Reati ambientali, in Veneto il processo più importante d’Italia

Il primo luglio si è aperto alla Corte d'Assise di Vicenza il processo alla Miteni per reati ambientali

14/07/2021

L’inquinamento da PFAS, sostanze anche note come perfluoroalchiliche, della zona in provincia di Vicenza deriva dalle acque reflue provenienti dall’azienda chimica Miteni Spa di Trissino, ormai fallita ma il cui sito industriale è tuttora attivo. Nel giugno del 2013, a seguito di una relazione dell’Istituto di Ricerca Sulle Acque del Consiglio Nazionale delle Ricerche (IRSA-CNR), è venuta alla luce l’eccessiva diffusione di sostanze chimiche altamente tossiche e le autorità competenti hanno iniziato ad indagare sulla questione, che ora è tristemente nota per essere il disastro ambientale maggiore d’Italia. Il 26 aprile 2021 i 15 imputati del processo PFAS, Miteni compresa, sono stati rinviati a giudizio ed è stata sancita l’imprescrittibilità dei reati ambientali. Si sono costituiti parte civile oltre 200 soggetti, tra cui Acque Venete, Regione Veneto, Greenpeace, Legambiente e Mamme NoPFAS. Il processo in corso, il più importante per reati ambientali in Italia, risulta dall’unificazione, avvenuta il 22 marzo 2021, dei processi PFAS 1 e PFAS 2 che rispettivamente coinvolgevano 13 dirigenti di Miteni, Mitsubishi Corporation e della lussemburghese ICIG; 8 dirigenti, di cui 6 già indagati nel primo processo, oltre che la stessa Miteni, fallita, considerata responsabile ai sensi della legge n. 231/01 in materia di responsabilità da reato degli enti, per non essersi dotata di un modello organizzativo idoneo a prevenire reati ambientali della specie di quelli realizzati nel suo interesse e vantaggio.

I reati ambientali contestati sono avvelenamento di acque, disastro innominato, inquinamento ambientale e gestione di rifiuti non autorizzati e la Mitsubishi si è costituita come responsabile civile, cioè ha accettato di farsi carico dei danni che i giudici potranno accertare.

 

Pfas

La nascita del sito industriale della val d’Agno e di Trissino risale al 1965 quando la Rimar (Ricerche Marzotto) aprì uno stabilimento per la ricerca sull’impermeabilizzazione dei tessuti, l’anno successivo iniziò a produrre alcuni dei più di 4000 composti indicabili con la sigla PFAS con destinazione al settore tessile, poi anche farmaceutico e agrochimico. La tossicità dei PFAS, alternativamente indicati con PFOA o PFOS a seconda della composizione chimica, è nota sin dagli anni ‘60 del secolo scorso poiché erano largamente utilizzati negli USA, brevettati dalla Dupont nel 1951. Negli anni ‘90 l’avvocato Robert Billot aveva intentato una causa proprio contro il colosso della chimica Dupont, per reati ambientali simili a quelli oggi contestati alla Miteni.

La Miteni Spa venne costituita nel 1988 e si appropriò del sito industriale di Trissino. Dal 1996 è stata detenuta da Mitsubishi Corporation in quote variabili fino al 2009, quando è stata interamente acquisita da International Chemical Investors Group, tramite la subholding Weylchem. 

Già nel 1990, una relazione sulla composizione del terreno redatta dalla Ecodeco S.p.a. per conto di Miteni, che allora era in parte detenuta da Enichem – una partecipata di Eni-  evidenziava “la presenza di materiale anomalo” nel circondario della Miteni. Riferiva che il livello di contaminazione del terreno era tale da non richiederne la rimozione ma raccomandava la pavimentazione e impermeabilizzazione del piazzale, cosa che fu effettivamente portata a termine anche se, per le caratteristiche idrogeologiche della zona, le sostanze tossiche fluirono nella falda sottostante lo stabilimento.

La Mitsubishi nel 1996, ovvero poco prima di acquisire Miteni, commissionò alla ERM Italia S.p.a. una seconda indagine sullo “stato di salute” dell’area di Trissino, la Studio Phase II, che arrivò alle stesse conclusioni della Ecodeco parlando di una contaminazione della Rimar degli anni ‘70. Nel 2004 invece si evidenziò una maggior criticità: i pozzi di prelievo delle acque di falda ponevano in evidenza il superamento dei livelli di contaminazione di quattro composti organici fluorurati, correlabili con le attività produttive in corso o pregresse. Venne costruita una barriera idraulica, ma il danno fatto era ormai irrimediabile. La Miteni per obbligo giuridico (artt. 242 e 245 D.Lgs. 152/2006) avrebbe dovuto informare le autorità della contaminazione ma, forse per non assumersi l’onere di spesa per la messa in sicurezza dell’area, non lo fece. La condotta omissiva, iniziata nel 1990 e proseguita sino ad oggi, avrebbe quindi comportato sostanzialmente che l’inquinamento da PFAS, e forse anche da altre sostanze non indagate, si propagasse nella falda a chilometri di distanza.

La barriera idraulica non fu sufficiente per arginare la contaminazione da PFAS e nello studio del 25 marzo 2013 dell’IRSA-CNR si evidenziavano nel bacino Agno-Fratta-Gorzone livelli di PFOA superiori a 1.000 ng/l e di PFAS totali superiori a 2.000 ng/l. ARPAV eseguì un proprio monitoraggio e la Regione Veneto annunciò che gli acquedotti di 21 comuni, con epicentro a Lonigo, distribuivano acqua contaminata. Altri 12 comuni hanno pozzi privati a uso potabile che pescano nella falda contaminata, benché gli acquedotti non risultino inquinati. Altri ancora sono i comuni sotto “attenzione” per il possibile inquinamento delle acque superficiali e dei pozzi da parte dell’Istituto Superiore di Sanità.

A questo proposito, l’introduzione del piano di emergenza regionale ha stabilito la suddivisione dell’area esposta alla contaminazione, concordata con il supporto dell’ASL regionale, in tre zone: rossa, arancione e gialla; nonché la collocazione dei filtri a carbone attivo nei territori, al fine di diminuire la concentrazione di PFAS nell’acqua (la spesa è ripartita nelle bollette). I filtri sono poi stati potenziati e raddoppiati nel 2017 ma l’unica soluzione più stabile sarà costruire nuovi acquedotti, che attingano da fonti non contaminate.

 

Il Processo per reati ambientali

Ancora oggi, dall’avvio del procedimento di bonifica del sito, iniziato nel 2013, a seguito dello studio IRSA-CNR e della successiva comunicazione di Miteni del 23 luglio 2013 per il superamento delle concentrazioni soglia di contaminazione (CSC), la società Miteni non ha mai comunicato gli studi della ERM alla conferenza di servizi. La società ha sempre cercato di ricondurre la contaminazione da PFAS rilevata nel 2013 alle conseguenze del grave inquinamento da benzotrifluoruri (BTF) avvenuto nel 1975, quando lo stabilimento era gestito dalla Rimar Chimica Spa.

La condotta di Miteni è stata possibile perché la legislazione in materia è a dir poco carente, nonostante sia accertata la tossicità di PFAS e PFOA: prima del 2000 non esisteva limite alla produzione e allo smaltimento di PFAS e simili. Nel 2006 una direttiva europea n. 122 classifica i PFOS tra le sostanze «altamente persistenti, con elevata tendenza al bioaccumulo e molto tossiche», e dal 2009 il loro uso è sottoposto a restrizioni da un trattato internazionale, la convenzione di Stoccolma. Per quanto riguarda l’Italia sono in vigore varie norme che disciplinano la tutela delle acque e dell’ambiente dall’inquinamento, tra cui il decreto legislativo 152/2006, ed è stata recepita la direttiva europea ma solo in Veneto è presente un limite effettivamente basso per i Pfas: massimo 90 ng/l per la somma di PFOS e PFOA, non più di 300 ng/l per tutti gli altri e livelli ancor più bassi nella zona rossa.

La procura di Vicenza, nel 2013, ha avviato un’inchiesta seguita da indagini del Nucleo Operativo Ecologico dei Carabinieri e da un’inchiesta parlamentare della commissione ecomafie risalente al 2017. Attualmente è in corso il processo, già citato, che giudicherà sulla responsabilità dei dirigenti Miteni riguardo ai reati ambientali e coinvolge 229 parti civili. Tra queste figurano la regione Veneto, i ministeri dell’Ambiente e della Salute, diversi comuni, le società che amministrano le reti idriche contaminate, nonché numerose associazioni. Ad ogni modo, la presa di coscienza da parte della collettività circa l’entità di questo disastro ambientale e sanitario non è stata semplice. Le prime segnalazioni mediche che avevano evidenziato un incremento preoccupante di certe malattie furono accolte con diffidenza e accusate di allarmismo. Eppure, nelle tre province più colpite di Vicenza, Verona e Padova l’incidenza di malformazioni, tumori, disfunzioni ormonali, patologie congenite e nervose ha registrato dei picchi altissimi. Inoltre, si stima che l’esposizione agli interferenti endocrini dei PFAS sia inversamente associata alla crescita fetale, con ripercussioni significative sulla gravidanza e sullo sviluppo cognitivo, emotivo e sociale infantile. Per fare chiarezza su queste correlazioni sono all’attivo diversi studi, tra cui il progetto di ricerca Tracing the Enviromental Determinants of the Development Of Your Child, nato presso il Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione dell’Università degli Studi di Padova.

All’inizio del 2017, a seguito del riscontro di quantità ingenti di questi inquinanti nell’acqua potabile, l’ASL aveva invitato le famiglie a sottoporre ad uno screening di analisi ragazzi e ragazze a partire dai 14 anni. Con l’arrivo dei risultati dei prelievi, emerse diffusamente come il valore di PFOA mostrasse dei livelli di gran lunga superiori a quelli ammissibili.

Lo scossone generale causato da quell’indagine ha portato spontaneamente alla nascita delle Mamme NoPFAS. Un gruppo composto inizialmente dalle madri, ma poi anche dai padri dei giovani e delle giovani e, via via, da una sempre più ampia eterogeneità di persone. «Abbiamo iniziato a trovarci, a condividere esperienze, a vedere cosa si poteva fare, a scrivere lettere. […] Abbiamo la stessa motivazione, gli stessi interessi, la stessa voglia di arrivare fino in fondo», ci racconta Cristina Cola, una tra le capofila del movimento.

Tuttora, nell’area coinvolta, una popolazione di circa 350.000 persone residenti rimane soggetta ai rischi della contaminazione. A questo proposito, nel 2019, è stato pubblicato un position paper scientifico della Società dei medici per l’ambiente (Isde) che denunciava come la Regione Veneto continuasse a posticipare degli interventi risolutivi concreti, senza avviare contemporaneamente degli studi epidemiologici che consentissero di accertare o meno i danni effettivi sulla salute.

«La cosa più importante per noi è la bonifica dell’area dove sorge la fabbrica della Miteni e la realizzazione di nuove fonti di approvvigionamento. […] Ancora adesso i filtri non sono efficaci al cento percento, devono essere sostituiti continuamente e le spese sono a nostro carico», aggiunge Cola spiegando i principali obiettivi dell’attivismo delle Mamme NoPFAS.

Fin dal 2013 infatti, anno a cui risale la prima notizia di inquinamento da PFAS, diversi consorzi delle acque hanno orientato parte dei propri investimenti in tubazioni nuove e filtri a carbone, premendo per la chiusura dei pozzi inquinati in modo tale da raggiungere il traguardo PFAS zero, che prevede una quantità di contaminanti inferiore a 0.5 nanogrammi per litro d’acqua. A tal riguardo, un primo elenco sulla dose massima di Pfas tollerabile nei fluidi è stato stilato dall’Istituto Superiore di Sanità: per il sangue il range consentito va da 1.8 a 8 nanogrammi per litro. Al contrario, le indagini promosse dalla Regione Veneto avevano evidenziato come per i dipendenti Miteni i valori di Pfoa nella circolazione raggiungessero oltre 90.000 nanogrammi per litro.

«I dirigenti della Miteni e delle società che l’hanno preceduta, quindi Mitsubishi e Icig, erano consapevoli dello sversamento nella falda perché avevano fatto eseguire degli studi ambientali e non hanno avvisato le autorità, come invece è obbligatorio dalla nostra legge. […] Molto probabilmente sapevano anche dei danni alla salute provocate da queste sostanze poiché avevano un medico che visitava i loro dipendenti.», continua Cola.

E aggiunge «I dipendenti si sono sentiti traditi. […] Chi deve vigilare sulla salute dei lavoratori, come previsto dalla Costituzione, è un medico che viene scelto e pagato dal datore di lavoro. Ci sarebbe bisogno di una figura indipendente».

Sui residenti della zona rossa, che ha Lonigo come epicentro, è stato avviato un primo piano di sorveglianza sanitaria; le persone nate fra il 1951 e il 2002 sono state sottoposte ad uno screening Pfas con analisi ematologiche e, in caso di individuazione di possibili compromissioni delle funzionalità organiche vitali, sono state rimandate ad ulteriori accertamenti. Complessivamente, secondo i dati del 2019 dell’ultimo rapporto del piano, si è stimato che fossero 24.000 i soggetti (il 65%) ad essere stati reindirizzati al percorso di secondo livello, con l’attivazione di ambulatori di cardiologia e medicina interna per controlli più approfonditi.

Ad ogni modo, le realtà attive nell’ampia rete civile NoPFAS chiedono l’estensione della sorveglianza sanitaria a tutta la popolazione residente nella superficie contaminata, indipendentemente dal colore della zona d’abitazione. Solo così un intervento di prevenzione e di tutela della salute pubblica sarebbe reso efficace su vasta scala.

Oltre a ciò, in un territorio per buona parte agricolo e sede di allevamenti, bisogna considerare che i vettori della contaminazione non sono costituiti sono dai rubinetti, ma anche dai pozzi privati usati per le coltivazioni e per il bestiame, e quindi dagli alimenti.

In effetti, mentre alcuni pozzi pubblici di acqua potabile sono già stati dismessi, un vero e proprio censimento di quelli privati deve ancora iniziare. In aggiunta, già nel 2017, l’IAA aveva pubblicato un report che segnalava una serie di prodotti alimentari locali, poi incrementata nel 2019, come contaminati. Tuttavia, a questo proposito, le istituzioni hanno sempre mostrato una forte reticenza nel parlare apertamente di contaminazione alimentare perché si teme di intaccare le esportazioni estere e il potenziale produttivo della regione. Al tempo stesso, un rischio elevato si è posto anche per coloro che sostengono le iniziative a chilometro zero e che hanno continuato a comprare in zona.

I passi da fare dunque sono ancora molti, ma la strada da percorre è già stata segnata dalle Mamme NoPFAS e da tutte quelle differenti realtà associative, lavorative, sanitarie che hanno preso parte ad un movimento vasto di cittadini e cittadine contro i reati ambientali e il “il disastro innominato” nel Veneto.

Articolo di Giulia Falconetti, Eleonora Sartirana