Mignonnes, quando la censura parte dal basso

Jean Luc Douin, critico cinematografico, nell’introduzione alla sua opera Dictionnarie de la censure au cinéma (pubblicato in Italia da Mimesis Cinema) parla dell’origine della vita come proiezione:  “quello di un bambino fuori dal ventre della madre”. E di come tutto cominci con un suono. Il bambino grida prima di vedere. La parola viene prima dell’immagine. Questo è per Douin un principio basico delle religione, in particolare quella cristiana, secondo cui la rappresentazione è da condannare, perché “sospettata di alimentare l’idolatria”. Il critico francese parla a questo punto del peccato originale di Adamo ed Eva, quello di aver “aperto la porta al mondo dello specchio, a quei riflessi che suscitano turbamento, seduzione, male. Si sono scoperti: si sono visti nudi. Hanno avviato il ciclo infernale della persecuzione puritana”. Partendo da Adamo ed Eva per giungere alla nascita del cinema,  e a uno dei primi baci della storia del cinema (quello di The Kiss, 1896, tra May Irwin e John C. Rice) Douin afferma l’essenza multiforme della censura. Essa può essere emanata dall’alto o dal basso. Dall’alto è lo Stato ad agire, dal basso ad oggi sono, ad esempio, gli utenti di Twitter. E quello che è successo a Mignonnes ne è esempio concreto.

Esiste quindi la censura intesa come censura di Stato e quella, invece, intesa come vaglio del pubblico corrispondente  ad un “lasciapassare” da parte degli utenti dei social, che spesso si prodigano in giudizi affrettati sulle opere, bollandole come offensive prima ancora di averle visionate. Il caso di Mignonnes, il film di Maimona Doucoureu però ha dimostrato che l’utente non ha una percezione molto lontana da quella di John Gordon, direttore del Sunday Express, che, nel lontano 1953 scrisse di Lolita di Nabokov: “è la cosa più sporca che io abbia mai letto”. La “censura dal basso” però, negli ultimi anni, grazie a modalità inedite ha ottenuto un potere forse mai così grande. Dallo scandalo MeToo ad esempio ci siamo imposti un rigore, una serie di paletti da cui è difficile prescindere, paletti che in poco tempo sembrano essere diventati insiti nell’utente medio che si esprime sui social. L’avvento della cultura cancel è sicuramente un turning point nel nostro discorso: sebbene partito come un Internet joke con intenzioni inizialmente innocue, come sottolineato nel documentario “Speaking frankly, cancel culture” della CBS, si è evoluto in un meccanismo che può tramutare qualcuno o qualcosa in pariah, ovvero un emarginato, non più supportato.

Solitamente, si dice di figure pubbliche che vengono cancellate, dopo che hanno fatto quel passo falso che non dovevano fare.  Il problema emerge nel soffocamento dello scambio libero di idee e informazioni, che sono la “linfa vitale di una società liberale”, come si cita nella lettera aperta pubblicata sulla rivista Harper’s, firmata da oltre 150 tra famosi scrittori, accademici, giornalisti e attivisti. “L’intolleranza per le opinioni diverse, l’abitudine alla gogna pubblica e all’ostracismo – dichiarano – si sta diffondendo pericolosamente.” […] “è diventato troppo normale sentire richieste di tempestive e dure punizioni in risposta a quelli che vengono percepiti come sbagli di parola o di pensiero. Questa atmosfera opprimente finirà per danneggiare le cause più importanti dei nostri tempi. Il modo di sconfiggere le idee sbagliate è mettendole in luce, discutendone, criticandole e convincendo gli altri, non cercando di metterle a tacere. Rifiutiamo di dover scegliere tra giustizia e libertà, che non possono esistere l’una senza l’altra. Abbiamo bisogno di una cultura che lasci spazio alla sperimentazione, all’assunzione di rischi, e anche agli errori.” In definitiva, come conclude la lettera:  “Dobbiamo preservare la possibilità di essere in disaccordo in buona fede, senza timore di catastrofiche conseguenze professionali. Se non difendiamo quello da cui dipende il nostro lavoro, non possiamo aspettarci che lo faccia il pubblico o lo Stato.” La cancel culture rimane un problema aperto e la messa in atto dell’eliminazione è dovuta a una maggiore o minore sensibilità sull’argomento messo in discussione.

Il caso di Mignonnes di Maimona Doucoure, una Nabokov fuori dal tempo, è un opera che scandalizza molto di meno rispetto allo scrittore russo con la sua Dolores Haze, ma mette ancora a dura prova la bassa soglia di tolleranza dello spettatore medio, che ancora sente un brivido lungo la schiena quando compie il peccato originale: guardare. Ma che al Sundance, probabilmente un covo di pedofili e pervertiti di ogni genere, ha vinto il premio per la miglior regia. Mentre lo stato agisce molto di meno in modalità censoria rispetto a vent’anni fa, lo spettatore medio spinge per la rimozione di quei contenuti che ritiene oltraggiosi. Ci troviamo in un ribaltamento rispetto al celebre film del 1988 di Giuseppe Tornatore Nuovo Cinema Paradiso. Lì il prete che visiona i film prima che vengano visti dal pubblico del piccolo paese siciliano dove è ambientato il film, facendo apportare dei tagli sulle scene di bacio. Quando il giovane protagonista Salvatore diventa proiezionista decide, come piccolo atto di ribellione al bigottismo del paese, di non tagliare il bacio in una scena, scatenando le reazioni gioiose del pubblico. Mentre il prete sbotta: “Io non vedo film pornografici”.  Allo stesso modo l’accezione negativa del termine pornografico viene spesso usata per quantificare l’oscenità di un prodotto. Come Lolita è stata definito “sporco, osceno, pornografico”,  oggi Mignonnes è pedopornografia.

Un improvvisato censore: Rai Cinema e la diatriba con Maresco

Cercare l’angolo di scomodità, che inchiodi chi osserva alla responsabilità dell’atto del guardare. Allo stesso modo vi riesce ancora una volta Franco Maresco, con la pirandelliana intenzione di lasciare lo spettatore interdetto, facendo leva su una personale presa di coscienza. Il caso di censura dall’alto in questione riguarda La mafia non è più quella di una volta, ultimo film documentario del noto regista siciliano e continuum del precedente Belluscone – Una storia Siciliana. Il film riprende dal prequel lo stravagante tanto grottesco personaggio di Ciccio Mira, self-made man che ha dedicato la sua vita all’organizzazione di cerimonie ed eventi musicali, scovando giovani talenti per le strade del capoluogo siciliano. Se però il tentativo mareschiano del Belluscone si concentrava nello smascherare un sentimento politico al limite dell’idolatria, con La mafia non è più quella di una volta regala un’aspra considerazione sulla graduale dissipazione di una partecipazione autentica e impegnata alla lotta alla mafia. Cosa rimane oggi del sentimento mafioso, e soprattutto cosa della battaglia contro il fenomeno mafioso? Ecco le domande intorno alle quali si snoda il nucleo principale della ricerca di Maresco. 

Sorge spontaneo allora chiedersi quali corde ha solleticato il regista per scomodare RAI Cinema tanto da indurla a rimuovere il proprio logo di paternità. A detta del regista e dei suoi legali, non la dimensione surreale di una memoria mistificante, o gli innumerevoli inciampi lessicali di Ciccio Mira, ma apparentemente quella scomoda luce puntata sulla più alta carica dello Stato. Se c’è una religione in Italia, quella è la politica e così la satira diventa turpiloquio, bestemmia. Il film avanza una critica nei confronti del silenzio del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in merito alla rivoluzionaria sentenza del 20 Aprile 2018, che per la prima volta confermò il collaborazionismo tra cariche pubbliche e membri di Cosa Nostra. “I Palermitani ce l’hanno nel Dna il silenzio” – commenta con orgoglio Ciccio Mira in una delle interviste di cui è protagonista, durante la quale gli si chiede se sia d’accordo con l’assenza di un commento presidenziale sull’esito del processo. Le parole dure dell’impresario vengono accompagnate da una richiesta di grazia per il nipote detenuto in regime di 41-bis, millantando una storica conoscenza tra la propria famiglia  e quella del Presidente. Questi ultimi contenuti agitano le acque Rai, che mette sotto accusa gli elementi che seminano dubbi e illazioni potenzialmente offensivi verso il Capo dello Stato.

Quando lo spettatore diventa temuto censore: Mignonnes e la cancel culture 

“Mignonnes” o, tradotto terribilmente in italiano, Donne ai primi passi”, un racconto di formazione, è stato accusato di incentivare la pedofilia e la sessualizzazione di ragazzine in fase pre-adolescenziale che, per evadere dalla realtà, twerkano in modo ammaliante su basi simil-pop con atteggiamenti talvolta provocatori, cercando di apparire più adulte dandosi in pasto ai social media. Nulla di sconcertante, è basato su migliaia di storie che accadono tutti i giorni. Sicuramente non si tratta di un film rivoluzionario, ma è stato premiato con l’Award alla direzione al Sundance Film Festival per un motivo: Decouré riesce a evidenziare la discrepanza tra la mancata realizzazione da parte di alcune bambine della loro sessualità e come invece il pubblico le percepisce. Sebbene il film abbia ricevuto diverse critiche positive, il grande scalpore è partito dalla copertina con cui Netflix ha deciso di presentare il film: le bambine, infatti, vengono ritratte in pose seducenti e con vestiti di scena ben attillati. La particolarità della critica su Mignonnes è che la maggior parte del pubblico si è fermata semplicemente a giudicarne il poster, non visionando poi, effettivamente, il film.

Ciliegina sulla torta, il colosso dello streaming ha deciso di presentarlo come un film VM14, il che per molti è stato un enorme controsenso: Decouré inscena una storia di un gruppo di undicenni ai primi passi e i cambiamenti della loro vita, perché privare del film proprio la fetta di pubblico che più può essere interessata all’argomento? Semplice, perché questo non è affatto un film per bambini.

È indirizzato a un pubblico adulto, che dovrebbe cercare di comprendere il fenomeno della pericolosità dei telefoni messi in mano troppo presto e senza alcun limite. Si tratta di un lungometraggio che si dimostra in grado di far sentire lo spettatore a disagio, provocando una sensibilizzazione su come il corpo di una bambina può essere sessualizzato e di come i social media influiscono su questo fenomeno. Vuole rendere partecipe il pubblico della fragilità di Amy,  una bambina di origine senegalese che si scontra con la propria famiglia e con la sua vita fatta di religione e severa situazione casalinga, vedendo nel modello di vita occidentale, ovvero nelle sue compagne di scuola, una libertà che vuole raggiungere. Decouré ha ritratto qualcosa di simile alla sua vita, sottolineando che il messaggio principale è la preziosità dell’infanzia. Ma questo, a quanto pare, non è stato colto. E se qualcosa è capace di smuovere una massa visceralmente, si tenta di cancellarlo.

Il web contro Mignonnes

Subito è andato in trend l’hashtag #cancelnetflix. Un click dopo l’altro e la piattaforma perde 9 miliardi in Borsa in un solo giorno dopo una petizione, che accusa il film di ipersessualizzare giovani per “la goduria visiva dei pedofili”. Questa petizione, su Change.org, ha trovato il consenso di 660mila firme, per poi essere rimossa. Dopotutto, questa è l’era della cancel culture, ovvero l’era di una collettività che si erge a giudice e giuria e boia proprio per cancellare quei personaggi che vengono colpevolizzati di assumere comportamenti ritenuti immorali.

Probabilmente,  se il capolavoro di Nabokov “Lolita”, fosse uscito in versione cinematografica durante lo scoppio della cancel culture, il mondo si sarebbe mosso per rendere il film illegale, facendo cadere l’Internet in un enorme putiferio.

Ad ogni modo, per Netflix questo è stato un anno a dir poco discutibile. Si è ritrovato protagonista di un altro scandalo simile, prima di Mignonnes, con il film polacco pseudo erotico 365 Days, diretto da  Barbara Białowąs e Tomasz Mandes, uscito sulla piattaforma a giugno. Il film drammatico è stato primo in classifica in diversi Paesi non europei e gli amanti dei film di Fifty Shades hanno fatto i salti di gioia trovando un film parallelo, della stessa materia su un sito così accessibile invece di YouPorn. Ciò che è andato storto in questo caso è stato, più o meno, tutto. La trama già fa intuire la tipologia vista e rivista: un boss mafioso con palate di soldi, splendido e pieno di testosterone rapisce una paradisiaca donna d’affari polacca, in gita con il suo ”deludente” fidanzato. In sostanza, lo spietato protagonista, Massimo, le da un anno di tempo per farla innamorare perdutamente di lui, riempiendola di regali e di viaggi, e di sesso non consenziente. Velocemente, la donna si adatta alla situazione trovando piacere nel venire strangolata e incatenata dal suo rapitore.

Anche in questo caso, migliaia di critiche su Twitter e Instagram sottolineano come il film normalizzi lo stupro e la violenza sessuale, sebbene sia stato etichettato come “dramma romantico”. Tuttavia sembra che il problema principale, anche in questo caso, sia l’approccio banale e superficiale di alcune serie Netflix alle situazioni psicologiche dei protagonisti.

Mignonnes è solo un esempio come molti altri, il cinema causa quotidianamente sgomenti a non finire. È simbolo, però, della continua ascesa del fenomeno con il passare dei mesi. La censura che parte dal basso si sta spargendo in maniera così contagiosa che bisogna quasi temerla. Le rivolte che nascono da una presa di coscienza di un utente medio sul proprio potere, sono molteplici e di giorno in giorno sempre più aggressive. Internet viene controllato da chi ne usufruisce, ovvero dagli utenti, che hanno deciso di prendere il comando del gioco. Questa nuova e pericolosa politica rende il consumatore creatore e distruttore di personalità talvolta artistiche, che vengono rese fantasmi, se azzardano un solo passo falso. Non si concedono seconde chance a coloro che non riescono a far cogliere appieno e a far accettare, il loro messaggio a un pubblico che ha le orecchie sempre rizzate per cogliere ciò che va storto. La community giudica e, di conseguenza, agisce, diventando un severo ed esigente censore, che sta trasformando il suo potere, mano a mano, in assoluto. Si ritorna alla citazione di Flaubert, secondo cui lo spettatore è l’unico censore, l’unico illuminato.  Nella visione dello spettatore come re, siamo tutti d’accordo. Il pubblico ha sempre ragione. Basta che non eserciti il suo potere in modo dittatoriale. Rispetto ad uno Stato, che, ancora, ha paura di “guardare”. O più semplicemente di essere guardato.

Articolo di Cosimo Maj, Giulia Alioto e Lia Tore