Musk Attack

L'acquisizione di Twitter e i rischi per la libertà di espressione

05/05/2022

Il 25 Aprile 2022 ha rappresentato una data epocale per la storia di Twitter: alle 21:43 (ora italiana) dal profilo ufficiale del CEO di Tesla e SpaceX Elon Musk è arrivata la conferma dell’accettazione da parte del Board del social network dell’offerta per l’acquisizione della piattaforma, dal valore di 44 miliardi.

Dopo settimane di notizie a riguardo e un primo rifiuto da parte del Board, la strada per il totale controllo della piattaforma appare spianata, anche se l’accordo deve ancora essere ratificato dagli azionisti di Twitter e deve ottenere l’approvazione degli organi di controllo federali statunitensi. Una notizia che stravolge totalmente gli equilibri del mondo online, con Musk pronto di appropriarsi di una piattaforma social che conta ben 330 milioni di utenti attivi mensili, secondo gli ultimi dati pubblicati dall’azienda per il primo semestre del 2019.

Molte sono state le voci contrarie a questo processo di acquisizione. Twitter rappresenta infatti un social network atipico all’interno del panorama online, essendo una società indipendente che non risponde direttamente ad un “gigante tecnologico”, come nel caso di Facebook e Instagram che sono diretta controllate dalla Meta Platforms di Mark Zuckerberg. Oltre a questo, pur con molti limiti e un bacino d’utenza inferiori a competitors come lo stesso Facebook e Tik Tok, gli utenti del social hanno sempre apprezzato l’impegno della piattaforma nel contrasto a fenomeni diffusi come l’hate speech e la diffusione di fake news, dando vita ad un sistema di segnalazioni più efficiente rispetto a quello della concorrenza. Non mancano comunque problemi in questo senso come l’enorme presenza di bot, stimati essere il 15% dell’utenza attiva secondo uno studio della University of Southern California e della Indiana University pubblicato nel 2017 ma certamente aumentato nel corso degli ultimi anni. Tale argomento è stato sapientemente utilizzato da Musk come punto principale della propria campagna mediatica accanto all’idea di favorire la libertà d’espressione per far accettare all’opinione pubblica mondiale il suo tentativo di acquisizione di Twitter.

Ma l’operazione di Musk può essere unicamente ricondotta alla sua volontà di difendere “la piazza digitale dove questioni vitali per il futuro dell’umanità vengono dibattute”, come affermato dallo stesso CEO di Tesla nel comunicato pubblicato su Twitter nei momenti successivi all’accettazione della sua offerta? 

 

Musk colpisce, Bezos subisce

Per trovare una risposta a questo interrogativo, può essere utile osservare la reazione del principale competitor di Elon Musk, il presidente di Amazon Jeff Bezos. Nei giorni precedenti alla conferma dell’offerta, Bezos si era esposto pubblicamente contro il tentativo del suo rivale, motivando la sua scelta per il timore di una possibile espansione dell’influenza cinese all’interno del territorio statunitense a causa delle nuove policies della piattaforma promosse da Musk. Una posizione apparsa immediatamente debole, specie considerando che la Cina ha già la possibilità di sfruttare TikTok, social media dell’azienda cinese Bytedance, il quale può contare ben un miliardo di utenti attivi mensili, numeri tre volte superiori al bacino d’utenza mensile di Twitter. Un messaggio che cercava di far leva sulla costante sinofobia presente in una cospicua parte dell’opinione pubblica americana, nel tentativo di spingerla a contestare l’operazione di Musk.

Lo stesso Bezos si è però reso protagonista nel 2013 di un’azione simile a quella promossa dal CEO di Tesla, quando decise di acquistare il Washington Post per 250 milioni di dollari, il giornale principale della capitale federale americana famoso in tutto il mondo per l’inchiesta sullo scandalo Watergate, prodotta e portata avanti dai suoi due giornalisti Bob Woodward e Carl Bernstein. Questo dimostra una forte tendenza da parte dei colossi del mondo tech di ottenere il controllo dei media d’informazione, in maniera tale da poter gestire le informazioni da essi prodotte e direzionarle a favore delle proprie aziende.

La differenza tra Washington Post e Twitter appare però immediatamente ovvia: Bezos ha messo le mani su uno dei più prestigiosi quotidiani americani, paese all’interno del quale è ancora forte un spiccato senso di integrità all’interno del proprio sistema informativo. In particolar modo, il giornale della capitale ha una storia editoriale di centrale importanza per la democrazia americana, in quanto proprio la sopra citata inchiesta Watergate ha giocato un ruolo centrale nella caduta della presidenza di Richard Nixon. Il quotidiano ha dunque sempre mantenuto una forte identità e integrità editoriale, con il quale lo stesso Bezos si è dovuto scontrare. Questo ha portato all’impossibilità per il presidente di Amazon di piegare il giornale alle necessità del proprio giornale: anche dopo nove anni di gestione Bezos, ancora oggi sul Washington Post è possibile trovare articoli estremamente critici nei confronti della principale azienda dell’editore, come è possibile osservare in questo articolo nel quale si riporta il primo crollo delle azioni di Amazon in sette anni a seguito del crollo del boom di vendite dovuto alla pandemia.

Ben diverso è invece il discorso inerente a Twitter, in quanto social media network nel quale la creazione, diffusione e condivisione di contenuti viene gestita nella sua totalità dall’algoritmo di riferimento della piattaforma. Il passaggio del sito da società quotata in borsa a privata comporterebbe che la gestione di Twitter e del suo algoritmo passi nelle mani del solo Musk e del team da lui scelto per l’organizzazione del flusso d’informazioni sul social network. Il multimiliardario ha già specificato nello statement citato in apertura d’articolo di voler creare un algoritmo open source, in maniera tale che sia possibile a tutti gli utenti di osservare il funzionamento di Twitter in maniera maggiormente trasparente rispetto alla precedente gestione. Rimangono forti dubbi sulla fattibilità di questa promessa, per più ragioni.

La prima è che, banalmente, un algoritmo open source sarebbe più esposto a possibili tentativi di hacking per l’acquisizione dei dati dell’utenza di Twitter: evento che il precedente algoritmo è quasi sempre riuscito ad evitare, fatta eccezione per lo spettacolare hacking di massa che ha visto protagonista la piattaforma ed alcuni dei profili principali ad essa collegati il 15 Luglio del 2020. L’aspetto che principalmente preoccupa della vicenda è la possibilità per Musk di poter piegare le logiche dell’algoritmo gestionale di Twitter alle necessità del proprio patrimonio e delle proprie aziende. Tramite una sapiente costruzione di parole chiave, è possibile infatti creare un sistema che favorisca la diffusione e condivisione di articoli favorevoli alle innumerevoli compagnie di Musk e che invece sfavorisca le voci critiche nei suoi riguardi e del suo operato aziendale. Lo stesso CEO di Tesla negli anni ha più volte dimostrato di mal sopportare le critiche nei suoi confronti, bloccando dal suo profilo ufficiale di Twitter molti profili “colpevoli” di rilanciare informazioni negative nei suoi confronti. Caso eclatante è stato quello riguardante Public Citizens, organizzazione senza scopo di lucro di difesa dei diritti dei consumatori americani, che proprio nel giorno successivo alla notizia ha rilanciato il ban ricevuto da Musk.

 

È solo difesa della libertà d’espressione?

Osservato questo quadro generale, viene difficile credere che la decisione di Musk di acquistare Twitter sia mossa unicamente dalla volontà di garantire e difendere la libertà d’espressione sulla piattaforma. Una motivazione, nobile sulla carta, che non giustifica la cifra di 44 miliardi di dollari spesa dall’uomo più ricco del mondo per completare questa operazione. Appare improbabile che dietro ad un esborso così sostanzioso non si nascondano delle precise finalità economiche, atte a salvaguardare i guadagni multimiliardari del novero di aziende gestite da Musk. 

Se l’acquisizione di Twitter dovesse venir confermata dagli azionisti del social network e dagli organi federali di controllo americani, il futuro dell’Uccellino Blu potrebbe divenire molto incerto. Come scritto da Evelyn Douek, senior research presso la Knight First Amendment Institute alla Columbia University, in questo articolo sull’Atlantic “Una regola generale delle piattaforme di ‘user-generated content’ è che ciascuna di queste deve iniziare a moderare i contenuti una volta che raggiunge una certa dimensione. Una piattaforma che rifiuta di sporcarsi le mani eliminando alcuni contenuti si troverà inevitabilmente sommersa da truffe, porno e reclutatori di terroristi”. La promessa di totale libertà d’espressione priva di moderazione di Musk rischia di trasformare Twitter in una piattaforma aperta a qualsivoglia forma di hate speech e propaganda politica falsa, fenomeni che la precedente amministrazione aveva cercato di combattere. 

Il CEO di Tesla sembra promettere il ritorno di Twitter a piattaforma neutra priva di responsabilità sui contenuti pubblicati su di essa, un falso mito minato dai problemi che tale gestione delle piattaforme social hanno causato al dibattito pubblico internazionale. La mossa di Musk non è rivoluzionaria: fa parte di quella tendenza che da sempre accompagna gli uomini più ricchi del mondo di conquistare i principali media d’informazione per plasmare il flusso del dibattito pubblico secondo le proprie necessità e interessi economici. Una tendenza che non può che essere favorita dall’acquisto di Twitter: una volta che Musk avrà il controllo del social media di riferimento per le agende politiche internazionali, nulla vieterà a uomini altrettanto facoltosi di muovere i propri tentacoli verso le altre fonti principali dell’informazione pubblica. Jeff Bezos, così colpito dalla mossa di Musk, potrebbe non accontentarsi più della gestione del solo Washington Post e optare per una sempre più massiccia campagna d’acquisizione di media tradizionali, sfruttando anche la profonda crisi del settore.

La questione appare chiara: dopo Twitter, il rischio della creazione di oligopoli informativi al servizio delle persone più ricche del mondo diventa sempre più reale. Nel nome di una non meglio specificata “libertà d’espressione”, si rischia di compromettere per sempre il sacro diritto alla libera informazione della popolazione globale.

Articolo di Luca Bagnariol