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Media
“I media si moltiplicano, si fissano ossessivamente nell’analisi del particolare, scomponendo la realtà e rendendola frammentaria, giocando con i loro stessi limiti.”
La letteratura che sancisce e analizza il rapporto tra potere e mezzi di comunicazione è stata immensa nell’ultimo secolo. E si può dire che la scintilla per l’avvio di questa analisi sia stato l’uso massiccio, e di portata perlopiù inedita, di tali mezzi nell’ambito dei regimi autoritari e totalitari che hanno segnato il secolo breve e sancito la nascita della società di massa.
La curva sempre crescente dello sviluppo tecnico e il delinearsi di rapporti di forza inediti tra classi sociali, fatti di nuove formule di riproduzione e rottura, sono stati il terreno fertile per il profilarsi delle funzionalità dei diversi media e, oggi, social media. Questi ultimi non cessano di conoscere una sostanziale specializzazione delle proprie funzionalità e dei linguaggi: i media si moltiplicano, si fissano ossessivamente nell’analisi del particolare, scomponendo la realtà e rendendola frammentaria, giocando con i loro stessi limiti. Basti pensare a come Instagram si sia guadagnato il monopolio dell’immagine, Twitter della scrittura, TikTok del movimento, e via dicendo. Dall’altra parte, hanno generato un certo grado di uniformità locali in cui gli utenti sono in qualche modo investiti di una cittadinanza digitale, fatta di certe abitudini linguistiche e orizzonti di senso. Infatti, non soltanto i presupposti storici, culturali, sociali hanno dato una forma alla nozione di medium così come la intendiamo oggi, ma la relazione è diventata ben presto bilaterale: anche i media influenzano i nostri costumi, il patrimonio dell’immaginario, del lessico, della cultura.
Il dibattito del secolo scorso si è spesso concentrato proprio su questo secondo corno del dilemma, soprattutto sulle ricadute negative dei media di massa sulle istituzioni e sui comportamenti e le credenze degli utenti. In particolare, il modello degli effetti forti elaborato tra gli anni Trenta e Quaranta – ne è un esempio è la teoria ipodermica di Lasswell – che sosteneva l’influenza persuasiva dei media su un soggetto considerato totalmente passivo. La base teorica era fornita dalle analisi tecniche di propaganda impiegate con efficacia nella Prima e nella Seconda guerra mondiale. Da ricordare anche la teoria dell’agenda setting elaborata dagli studiosi Maxwell McCombs e Donald Shaw, secondo la quale i mass media non riflettono la realtà, ma piuttosto la filtrano e la modellano. Inoltre, fu sottolineato come i mass media concentrino la loro attenzione su pochi temi e si sforzino di far credere al pubblico che essi siano i più importanti; da questa idea nasce anche la teoria della “spirale del silenzio” elaborata da Elisabeth Noelle-Neumann, secondo cui i mezzi di comunicazione di massa siano in grado di enfatizzare opinioni e sentimenti prevalenti, mediante la riduzione al silenzio delle opzioni minoritarie e dissenzienti.
Nel lungo dopoguerra, intellettuali e opinione pubblica si sono per lo più polarizzati su due posizioni che Umberto Eco ha efficacemente riassunto con la formula “Apocalittici e Integrati” che dà il titolo al celebre saggio del 1964, cioè di critica austera da una parte e di ingenuo ottimismo dall’altra nei confronti dei media di massa. Eco nel suo saggio riusciva inoltre a suggerire, e in parte ad anticipare, in maniera lungimirante la commistione di interessi, stimoli e contraddizioni che animano la cultura contemporanea, ed il ruolo proprio dei mezzi di comunicazione nell’abbattere la verticalità che aveva connotato la cultura degli intellettuali fino al secolo precedente, permettendo la nascita di una cultura pop che incontra l’erudizione e l’eredità culturale tradizionale. L’intellettuale contemporaneo, spiega Eco, è costitutivamente eclettico e in grado di percorrere fino ad abbattere la gerarchizzazione sulla quale per secoli si è cristallizzato il sistema della cultura, e questo sembra volerci dire anche Baumann parlando di cultura liquida.
Con l’avvento dei social media, o nuovi media, questo dibattito non cessa, ma muove da presupposti ed implicazioni spesso differenti. I social media rappresentano fondamentalmente un cambiamento nel modo in cui il pubblico legge, apprende e condivide informazioni e contenuti. Cambia radicalmente il modello di comunicazione tipico dei media tradizionali: il messaggio non è più “da uno a molti”, monodirezionale, dal broadcaster al suo pubblico, ma di tipo “peer”: più emittenti, alto livello di interazione. Per questo vengono anche definiti user-generated content (UGC) o consumer-generated media (CGM). La novità più rilevante riguarda la possibilità per gli utenti di essere editori di contenuti e quindi di essere coinvolti in una partecipazione attiva nella creazione e nella diffusione delle informazioni, tanto che spesso si parla di democratizzazione del web. Ma i limiti della nuova democrazia sono molti e questo sta diventando sempre più chiaro, perché il dispositivo sul quale i contenuti si producono, si scambiano, si generano e circolano non è affatto uno spazio neutro, ma il risultato dell’esercizio di forze squilibrate e eterogenee. Così, per l’utente social, rispetto al fruitore dei tradizionali media di massa, non è più efficace la descrizione delle teorie sociologiche degli anni Trenta che ritraeva un soggetto passivo e “rimpinzato” da un flusso di informazioni anonimo ed estraneo. L’utente e il frequentatore dei social media è egli stesso creatore di contenuti, a vario titolo e grado, d’altra parte l’attività che gli è propria non fa altro che scontrarsi con condizionamenti e limiti: censura, controllo politico, proprietà alterano e condizionano l’interazione e il flusso delle informazioni in una maniera più subdola, ma forse ancora più prepotente, di quanto accadesse nell’epoca delle masse, frammentando la comunità del social, dividendola, nell’illusione di annullarne le distanze fisiche e culturali.
Articolo di Susanna RugghiaGrandissimo
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