Mahsa Amini è morta due volte

Le radici delle proteste in Iran, dove il movimento politico di resistenza al regime si intreccia con la lotta per l'emancipazione delle donne, vengono dal Kurdistan.

25/02/2023

L’11 febbraio 1979 nacque ufficialmente la Repubblica Islamica Iraniana. Oggi, a 44 anni di distanza, gli iraniani scendono in strada per chiederne la fine. Dopo oltre cinque mesi dal loro inizio, le proteste continuano nonostante le durissime repressioni. Il paese è diviso, o meglio: è unito contro il governo, e le richieste della popolazione vanno ben oltre l’eliminazione dell’hijab obbligatorio.

Di fronte ai continui disordini interni, in occasione dell’anniversario della Rivoluzione Islamica, il presidente Ebrahim Raisi ha denunciato Stati Uniti e Israele, storici nemici dell’Iran. Ma secondo il governo iraniano, l’integrità territoriale del paese è minacciata anche da un elemento interno: il popolo curdo. Effettivamente la causa curda gioca un ruolo rilevante fin dall’inizio delle proteste tuttora in corso. La giovane curda Jîna Emînî (conosciuta dai media occidentali come Mahsa Amini), uccisa dopo la sua cattura da parte della polizia morale il 16 settembre 2022, è diventata il simbolo di queste proteste. Non a caso, le stesse proteste sono nate in occasione del suo funerale nella sua città natale Saqqez, nel Rojhilat (Kurdistan Iraniano). A questo è dovuto l’utilizzo dello slogan «Jin, Jîyan, Azadî» («donna, vita, libertà») cantato dalla folla. Lo slogan nasce nel movimento di resistenza curdo in Turchia negli anni ‘80, e riflette il ruolo fondamentale delle donne nel Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK).

Le proteste sono presto diventate un movimento politico tanto per l’emancipazione delle donne quanto per l’emancipazione dell’Iran stesso. Marjane Satrapi, artista e intellettuale iraniana, sostiene che i media occidentali hanno dipinto questa come una rivoluzione solamente femminile. Ma questa narrazione porta avanti l’apartheid di genere sostenuta dallo stesso governo iraniano: gli uomini, a differenza del passato, sono al fianco delle donne contro il regime. Secondo alcune fonti, il governo sta revisionando la legge sull’obbligatorietà dell’hijab. Anche se ciò accadesse, però, le richieste lanciate dagli slogan non sarebbero soddisfatte. Infatti, il popolo iraniano non chiede riforme, ma la fine della Repubblica Islamica. Bruciare l’hijab non vuol dire solamente protestare contro l’oppressione delle donne iraniane nella Repubblica Islamica, ma rifiutare le radici stesse del regime. Quindi, l’emancipazione delle donne è il punto di partenza per il cambio di un regime totalitario che ne vuole l’oppressione. Del resto, «un paese non può essere libero se le donne non sono libere». Questo è il credo ispirato da Abdullah Öcalan, cofondatore del PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan). Dal 1999 Öcalan è incarcerato con l’accusa di terrorismo, e lo stesso movimento del PKK è stato dichiarato organizzazione terroristica dalla Turchia e dagli Stati Untii (ma anche dall’UE, in tempi più recenti). Le proteste vanno oltre la richiesta di una riforma: le foto dell’Ayatollah Khamenei sono strappate, e la gente grida «Morte alla Repubblica Islamica».

In occasione dell’anniversario della rivoluzione di una settimana fa, i media statali hanno annunciato che il governo avrebbe cancellato o ridotto le sentenze di «un ampio gruppo» di prigionieri. Forse per le pressioni a livello internazionale, è stata rilasciata l’antropologa Fariba Adelkhah, ricercatrice presso la prestigiosa Università Sciences Po di Parigi e naturalizzata francese. Adelkhah è stata arrestata nel 2019 perché considerata una minaccia alla sicurezza nazionale, come molti altri cittadini iraniani con doppia cittadinanza che sono stati arrestati negli ultimi anni con la stessa accusa. Non è chiaro però se e come la grazia promessa dal governo verrà applicata ai prigionieri arrestati nelle più recenti proteste. Secondo Jasmin Ramsey, direttrice del CHRI (Centro per i Diritti Umani in Iran), il governo rilascerà solamente prigionieri minori e i prigionieri politici, incarcerati da anni per il loro attivismo contro il regime. Nonostante le promesse di grazia, la repressione delle proteste è continuata e moltissimi civili sono stati arrestati: da settembre, 4 persone sono state giustiziate, 529 uccise, e quasi 20.000 arrestate.

Non è chiaro se il governo iraniano si senta effettivamente minacciato dai suoi stessi cittadini, dato che l’Iran ha una lunga storia di attivismo politico. Nel luglio 1999, la protesta degli studenti universitari contro il regime paralizzò la capitale Teheran per cinque giorni. Nel 2009, dopo la rielezione controversa del presidente Mahmoud Ahmadinejad, milioni di cittadini protestarono nelle strade di Teheran, Isfahan, Shiraz e altre città iraniane. La protesta, conosciuta come il Movimento Verde, chiedeva la democrazia in Iran con lo slogan «Dov’è il mio voto?» e venne duramente repressa nel febbraio 2010. Non è quindi la prima volta che la popolazione si solleva contro il regime, ma c’è una differenza tra le proteste degli anni passati e quelle scoppiate a settembre 2022. Per la prima volta dal 1979, persone di diverse classi sociali e diversi gruppi etnici si sono unite sotto lo stesso slogan: la causa delle donne e dei curdi si è unita a quella di altre minoranze etniche, come i beluci del sud-est. Nella regione del Sistan e Baluchistan è in corso dal 2004 un conflitto a bassa intensità tra le forze di sicurezza iraniane e i movimenti ribelli beluci, considerati da Teheran come gruppi terroristici. A Zahedan, una città a maggioranza beluci, il 30 settembre 2022 le forze del regime hanno ucciso più di ottanta civili mentre tornavano alle loro case dopo la preghiera del venerdì. L’oppressione delle minoranze in Iran si manifesta sotto vari aspetti. Infatti, i vari gruppi etnici minori non sono legittimati ad usare la propria lingua nativa, sono spesso più poveri e hanno più difficoltà ad accedere ai servizi governativi; non solo, ma i loro membri sono più soggetti a incarcerazioni ed esecuzioni.

L’unione politica dei vari gruppi etnici e la perdita del controllo delle province abitate dalle minoranze potrebbe diventare un problema per il governo iraniano. Nello specifico, la rilevanza per lo stato centrale della causa curda nell’ambito dei recenti disordini è evidente. Il Rojhilat, provincia a maggioranza curda, è stata la zona maggiormente soggetta alle repressioni dello stato iraniano. Qui, i civili sono stati repressi con armi pesanti e veicoli militari. Secondo Ramyar Hassani dell’Organizzazione Hengaw per i Diritti Umani, ci sono prove che i civili siano stati uccisi con mitragliatrici calibro 50, normalmente usate solamente in zone di guerra. Nonostante queste affermazioni, è difficile ottenere informazioni accurate riguardanti la provincia, in parte a causa dell’interruzione forzata di internet nel paese in seguito alle proteste. Un dato certo è che il governo iraniano ha mosso le proprie truppe vicino al confine iracheno, con l’intenzione di provocare i gruppi militari curdi all’azione. Nella zona, infatti, si trovano anche i centri di addestramento militare delle donne curde d’Iran, nascoste nelle montagne perché dissidenti politiche. Secondo Kamran Matin, professore di Relazioni Internazionali presso l’Università del Sussex, i curdi rappresentano un vero e proprio pericolo per lo stato iraniano. Sono un vero e proprio gruppo di opposizione organizzato all’interno di uno stato totalitario, e hanno una lunga storia di resistenza in Iran e all’estero.

Anche nella Rivoluzione Islamica del 1979 i rivoluzionari sciiti e il KDPI (Partito Curdo Iraniano), che combatteva per l’indipendenza, si scontrarono pesantemente. I leader del KDPI vennero poi costretto ad abbandonare il paese negli anni ’80. Più recentemente sono emersi altri gruppi militanti, come il Partito per la Vita Libera in Kurdistan (PJAK). A causa delle repressioni da parte del governo iraniano in Rojhilat, anche i leader di questo partito si sono visti costretti a fuggire oltre confine, nel Rojava (Kurdistan iracheno). Al momento, sono moltissimi gli iraniani dissidenti che fuggono oltre le montagne per raggiungere il Kurdistan Iracheno, anche se non è possibile avere dati precisi a riguardo data la difficoltà a raggiungere la zona per gli stessi reporter. Essendo a conoscenza della presenza di questi gruppi dissidenti, l’Iran ha lanciato svariati missili oltre confine per poter colpire i “traditori” rifugiati in quel territorio. Il generale Mohammad Bagheri, capo delle forze armate iraniane, ha detto chiaramente: «Sappiamo dove si trovano i traditori. Sappiamo che [tutto ciò] arriva dalle regioni curde dell’Iran».

Le proteste in Iran sono sia un movimento delle donne per l’emancipazione femminile sia un movimento politico di resistenza al regime. Jin, Jîyan, Azadî significa Donna, Vita, Libertà, dove per vita e libertà s’intende una società libera, con condizioni socioeconomiche giuste. L’ipocrisia della teocrazia iraniana impone un regime morale estremamente duro ai suoi cittadini, ma lascia che le donne vicine agli ambienti governativi vivano il benessere occidentale senza pagarne alcuna conseguenza dal punto di vista morale e sociale. La decisione di punire un cittadino da parte della polizia morale si basa spesso sulle condizioni economico-sociali del cittadino stesso, più che sulla moralità della sua condotta. Jîna Emînî, la giovane donna uccisa a metà settembre dalla polizia morale, non solo era una donna nella repubblica teocratica islamica, ma era anche una giovane curda in Iran. Non c’è prova che la sua identità etnica abbia contribuito alla morte per mano della polizia morale. Nonostante ciò, la sua figura rappresenta gli oppressi del regime iraniano: non solo le donne, ma anche i curdi, i beluci, gli arabi, i turkmeni. Non si possono veramente capire le proteste in Iran senza parlare delle minoranze etniche che abitano le province lontano da Teheran.

«Mi sembra che [Jîna Emînî] sia morta due volte perché nessuno menziona la sua identità curda» ha detto Beri Shalmashi, scrittrice e regista con origini curde-iraniane che ora vive ad Amsterdam. Dopo 44 anni di dittatura, gli iraniani stanno protestando contro la polizia morale, il gender gap, le esecuzioni extragiudiziali, il finanziamento del terrorismo, e la corruzione del governo. Marjane Satrapi, artista iraniana con base a Parigi, ha sottolineato in un’intervista alla CNN che i giovani iraniani vogliono la democrazia. L’Iran è cambiato nel corso di 44 anni. Nel 1979 solo il 40 per cento della popolazione iraniana era alfabetizzato. Oggi invece, si tratta di più dell’80 per cento. Secondo Satrapi, il governo non conosce i propri cittadini: oggi, la maggioranza degli iraniani è contro la teocrazia, e i giovani riconoscono che non può esserci libertà se le donne sono oppresse. I prossimi mesi saranno cruciali per le sorti del paese, e per capire se un’alternativa effettiva al regime teocratico islamico è possibile per l’Iran.

Articolo di Lucia Bertoldini