B ci ha marciato sopra, condividendo la canzone e approfittando del suo status meme per aumentare ancora di più la sua influenza. Questo è stato un primo simbolico segno di cambiamento e di resa dei conti con il virus.
A mano a mano che quest’ultimo ha iniziato a diffondersi, c’è stato un cambio di intenti da parte dell’artistry statunitense. Rapper e entertainer satelliti hanno iniziato a monetizzarci, lasciando discorsi alla nazione e lezioni di buona civiltà agli artisti pop, rock e country. In risposta ad una paralisi in termini di concerti e di acquisti in copia fisica, olio motore dell’industria musicale più florida del pianeta, i nostri trovatori hanno intuito, avidamente, come far discutere di sé, facendo uscire nuovi singoli e pubblicizzandoli pesantemente sulle piattaforme di streaming. Si è arrivati addirittura a infrangere il muro di privacy che si forma tra l’artista nel suo processo per scrivere qualcosa e il pubblico che l’ascolta. È il caso di Tory Lanez, che con il motivetto “Quarantine! Quarantine! Quarantine!” inizia le sue live in isolamento su Instagram, ospitando di volta in volta volti del panorama musicale e finendo per chiudersi in studio, mostrando a tutti come registra le sue tracce e in quanto poco tempo le definisce. Anche il “King Of The Snitch” Tekashi 6ix9ine ha approfittato dell’epidemia più importante di questo secolo, ottenendo il permesso per uscire di prigione e promettendo nei prossimi giorni di pubblicare nuove canzoni che ribalteranno l’equilibrio dei poteri. La pandemia è diventata quindi un’occasione bieca per uscire con nuova musica, rafforzare la propria fanbase e mistificarsi rispetto a questa, ponendosi in un certo senso entusiasti della situazione. Specialmente chi doveva far fronte a due anni di carcere federale e cinque di libertà vigilata.
Alla base di tutto questo c’è da considerare che il rap in America non è visto solamente come una forma di competizione, ma è sempre stato inteso dalla maggior parte della scena come un escalade nel mondo dell’imprenditoria, in cerca di un investimento in qualcosa di remunerativo. Basti pensare al non plus ultra dei one hit wonders, Soulja Boy, simbolo del 2007 con la sua Crank That, che oggigiorno ha triplicato le entrate della sua compagnia di saponi in seguito all’annuncio dell’epidemia. Anche per vie non direttamente musicali, il modus operandi degli artisti hip-hop è rimasto sempre lo stesso. Non interessa a nessuno della tua umanità, della tua vita privata: se vedi che ci si può fare economia, tuffati.
Restare alla giusta distanza
La lontananza geografica e lo scarto temporale tra le pandemie in questi due paesi ha rivelato la profonda differenza che c’è nel loro approccio ontologico allo spirito dell’hip-hop. Negli USA il gangsterismo di strada vive la nostalgia della vita da club, si ritrova ad invitare performer nelle live per fare gare di twerking pubbliche. Lo stato generale della community è convulsivo, pronto ad esplodere. Nel nostro paese invece il rap non è ancora arrivato ad un tale consolidamento nel business e nella cultura popolare e quindi si limita ad osservare dal basso un evento storico così soverchiante, rispondendovi a volte ingenuamente e altre volte in maniera più istituzionale. Ed è forse proprio questa arretratezza dell’hip-hop italiano che ha permesso ad una manciata dei suoi artisti di gestire con cognizione un argomento così delicato, mantenendosi a distanza di sicurezza da bufale e isterismi.
Una delle poche certezze è come tutto questo show sia una propagazione del vivere sociale e politico di Italia e Stati Uniti e dell’approccio opposto che questi due stati hanno avuto nei confronti del Covid-19. Oltre ad essere un valido termometro del sentire comune, poi, il rap riesce anche a condurre il suo pubblico in un sistema di vasi comunicanti, permettendogli di intuire quanto è scheggiata la lente dell’artista che viene inquadrato.
Articolo di Daniele Gennaioli