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La musica (non) ha bisogno di eroi
Diagnosi senza prognosi della musica politica italiana, da Zerbo all’Eurovision
È da poco caduto un anniversario importante nella storia contemporanea: 46 anni fa, la mattina del 30 aprile 1975, a Saigon entrarono, dopo 30 anni di guerra, i carri armati dell’esercito del Fronte di Liberazione Nazionale del Vietnam del Nord. Pochi mesi dopo la sconfitta americana In Italia l’opinione pubblica è spaccata: c’è addirittura chi festeggia, e tra chi festeggia c’è qualcuno che celebra la sconfitta americana con una canzone.
Il brano di Eugenio Finardi inneggia al regime comunista instaurato pochi mesi prima nel paese e paragona senza mezzi termini la sua vittoria alla lotta partigiana contro il nazifascismo:
“E quel nemico così potente da far scappare gli Americani
che li avevano descritti come mostri disumani
eran ragazzi di sedici anni con le suole di copertone
ragazzi di campagna che parlavano di Liberazione”
L’immaginario occidentale sulla guerra del Vietnam è un qualcosa di molto diverso: la scena è quella di soldati americani che, colti di sorpresa da un manipolo di vietnamiti, vengono trucidati, magari tutti a parte Forrest Gump e il tenente Dan. Il testo di Finardi capovolge questo tipo di narrazione: dà agli italiani di oggi uno strano shock culturale su come la generazione prima di noi potesse invece aver interiorizzato quel conflitto. Questo contrasto si potrebbe forse giustificare se Finardi fosse un artista di nicchia, un emarginato della scena musicale e culturale del tempo, ma la realtà storica è che le canzoni, i dischi e i concerti di Finardi erano inseriti a pieno titolo nella via maestra della musica italiana degli anni ’70.
Giai Phong esce come uno dei singoli dell’album Diesel, pubblicato nel 1977, anno fondamentale per la cultura giovanile: la rabbia e la disillusione portata dai Sex Pistols travolge la scena musicale mondiale, creando un netto spartiacque tra la ribellione giovanile hippie e quella punk. In Italia il discorso è però diverso: il ‘68 aveva parzialmente fallito, ma le lotte per i diritti dei lavoratori non si erano fermate assieme alle proteste studentesche, e anzi si erano intensificate negli anni a venire. Sono gli anni della segreteria di Berlinguer, sotto la quale il PCI raggiunge il massimo dei suoi consensi, arrivando fino al 34%. La rivoluzione culturale nell’Italia di quel periodo prendeva vie traverse e una di queste era il Festival del proletariato Giovanile, organizzato dalla rivista Re Nudo, a partire dal 1971. L’ispirazione ai grandi concerti americani e in particolare a Woodstock era chiara, ma l’elemento di militanza politica era qualcosa di inedito: partecipare al festival significava anche dare il proprio sostegno alle associazioni giovanili di sinistra e più in generale a quello che al tempo veniva chiamato il movimento. Tra i partecipanti alle edizioni del festival si trovano Lucio Dalla, Antonello Venditti, Francesco Guccini, Pino Daniele, Edoardo Bennato e molti altri. Il movimento sembrava aver convinto il mondo musicale del pop italiano che l’impegno politico era un qualcosa di necessario se si voleva interagire coi giovani. Lo stesso Festival di Sanremo ospita nel 1978 Rino Gaetano, uno degli artisti che in quel decennio aveva fatto della denuncia sociale il suo biglietto da visita. Il ’77 però non ha una sola anima, e assieme all’impegno politico si muove parallelamente quello artistico, intenzionato a demolire qualsiasi canone, estetico o etico, che limitasse l’espressività artistica. Nella Bologna di quegli anni, capitale dell’avanguardia politica e culturale giovanile, convivono l’attivismo e la ribellione punk, creando personaggi contraddittori e carismatici come Andrea Pazienza o Freak Antoni, il fondatore degli Skiantos.
Gli Skiantos diventano molto velocemente il gruppo simbolo della scena musicale di Bologna, il loro punk accompagnato da testi nonsense e comportamenti grotteschi conquista i giovani universitari prima della città e poi dell’Italia intera. Arrivati però al 79’ si cominciano ad avvertire i segni che quell’esperimento chiamato Bologna ‘77 stava lentamente finendo. Il Festival del proletariato giovanile va sempre peggio col passare degli anni, e l’edizione del ‘78 è l’ultima. Finardi scrive una canzone dedicata al festival col titolo di Zerbo, il paesino della seconda edizione, sostenendo che già dal ‘76 il movimento avesse perso la sua coesione:
“Ma all’ora del ’76 il mito era crollato
Perso nei calci ad un pollo surgelato
Tra fiumi di cazzate nella foga del momento
Ci si prende a sprangate anche dentro al movimento”
Gli Skiantos in particolare seguono una parabola che sembra calcare perfettamente quegli anni: diventati quasi per caso uno dei pilastri del movimento, col tempo si distanziano sempre di più dal loro pubblico per avvicinarsi all’avanguardia, raggiungendo picchi di assurdità quasi dadaista. Ad aprile del ‘79 partecipano al Bologna Rock, un festival cittadino incentrato su punk e sulla new wave. Salgono sul palco senza strumenti, portando al loro posto un frigo, un tavolo, una cucina e un televisore. Preparati degli spaghetti si mettono a mangiare seduti al tavolo in silenzio totale. Il pubblico li insulta pesantemente, insulti ai quali Freak Antoni risponde citando uno dei loro brani: “Non capite un cazzo: questa è avanguardia, pubblico di merda”. In seguito dichiarò:
“La nostra provocazione aveva toccato, a seconda dei punti di vista, il fondo e l’apice nello stesso momento”.
Il gruppo si scioglie nel 1980, nello stesso anno in cui la disco e la new wave si abbattono definitivamente sul panorama italiano, riportando la scena musicale nostrana nelle fila di quella del resto del mondo occidentale, a cui spettava e spetta ancora oggi, a parte rare eccezioni, il compito di emulare quello americano.
L’Italia è stanca degli anni di piombo e all’inizio del 1980 un referendum conferma la legge Cossiga, che estende le condanne per terrorismo e amplia i poteri della polizia. La strage di Bologna nell’agosto dello stesso anno è la tragedia che conclude il decennio. Gli anni a seguire porteranno ad una trasformazione sia politica che culturale del mondo occidentale. In Italia le tappe cruciali di questa trasformazione avvengono tutte attorno alla prima metà del decennio: Margaret Thatcher diventa primo ministro britannico nel 1979, Ronald Reagan viene eletto presidente degli Stati Uniti nel 1981 e Berlinguer muore nel 1984. Uno degli eventi culturali emblematici del decennio è l’uscita di Vacanze di Natale di Carlo Vanzina, il primo cinepanettone, nell’inverno del 1983: Il nuovo genere cinematografico risponde all’esigenza di una certa parte d’Italia, i cosiddetti yuppies, di essere rappresentati nel mondo culturale italiano. L’esaltazione della cultura yuppie e in generale della nuova borghesia, intraprendente e individualista, non si ferma al cinema e arriva anche nella musica: Donatella Rettore, i Righeira, Anna Oxa, i Matia Bazar e Toto Cutugno sono solo alcuni dei nomi che domineranno il pop italiano di questo periodo, creando una musica più sofisticata e anche più leggera di quella del decennio passato. Sanremo, dopo l’apertura degli anni ‘70, si chiude nuovamente agli artisti impegnati e anzi torna ad essere più di ogni altra cosa, assieme all’ormai affermato Festivalbar, un contenitore di intrattenimento.
È questo il panorama musicale in cui Stefano Belisari, oggi conosciuto come Elio, fonda la sua band. Il nome del gruppo, Elio e le Storie Tese, ha una derivazione dubbia, anche se il tastierista, Rocco Tanica, ha più volte sostenuto si trattasse di una citazione al brano degli Skiantos Eptadone, in cui Freak Antoni sostiene appunto di avere delle “storie pese”. Il gruppo suona nel milanese dal 1980, riscuotendo un successo locale notevole. Diventano famosi per i loro contenuti nonsense e il loro virtuosismo musicale, che però lascia spazio a velate riflessioni politiche, spesso nascoste sotto strati d’ironia o assurdità. Pubblicano nel 1989 il loro primo disco, Elio Samaga Hukapan Kariyana Turu, che diventa un successo immediato vendendo più di centomila copie. La fama degli Elio sale vertiginosamente negli anni a cavallo del decennio, tanto che nel 1991 vengono chiamati come uno dei gruppi di testa del Concerto del Primo Maggio. Durante l’esibizione Elio comincia a fare nomi e cognomi di politici corrotti, denunciando come in 410 casi su 411 i processi mossi contro deputati, segretari e sottosegretari di partito fossero stati sostanzialmente sempre archiviati. Gli Elio sono in diretta nazionale, quando all’improvviso la telecamera stacca su un’intervista improvvisata dietro le quinte dal conduttore a Ricky Gianco. Il gruppo verrà trascinato via dal palco, con Elio sdraiato che urla al microfono “Come Jim Morrison!”. 8 mesi dopo inizierà il processo Mani Pulite, provocando la fine della Prima Repubblica.
Gli anni Novanta sono un periodo che vede completamente rivoluzionato lo scacchiere politico italiano, principalmente grazie all’operato di Berlusconi ed al suo uso inedito dei media – già iniziato alla fine degli anni ‘80 – per la veicolazione del suo progetto politico, con il quale promuove privatizzazioni e liberalizzazioni.
Proprio nel 1989 viene inoltre istituita l’autonomia finanziaria degli atenei, attraverso la riforma Ruberti, che apre di fatto le università statali agli investimenti privati. Quest’ultimo avvenimento genera in numerose città italiane un’ondata di proteste che sfociano poco dopo nella creazione di un movimento: la Pantera. Nome ereditato in parte dal Black Panther Party e in parte dall’omonimo felino imprendibile, avvistato a Roma in quei giorni. A difesa dell’università pubblica e contrario alla società commerciale modellata dalle tv berlusconiane, il movimento risveglia la coscienza socio politica giovanile dal torpore degli anni ‘80. Vengono organizzati tre mesi di mobilitazioni in 150 facoltà italiane, insieme a concerti, cortei e assemblee. Così come nel ‘68, l’azione collettiva non è solo politica ma anche artistica e culturale.
Nella musica si passa dal mutuare in inglese i modelli americani del rap e dell’hip-hop ⎼ come conseguenza della crescente omologazione culturale generata dalla globalizzazione ⎼ alla produzione autonoma di testi italiani, scritti e rappati per la proprio comunità.
È questo il periodo in cui inizia ad acquisire notevole importanza la dimensione locale e il radicamento territoriale attraverso la proliferazione dei centri sociali, spazi urbani abbandonati poi trasformati in luoghi pubblici utili ad attività di carattere sociale, culturale e politico. Niente meno che l’epicentro della nuova scena musicale italiana.
I primi a introdurre nel rap la lingua italiana e la militanza politica sono Militant A e Castro X, con Onde Rosse Posse a Roma, che attraverso l’album Batti il tuo tempo si oppongono al disincanto della nuova generazione e cantano di riprendersi il proprio tempo, la propria vita «per fottere il potere». Non mancano i riferimenti alla più recente attualità: dalla strage di Ustica e di Bologna nel 1980 all’assassinio di Huey Newton, fondatore delle Pantere Nere, nel 1989.
Ma non è l’unico messaggio critico lanciato in quegli anni: nel 1992 è la volta del singolo Baghdad 1.9.9.1. degli Assalti Frontali, la band nata dalle ceneri di Onde Rosse grazie a Militant A. L’attacco questa volta è alla guerra, in particolare alla Guerra del Golfo. Il gruppo vuole denunciare la prova di forza tra Iraq e Stati Uniti, ai danni di centinaia di civili, e la narrazione mediatica del conflitto. E lo fa disseminando il testo di frasi sprezzanti. «Bush chiamalo col suo nome è un boia è un boia» e «Ho visto Manca alla tv verde d’invidia dice: “il controllo dei media è in mano Usa”. Spera che con l’Europa unita anche la Rai sia pronta per la prossima occasione: una guerra da mandare in onda» ne sono un esempio.
Dopo il successo di Onde Rosse, si apre la stagione delle Posse ⎼ termine mutuato dal linguaggio giamaicano in cui significa band ⎼ della musica rap e raggamuffin in Italia. Tra gli ospiti di Notte di rime dirette, un’importante serata organizzata nel maggio del 1992 al centro sociale Leoncavallo di Milano, si sovrappongono in un solo evento gli Isola Posse All Stars, i 99 Posse – rappresentanti rispettivamente di centri sociali bolognesi e napoletani – ma anche Sergio Messina di Radio Gladio. Mentre i primi cavalcano l’onda degli scontri con la polizia e delle proteste per gli sgomberi della Sinistra con l’album Stop al panico, i secondi escono in quei giorni con un singolo dal grandissimo successo: Curre curre guaglió, che descrive lo stato di precarietà, fragilità e ribellione sentita dai giovani di quel tempo. Sergio Messina invece si distingue per il suo progetto hip-hop in lingua inglese, Radio Gladio, che riprende la vicenda relativa alle operazioni di spionaggio gestite dagli Stati Uniti e dall’Italia durante la guerra fredda. Questa volta il messaggio, tradotto in italiano, è agli americani:
“la prossima volta che paghi le tasse ricorda che la maggior parte dei tuoi soldi faticosamente guadagnati va in esplosivi, armi e protezione contro una rivoluzione che non può verificarsi e alimenta alcuni fascisti illegali nel mio Paese”.
Arriva il nuovo millennio e con lui il liberismo esaspera le disparità economiche e sociali fino a portare alla nascita del movimento No-Global, che si fa sentire prima a Seattle nel 1999 e poi al G8 di Genova nel 2001. Eventi spesso ricordati più per la violenza dei black bloc e della polizia che per le richieste inascoltate dei manifestanti.
Allo stesso tempo, dopo l’esplosione delle Posse, nei primi anni 2000 il rap rimane un genere di nicchia, ancora poco adattabile alle logiche del mercato. Da una parte il motivo sta nella natura del genere poco propenso alla compromissione con il sistema discografico, mentre dall’altra il tipo di musica risulta ormai ostico per il tempo e il tessuto musicale che si sta innestando. Così a partire dal 2006 molti artisti, imparando la lezione degli anni ‘90, cercano di solidificare il genere, rendendolo più adatto al mercato discografico italiano, e per farlo scelgono di rendersi il più appetibili possibili agli occhi dell’industria musicale. Come diretta conseguenza, quest’ultima avrebbe investito sul genere, sapendo di poter contare su un pubblico disposto ad andare ai live e quindi a spendere soldi, che avrebbero procurato ottimi rendimenti. Questo è esattamente ciò che accade, anche se non senza qualche rinuncia. I più amanti della controcultura non si ritrovano in questo tipo di cambiamento e se ne allontanano, ma la maggior parte degli ascoltatori rimane e questo basta a dimostrare l’efficacia della nuova strategia.
Un’altra spinta enorme arriva nel 2015, quando la Fimi inizia a conteggiare, all’interno del calcolo dei dischi d’oro e di platino, anche i download digitali. Grazie a questa mossa e all’arrivo di una terza generazione di artisti, quella nata negli anni ‘90, il rap esplode definitivamente.
Le major discografiche non cercano più un pubblico a cui rivolgersi ma, attraverso il mondo dello streaming, è il pubblico a trovare e scegliere l’artista. Inevitabilmente il lavoro risulta semplificato: è più facile creare un prodotto musicale di consumo, quando si sa già che piace. Ad alimentare il fenomeno concorrono i talent show, come Amici di Maria De Filippi e X-Factor, di matrice inglese, che trasformano la musica in un contest di popolarità, dove la mercificazione della produzione artistica è evidente e plateale, alla quale segue una chiara deresponsabilizzazione dell’autore.
Con il passare del tempo questo meccanismo diventa sistematico e genera l’avvicinamento del rap al mondo mainstream del pop. D’altronde, proprio come il rock e il jazz in passato, se il rap continua ad esistere è perché è diventato grande e solido, quindi automaticamente istituzionale. Inoltre la militanza e la carica rivoluzionaria che distinguevano il genere negli anni ‘90, sono stati assorbite dal sistema capitalistico, che per non mostrarsi così dominante e pervasivo ha legittimato la dissidenza tanto quanto l’adesione al sistema. In poche parole, citando Mark Fisher in Realismo capitalista, «la contestazione viene ridotta a qualcosa di gestuale, che mantenga la sua carica provocatoria ma allo stesso si esaurisca in un rumore di sottofondo o semplice pratica iconica». Così il contenuto non è più un pericolo e la forma diventa un qualcosa su cui lucrare.
Ne è un esempio il brano portato dai Maneskin a Sanremo e all’Eurovision, Zitti e Buoni, col quale hanno vinto entrambi i festival. Sanremo in particolare incarna perfettamente l’idea di Mark Fisher: la provocazione fine a se stessa, accoppiata alla figura di un’artista impegnato ma non troppo, quel tanto che basta per farsi comprare. Non è un caso infatti che sia stata proprio questa trasmissione, dove la musica appare ora leggerissima ‒ per citare Colapesce e Di Martino – a far risultare i Maneskin come sovversivi e rivoluzionari. Sono passati più di 40 anni da quando la musica politica si è affacciata a Sanremo.
Negli ultimi anni Sanremo ha dato inoltre grande spazio ai giovani artisti, spesso supportati da etichette indipendenti, operando proprio quel passaggio tra underground e mainstream, di cui vivono ormai abitualmente le major discografiche.
Andando alla ricerca, nel panorama contemporaneo, di quei pochi che continuano a produrre qualcosa di effettivamente militante, spesso si trovano artisti o gruppo avulsi dal contesto sociale e artistico. Si tratta di eccezioni centellinate nel panorama musicale, come ad esempio gli Assalti Frontali o anche lo stesso Caparezza, che ha in diverse occasioni, in canzoni come Vieni a Ballare in Puglia, denunciato senza mezzi termini situazioni di disagio. In altri casi invece la percezione che si ha, ascoltando ad esempio un gruppo come gli Offlaga Disco Pax, è quella che per fare contestazione sia necessario riesumare il passato in tono quasi nostalgico, contrapposto ad un presente troppo vacuo e deludente. Lo stesso recente intervento di Fedez al concerto del Primo Maggio, dalle forti ripercussioni politiche, sembra essere un caso isolato che, tralasciando eventuali riflessioni sui suoi intenti, ricorda solo lontanamente quello degli Elio, tantomeno la militanza politica degli anni ‘70.
È difficile prevedere come e cosa cambierà nell’impegno politico degli artisti contemporanei, ma è possibile estrapolare un principio generale, efficacemente riassunto in una delle frasi finali di Giai Phong di Finardi:
“Non servono gli eroi a guidare una vittoria popolare”
Ciò che forse questo percorso insegna è che le tendenze artistiche rivolte all’impegno sociale sono, in un contesto politico, effetti piuttosto che cause. L’apparente superiorità morale degli artisti che hanno solcato i palchi di Zerbo prima e dei centri sociali poi è in realtà solo un sintomo della sensibilità del pubblico di quei periodi storici verso specifiche tematiche politiche. La pressione che questi bacini di utenza esercitavano sui loro rappresentanti artistici aveva un effetto di selezione culturale su chi effettivamente raggiungesse la fama: negli anni ‘70 ad esempio la forza dei movimenti operai ha avuto come conseguenza secondaria l’insorgenza di collettivi, giornali e centri sociali che hanno inevitabilmente aiutato a raggiungere il successo tutti coloro che si sono interfacciati con queste organizzazioni. Nei decenni successivi diversi fenomeni sociali hanno influenzato e modificato i criteri di questa selezione sociale, complicando ulteriormente la situazione ma paradossalmente evidenziando ancora meglio la (quasi) inevitabile subalternità della cultura alla società che la circonda. Nel panorama musicale italiano la spinta sociale verso l’impegno politico è lentamente mutata in una richiesta di forma e non di contenuti: l’artista deve essere ribelle, deve avere l’atteggiamento di chi sta denunciando un qualcosa di taciuto o censurato, ma il contenuto delle sue parole non deve essere divisivo o oltraggioso e deve anzi essere più generale e più comunemente accettabile possibile. Quello che rimane della musica impegnata è quasi solo la mimica, la prossemica e l’atteggiamento: un manierismo ormai stanco che, come ogni manierismo, è destinato ad essere travolto da una nuova energia creativa, distruttrice e seminale. Forse.
Articolo di Matteo Benati e Federica Fiorilla