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Contronarrazioni elettroniche
Il clubbing come pratica di resistenza
A fine dicembre, la dj palestinese Sama Abdulhadi viene arrestata mentre suona nel complesso di Nabi Musa. La vicenda, le cui dinamiche rimangono ancora non del tutto chiare, spinge a domandarsi cosa ci sia di tanto sovversivo nella musica elettronica da portarla a essere criminalizzata. Il potenziale politico che sembra emergere in questo genere di musica, e in tutta la dimensione eventistica che le ruota attorno, è al centro del discorso portato avanti da Enrico Petrilli in Notti tossiche. Socialità, droghe e musica elettronica per resistere attraverso il piacere (Meltemi, 2020). Abbiamo intervistato l’autore e da questa chiacchierata sono scaturite alcune riflessioni a proposito del clubbing come spazio di resistenza al potere e alla normalizzazione delle identità; abbiamo parlato di modi meno abusanti di relazionarsi al prossimo e di come questi fenomeni si realizzino in contesti diversi nello spazio e nel tempo.
Sovversioni elettroniche transnazionali
Per quanto il discorso di Notti tossiche si riferisca a un ambiente specifico, quello del clubbing occidentale, sembra che la musica elettronica e gli eventi in cui questa viene suonata, ascoltata e ballata abbiano un valore sovversivo intrinseco che, anche se in modalità differenti, emerge in contesti molto eterogenei. Il caso di Sama Abdulhadi è uno degli esempi citabili a dimostrazione di questo aspetto eversivo. La dj palestinese è stata arrestata il 26 dicembre 2020 mentre teneva un set nel sito turistico, archeologico e religioso di Nabi Musa, vicino a Gerico. Nonostante il Ministero del turismo Palestinese avesse concesso i permessi per l’evento, Sama Abdulhadi è stata arrestata e trattenuta per due settimane con l’accusa di aver profanato un luogo sacro e infranto le regolamentazioni anti-covid. A sostenere le accuse sono stati leader palestinesi maschi che puntavano a una condanna morale-religiosa del secolarismo occidentale incarnato dalla musica elettronica. Un altro argomento utilizzato contro la dj, che ha trovato appoggio anche in parte dell’opinione pubblica, è che questo genere di musica sia illegittimo poiché non rientra nell’eredità culturale palestinese.
Che la musica elettronica porti con sé una forza eversiva emerge anche dal fatto che in alcuni Paesi questo genere non sia diffondibile, o perché la distribuzione ne viene fortemente limitata o perché ci sono delle restrizioni legislative che ne impediscono la produzione e l’ascolto. L’Iran è tra quegli Stati in cui, come viene raccontato nel documentario Raving Iran, realizzato nel 2016 da Regina Meures, la musica per essere distribuita deve ottenere un permesso dal Ministero della Cultura Iraniano o dalla Guida Islamica, che certifichi l’assenza di contenuti politici. Nonostante la musica elettronica non abbia messaggi diretti né espliciti, i permessi istituzionali per poterla suonare spesso non vengono concessi. Dal documentario, che segue le vicissitudini del duo Blade&Beard, emerge chiaramente come la musica elettronica sia proibita per ciò che rappresenta, venendo quindi caricata di significati che la rendono intrinsecamente politica. Queste situazioni sono infatti emblematiche per capire come le notti elettroniche siano fenomeni molto discriminati, o addirittura considerati illegali, poiché, come ci fa notare Petrilli, <<la musica elettronica in alcuni paesi viene criminalizzata non tanto per quello che è ma per ciò che rappresenta: si vuole infatti difendere la tradizione contro qualcosa che non rientra nei canoni culturali e che è visto come esterno, ma soprattutto giovanile, puerile, senza senso e senza uno scopo ben preciso se non quello di esaltare e liberare il corpo tramite un piacere edonico.>> Nel documentario Sama’ Abdulhadi: The Palestinian techno queen blasting around the globe, realizzato da Jan Beddegenoodts, la dj stessa sostiene che la diffusione della musica elettronica nel suo Paese permette di creare una connessione tra i clubber palestinesi e i clubber occidentali, i quali si trovano a riconoscersi in un’esperienza condivisa, che rimane distante dal canone culturale della tradizione palestinese.
Questo potenziale politico, edonistico e liberatorio sembra essere un elemento intrinseco alla musica elettronica fin dalle sue origini. Infatti, già il contesto in cui nasce, negli Stati Uniti degli anni ‘70, è caratterizzato dalla partecipazione di persone appartenenti a gruppi sociali emarginati che cercano nella musica la possibilità di avere più libertà di quanta ne sia loro concessa dalle norme sociali. Così come succedeva negli USA quando la musica techno e la musica house sono nate, succede adesso in tanti altri Paesi – come la Palestina e l’Iran – coerentemente con l’evoluzione della loro scena musicale: il fatto che questa musica fosse suonata e ballata, come ci spiega Petrilli, <<da persone che all’interno della società americana non contavano niente, ha permesso che si diffondesse senza che venisse fatto nessun discorso di appartenenza né che ci fosse la volontà di renderlo una proprietà. Il dancefloor infatti è nato come spazio che permette di esprimersi e di entrare liberamente in contatto con altre soggettività.>>
Tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70 inizia a svilupparsi a New York la scena cosiddetta proto-elettronica, che raccoglie persone ai margini della società benestante americana: sono membri della comunità queer, donne, italo-, latino- e afro-americani; persone marginalizzate per l’orientamento sessuale o l’identità di genere, ma anche per l’appartenenza etnica e di classe. I club diventano quindi spazi più sicuri di altri per le soggettività che li attraversano e si configurano come un attacco dal basso all’ideologia sociale moderna, dove i clubber non esprimono le proprie istanze (micro)politiche verbalmente, ma lo fanno utilizzando il corpo in uno spazio momentaneo di creatività e divertimento, modellando così un mondo basato sulla solidarietà, sul piacere e sulla libertà di esprimere la propria identità attraverso il movimento e la danza.
È con la nascita di nuovi generi musicali, come il garage e la house, ma soprattutto con l’arrivo della techno all’inizio degli anni ‘80, che si consolidano quelli che Petrilli definisce nel suo libro “laboratori sociali”, dove la musica elettronica è riconosciuta come il “suono di una popolazione marginale”. Questi nuovi generi musicali forniscono l’opportunità di innovare anche gli stili della danza: i movimenti sono più liberi e, rifacendosi alla cultura afroamericana, basati sull’improvvisazione, permettendo ai clubber una totale libertà di espressione.
Quando poi la musica elettronica arriva in Europa, alla fine degli anni ‘80, sviluppa differenti caratteristiche sulla base del contesto nazionale in cui si diffonde, ma mantenendo comunque quel carattere sovversivo di fondo che porta alcuni governi a percepirla come una minaccia o addirittura vietarla. Si propagano feste autogestite considerate illegali, connotate dal desiderio di ballare, socializzare e divertirsi di persone provenienti da tutto lo spettro sociale, con quella che Petrilli definisce nel suo libro una “volontà utopica anti-commerciale”. Anche in Italia si diffondono, a partire dagli anni ‘90, feste distanti dalla vita comune, ma che sono atti sovversivi di riappropriazione di luoghi appartenuti al lavoro operaio e allo sfruttamento, che, nelle notti elettroniche, vengono tramutati in luoghi di danza, libertà, uguaglianza.
“Togliere un po’ di cera dall’idea che abbiamo di noi stessi”
Nonostante la cultura del clubbing continui ad essere percepita come <<una cosa per giovani tamarri che vengono giudicati dall’establishment culturale>>, come ironizza Petrilli, in realtà, nella dimensione dell’evento di musica elettronica, c’è un forte valore politico di resistenza, la cui specificità all’interno della società neoliberista contemporanea emerge chiaramente in Notti tossiche. La società in cui viviamo appare infatti dominata dall’imperativo economico: le nostre vite, in una prospettiva utilitaristica di imprenditorialità del sé e di auto-sfruttamento, seguono i ritmi e i modelli imposti da una mentalità incentrata sulla prestazione e la competizione, in cui la nostra quotidianità viene inglobata all’interno delle reti della produttività e orientata verso il successo. Enrico Petrilli esplora il potere dominante nella società contemporanea a partire dall’analisi che ne hanno fatto alcuni filosofi, da Michel Foucault a Paul B. Preciado, intendendolo – così ci spiega – come <<qualcosa che modella il tuo corpo, ma anche la tua psiche e il modo in cui vivi tutta la realtà intorno a te>>. Nella concezione foucaultiana, infatti, quello che opera nella società contemporanea è un potere “disciplinare”, che assoggetta i corpi anestetizzandoli, rendendoli docili e conformandoli alla norma attraverso un controllo capillare e pervasivo. Se le soggettività contemporanee sono ridotte a soggetti economici che si adeguano al modello normativo dell’auto-imprenditorialità, è evidente la contronarrativa portata avanti da una dimensione come quella del clubbing, dove intere notti vengono “sprecate” – così ironizza uno dei clubber intervistati in Notti tossiche – in un’attività assolutamente inutile ai fini della produzione: ballare. Il corpo che danza nella penombra del club è uno spazio di resistenza che vive al di fuori del disciplinamento e della normalizzazione a cui è sottoposto nella quotidianità. Centrale nell’esperienza della notte elettronica è infatti <<la dimensione corporea, sentire gli odori degli altri, il caldo>>: qui il corpo, attraverso la sua capacità di provare piacere che viene stimolata, risvegliata e sconvolta dalla dimensione multisensoriale del club (la musica, le droghe, la vicinanza dei corpi), si spoglia gradualmente dall’adesione alle categorie sociali dominanti. <<Il dancefloor>>, ci spiega infatti Petrilli, <<è uno spazio altamente eccitante, non in senso sessuale ma in senso erotico, dove cioè avviene una fusione, una congiunzione tra le persone>>. L’eccitazione a cui sono stimolati i corpi nel club è intesa da Petrilli nel suo significato etimologico di “essere condotti fuori da sé” (dal latino excitare, “spingere fuori”): il soggetto, nella notte elettronica, viene sconvolto da questa stimolazione multisensoriale al punto che ne sono compromessi l’autocontrollo e la razionalità fondamentali alla sua capacità di essere produttivo. In Notti tossiche, così come in Foucault, il piacere è inteso come un mezzo di resistenza al potere disciplinare per via della sua capacità di produrre una conoscenza alternativa a quella normalizzata dalla mentalità dominante, e quindi potenzialmente sovversiva. Nella dimensione elettronica, il soggetto è infatti libero di sperimentare, di esplorare e di conoscersi al di fuori degli schemi quotidiani. La conoscenza carnale, che passa attraverso l’esplorazione delle sensazioni, delle emozioni e dei piaceri, è una forma di conoscenza proprio perché porta a scoprire se stessi, il proprio corpo e il proprio modo di rapportarsi agli altri in quanto identità aventi specifici desideri carnali, sensuali, sessuali e relazionali e una peculiare e personalissima capacità di provare piacere. La stessa Sama Abdulhadi, nel documentario di Jan Beddegenoodts, definisce il clubbing una “nuova forma di comunicazione”, soffermandosi sulla capacità della musica elettronica di dare alle persone “una piattaforma attraverso cui esprimersi”.
Se nella quotidianità i soggetti devono rientrare all’interno di categorie sociali prestabilite e normalizzate – siano esse ruoli di genere, identità sessuali, razziali, schemi di pensiero – e tutto ciò che ne resta fuori viene marginalizzato se non criminalizzato, nella notte elettronica, al contrario, la stimolazione multisensoriale permette ai soggetti di <<togliere un po’ di cera dall’idea che hanno di loro stessi>> – come ci spiega Petrilli – e di <<vedere che la performance che dai di te stesso quotidianamente è solo una parte del discorso>>. In Notti tossiche, questo processo viene definito una “contro-soggettivazione elettronica”, appunto perché nello spazio della notte elettronica il clubber ha la possibilità di smettere di performare per adeguarsi al modello dominante, ed è finalmente libero di esplorarsi orientandosi in base alla sua personale ricerca e soddisfazione del piacere e di esprimersi in modo più spontaneo e libero. Non è un caso che, tra gli aspetti a emergere dalle riprese di Raving Iran, ci sia proprio il fatto che in queste serate clandestine le donne si sentano libere di ballare senza velo, mentre nei contesti pubblici – al di là di quella che può essere la scelta personale di ciascuna – la legge ne impone l’utilizzo.
Uno spazio dove costruire relazioni non abusanti
Ciò che succede al clubber è quello che Petrilli definisce nel suo libro un “divenire bambino”, ovvero uno spogliarsi, attraverso l’esperienza dei piaceri elettronici, delle sovrastrutture che inquadrano il soggetto in una dimensione di autocontrollo, sobrietà, razionalità, volta all’auto-imprenditorialità e al successo. Questa dimensione di leggerezza e ritorno a una prospettiva quasi ingenua e infantile della percezione di sé, insieme alla condivisione di una dimensione di sconvolgimento sensoriale comune, riduce la distanza tra i clubber e permette loro di riconoscersi l’uno nell’altro. In questi contesti si viene quindi a creare un senso di appartenenza a una comunità basata sulla condivisione di quelli che una clubber intervistata in Notti tossiche definisce “standard umani basici e fantastici”, valori umani molto semplici che sono però alla base di ogni interazione sana ed empatica tra le persone. Questo rende possibile che si venga a creare una dimensione di solidarietà generalizzata caratterizzata da una disposizione all’apertura e all’aiuto reciproco tra i clubber: non è più l’imperativo performativo e competitivo della società della prestazione a dominare, ma piuttosto quello che Petrilli definisce un “sapere carnale anti-agonistico”, ovvero un modo di relazionarsi all’altro lontano dall’individualismo a cui ci abitua la mentalità imprenditoriale. Caratteristica peculiare di questi eventi sono infatti anche una maggiore cura e rispetto dell’altro, evidenti per esempio nella minore frequenza di molestie subite dai soggetti che tendono a subirle più facilmente nella quotidianità eteropatriarcale, come le donne e le persone queer, anche se, come precisa Petrilli, <<questo non significa che non ci siano molestie e che tutti gli eventi di musica elettronica siano sicuri, ma che tutta una serie di organizzatori e collettivi hanno iniziato ad affrontare la questione, per fare in modo che tutti possano vivere il dancefloor senza qualcuno che ti rovina la serata>>. <<Sono convinto>>, ci spiega l’autore, <<che il clubbing possa portare una modalità meno abusante di relazionarsi agli altri>>, e questo dipende proprio dalla peculiarità dell’esperienza della musica elettronica e dal modo in cui viene vissuto il dancefloor in questi eventi. Rispetto a un concerto in cui si fruisce di un altro genere di musica, il dancefloor del club <<è uno spazio che ti permette molto più di esprimerti e di entrare in contatto con gli altri, e capisci che certi limiti che erano dati dalla fruizione musicale in altri contesti, certe regole, non valgono più, e quindi c’è bisogno di ridefinire collettivamente le regole per questo nuovo spazio. Ti chiedi per esempio perché non puoi spogliarti completamente, o non puoi abbracciare quelli che ti stanno intorno>>. Il clubber, a differenza dello spettatore di un concerto di altro genere, è protagonista del dancefloor in un modo che è molto più paritario, <<è molto più: tu vivi la musica e la musica ti sconvolge. Proprio questo appiglio molto più forte sul corpo, insieme alla dimensione dei piaceri elettronici, porta a voler aumentare il proprio spazio di libertà, il proprio modo di comportarsi, di vivere lo spazio. E’ una situazione molto più coinvolgente, che non vuole limitarti a essere spettatore>>.
Questa volontà da un lato di sottrarsi alle dinamiche dominanti che disciplinano e normalizzano il corpo e la psiche, e dall’altro di costruire un modo di relazionarsi agli altri che sia rispettoso, empatico, non gerarchico e solidale, è alla base della dimensione della notte elettronica. Dagli Stati Uniti degli anni ‘70 all’Iran raccontato nel documentario di Regina Meures, fino alla vicenda dell’arresto di Sama Abdulhadi, la musica elettronica è al centro di eventi che nascono in contesti certamente differenti ma accomunati da una condizione di marginalità in cui viene meno, per alcune soggettività, la possibilità di esprimere la propria identità e di vivere il piacere in modo non conforme alla normalizzazione dominante, sia essa di natura sessuale, razziale politica o religiosa. La musica elettronica diventa così la colonna sonora di un tentativo di costruire spazi sicuri in cui i soggetti possano esprimersi in modo libero e costruire relazioni sane e non abusanti.
Articolo di Carlotta Perego e Carolina Pisapia