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Se la malattia si chiama Università
Il caso Scirè, il potere assoluto e le infiltrazioni “mafiose” negli atenei italiani
Quello di “barone” è un epiteto che evoca, a chi ha dimestichezza con lo studio della storia, tempi antichi. Tempi in cui il potere era inscindibile dal sangue, tempi in cui la società segmentata tra nobiltà, clero e terzo stato rendeva impossibile qualunque tipo di mobilità sociale. La realtà contemporanea spesso però collide con le aspettative e dunque nonostante l’abolizione dei titoli nobiliari, i baroni esistono ancora: non indossano più una corona, non dimorano più in palazzi vistosi, ma esercitano tuttora un potere, sono attorniati da una servitù e decidono della vita o della morte – in senso figurato – della carriera lavorativa di numerose persone che ruotano nell’Università italiana.
I baroni universitari, titolari di cattedre, antepongono l’utile privato al pubblico, favorendo dinamiche nepotistiche e ingessano i templi del sapere italiano e, di conseguenza, internazionale.
Università, lo scandalo per gli altri ma la normalità per tutti
Il libro-inchiesta Mala Università edito da Chiarelettere offre lo spunto per riflettere su un fenomeno che, come un fiume carsico, continua a scorrere, nonostante emerga in tutta la sua evidenza solo nel momento in cui produce gli scandali più evidenti. L’autore, Giambattista Scirè, è un accademico siciliano “catapultato” nella sfera mediatica e di cronaca per essere stato vittima della concorsopoli dell’Università di Catania. In seguito all’accaduto ed all’inaspettata attenzione che ha ricevuto, Scirè ha dato vita all’associazione Trasparenza e Merito. L’università che vogliamo che si prodiga in una missione di supporto dei tanti ricercatori, assegnisti, dottorandi, professori che cadono vittime del nepotismo accademico italiano. Nel 2011 Scirè, una volta conseguito il dottorato all’Università di Firenze, partecipa ad un concorso da ricercatore in Storia contemporanea bandito dall’Università di Catania. Il protagonista della vicenda viene escluso a favore di una candidata che però, a seguito di un’investigazione portata avanti dallo stesso Scirè, risulta laureata in Architettura e sprovvista dei titoli considerati necessari per l’insegnamento della materia alla quale si era candidata. La persistenza del protagonista Scirè porta la vicenda all’attenzione della stampa che presto la trasforma in una vicenda di dominio pubblico. Il sospetto, più che fondato, è che già prima dello svolgimento del concorso si sapesse chi dovesse vincerlo. Iniziano così le indagini della magistratura che rivelano il segreto di Pulcinella: il concorso per la cattedra di Storia contemporanea all’Università di Catania è stato truccato e che, lungi dal trattarsi di un’eccezione, questa costituisce una prassi ben presente nell’accademia italiana. La vicenda personale di Scirè, che si concluderà con il pronunciamento da parte dei giudici di una condanna dei commissari, raccoglierà solidarietà e attenzione da parte dell’opinione pubblica, ma soprattutto offre uno spunto per ragionare su quello che è uno dei vulnus principali dell’Università italiana: il baronato.
Partendo dalla propria esperienza personale, Scirè compie una disamina approfondita dei meccanismi perversi che regolano il reclutamento del personale nell’accademia italiana. Fenomeno non solo – ma in gran parte – italiano, il baronato universitario si caratterizza come una pratica di distribuzione degli incarichi di stampo nepotistico che si concretizza nella distribuzione di privilegi in maniera totalmente arbitraria e slegata da qualsiasi logica di tipo meritocratico. Le vittime di questa prassi non sono solo i tanti studiosi che decidono di non stare al gioco, ma anche tutti quegli studenti che vedono la propria formazione affidata ad un personale che è lì solo perché il celebre “figlio di” e non per le sue brillanti doti di didattica e ricerca.
Ma se la Costituzione italiana stabilisce, all’articolo 97, che «agli impieghi delle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso», come è possibile che invece ad una cattedra universitaria si possa accedere mediante favoritismi? A poco sono servite, secondo Scirè, le riforme dell’Università che si sono susseguite negli anni, anzi si coglie come queste si siano limitate – con pochi aggiustamenti – a fissare lo status quo per non scontentare nessuno. La legge in merito infatti spesso sancisce conflitti di interessi, pratiche dannose, e nessuno davvero ha mai avuto il coraggio di metterla in discussione. I risultati di questo immobilismo legislativo sono: la fuga di cervelli all’estero (in parte), lo scadimento della didattica e della ricerca, la perdita di autorevolezza dell’istituzione Università – che al contrario dovrebbe svolgere un ruolo guida per la società tutta. Prendendo spunto da alcuni casi individuali, Scirè racconta così la mala università, tessendo la trama del potere accademico e fotografando una situazione che rappresenta la realtà universitaria italiana in tutta la sua drammaticità.
Lo Stato che censura se stesso
«C’è addirittura insofferenza, astio, verso chi rende pubblici e dimostra, dati alla mano, il diffuso fenomeno del malcostume accademico e le criticità della ricerca scientifica». Così Giambattista Scirè sintetizza amaramente lo stato della trasparenza all’interno dell’istituzione universitaria. Eppure, guardando alle procedure con cui le Università italiane controllano quali informazioni possano essere rilasciate al pubblico, il quadro è ancora più allarmante. Queste dinamiche, che solo sulla carta sono rigidamente trasparenti, celano in realtà una gestione aziendalistica e opaca del sapere pubblico: un’evoluzione della tradizionale baronia universitaria, che trasforma le accademie pubbliche in un “feudo”, spesso a disposizione delle compagnie private. Il rischio – estremamente concreto – è l’assoggettamento della libera ricerca scientifica a logiche del tutto estranee a quelle dell’interesse comune.
Il caso più eclatante di ingerenza sulla ricerca universitaria è quello di Eni: come reso noto a settembre 2021 dall’Unità investigativa di Greenpeace, il colosso petrolifero statale ha accordi con 36 delle 66 università presenti in Italia. Greenpeace Italia ha presentato altrettante richieste di accesso agli atti per ottenere i testi di questi accordi. Solamente un quarto delle università (per la precisione, 9) ha acconsentito alla pubblicazione dei documenti richiesti. Delle restanti, 12 hanno accolto solo parzialmente la richiesta o fornito documenti in parte censurati. Ciò significa che per il restante 40% degli atenei che collaborano con il Cane a sei zampe non è possibile conoscere la natura e il contenuto delle partnership.
Ma chi decide cosa si può e cosa non si può rendere noto all’opinione pubblica? In base alla normativa che nel nostro Paese disciplina l’accesso civico agli atti, se la richiesta di pubblicazione dei documenti riguarda un altro soggetto (il cosiddetto “controinteressato”), questi può presentare motivata opposizione al rilascio delle informazioni. In una delle richieste presentate da Greenpeace, Eni – cioè il controinteressato – si è opposta in quanto i documenti «non ineriscono alla promozione di un dibattito pubblico», bensì a «un mero bisogno conoscitivo privato». Si arriva così al primo paradosso: nonostante l’accordo sia con un soggetto pubblico – l’università, appunto, che dovrebbe rispondere a criteri di trasparenza e pubblicità nei confronti della cittadinanza – la tutela degli interessi del privato viene prima di ogni esigenza di informazione nel dibattito pubblico. Insomma, è la multinazionale dell’oil&gas a decidere quali informazioni sono utili al cittadino per esercitare decisioni consapevoli e quali no. Il secondo paradosso, se possibile, è ancora più stridente: Eni non è una multinazionale esclusivamente privata, ma è controllata per il 30% da un «azionista pubblico» – il Ministero del Tesoro e Cassa Depositi e Prestiti, rispettivamente con il 4% e il 26% delle quote. Come per qualsiasi controllata statale, la nomina dell’amministratore delegato è di pertinenza del Governo. In pratica, rifiutando le richieste di accesso agli atti, lo Stato censura se stesso.
«È innegabile – ha spiegato al Fatto Quotidiano Alessandro Giannì di Greenpeace Italia – che i soggetti privati che finanziano le ricerche accademiche abbiano un ruolo determinante nell’indirizzare la ricerca stessa, definendone ambito e finalità e che possono anche influenzare l’attività didattica degli atenei. Per questo motivo è un diritto conoscere le somme che le aziende private investono nelle università pubbliche e su quali progetti chiedano a ricercatrici e ricercatori di lavorare». La possibilità di controllo sull’operato dei privati che stringono accordi con gli atenei, però, viene fortemente indebolita dagli omissis spesso presenti nei documenti resi pubblici. Scomodo lo aveva già documentato alcuni mesi fa nell’inchiesta sull’Accordo Quadro firmato dall’Università di Bologna proprio con il Cane a sei zampe. Infatti – anche se le aziende non negano la pubblicazione delle informazioni – spesso i testi presentano intere pagine annerite. E, ancora più spesso, le parti censurate riguardano dati chiave per interpretare quanto è forte l’influenza della parte privata su quella pubblica: durata degli accordi, cifre, date, nomi e – cruciale nel caso della ricerca scientifica – disciplina dei brevetti. Ovvero la risposta alla domanda: chi guadagna dalle scoperte che i ricercatori fanno negli atenei?
Come nel caso dell’Accordo di Partnership siglato dal Politecnico di Torino con la multinazionale cinese della tecnologia Huawei l’8 giugno 2021. Si tratta di una partnership importante, dalla durata – si legge nel comunicato ufficiale – di 10 anni. Scomodo inoltre ha presentato richiesta di accesso civico generalizzato per ottenere il testo completo. Huawei si è opposta alla pubblicazione integrale, a causa della presenza di «informazioni confidenziali e, in alcune parti, proprietà intellettuale della Società e, come tali, qualificate quali segreti commerciali». Il Politecnico ha pertanto inviato un testo in cui non è possibile leggere, ad esempio, quali sono le «aree di interesse comune» o la durata del contratto. Anche l’intero articolo 5, intitolato «Possesso dei diritti di proprietà intellettuale e industriale dei risultati derivanti dalle attività commissionate», è censurato, insieme con le firme in calce all’Accordo. Come scrive Scirè in Mala Università «si preferirebbe, nel mondo accademico, il silenzio». Non solo il silenzio, anche l’omissis.
«E a tutti quei cittadini che credono, ancora, di poter cambiare il mondo»
A dieci anni di distanza dal caso, la scelta di pubblicare un libro che snodasse i passaggi in maniera lineare era necessario: da un lato, per ampliare la sfera di consapevolezza del sistema universitario in toto e dall’altro per creare un’opportunità di condivisione e di denuncia per tutti e tutte coloro che vengono a conoscenza della mala-gestione accademica. Il fattore essenziale che ha determinato la decisione di pubblicare Mala Università – in un certo senso “postumo” – è stata la lucidità. La narrazione non è una raccolta di supposizioni o di singoli casi ma è un’analisi razionale delle condizioni dimostrate che permettono di affermare che il sistema universitario è tanto malfunzionante quanto da considerarsi malato.
Scirè racconta a Scomodo di come, una volta emerso il caso, l’ambiente accademico a sé circostante non si sia dimostrato né solidale né abbia preso una posizione determinata per fare chiarezza sull’accaduto ma soprattutto per indagare su ciò che era diventata – di fatto – una prassi. La linea sottile tra la pratica omertosa del corpo docenti ed il timore di denunciare è ciò che è emerso chiaramente ed è anche ciò che ha dato lo slancio vitale per progettare, fondare e rendere viva l’organizzazione Trasparenza e Merito nata dal meccanismo collettivo di denuncia da parte di professori e professoresse universitarie. «L’associazione Trasparenza e Merito è nata per contrastare la masso-mafia accademica. Ammetto senza difficoltà, però, che inizialmente non avevamo la piena consapevolezza e la percezione reale della potenza del sistema di potere accademico», così racconta Scirè. In un sistema universitario, in cui senza la docenza e senza gli studenti il meccanismo binario della didattica sarebbe azzerato, diventa centrale la consapevolezza delle pratiche “clientelari” rispetto allo scambio culturale e alla garanzia di vivere un posto-spazio sicuro, nel senso più ampio del termine.
La relazione dunque tra studenti, studentesse e docenti volge lo sguardo ad un ulteriore orizzonte di riflessione. Il futuro per l’università diventa precario, debole e fallimentare a partire dall’insegnamento passando dalla ricerca ed alle relazioni di crescita tra i saperi. Come può la ricerca accademica essere realmente funzionale ad un cambiamento intellettuale? «Una volta compreso che un sistema universitario più equo, più democratico, più trasparente, più meritocratico, giova a tutti, mentre da un sistema truccato, corrotto, clientelare, diseguale, traggono vantaggio in pochi, o comunque un ristretto numero di persone rispetto alla maggioranza, occorre convogliare le energie attraverso una spinta dal basso, che porti a uno scatto, a un cambiamento e a una vera e propria rivoluzione culturale».
Come può allora crearsi l’impatto culturale e al limite del rivoluzionario tanto auspicato dall’accademia fin dalle proprie origini?
Articolo di Edoardo Anziano, Roberto Smaldore e Federica Tessari