Occidente e oriente di fronte alle richieste di attenzione del popolo birmano

Il colpo di stato in Myanmar tra sorpresa e prevedibilità

Il 1 febbraio 2021 i cittadini del Myanmar si sono svegliati senza accesso ad Internet e ai social media. Quella mattina il neo-eletto Parlamento guidato dalla NLD avrebbe dovuto riunirsi, ma il Tatmadaw (nome con cui è conosciuto localmente l’esercito del Myanmar) ha rovesciato il governo eletto e arrestato più di 100 importanti legislatori e attivisti, tra cui la consigliera di Stato Aung San Suu Kyi.  L’esercito ha in seguito consegnato il potere al capo militare Min Aung Hlaing e ha dichiarato lo stato di emergenza per un anno, al termine del quale si terranno nuove elezioni. Tale presa di potere non ha infranto quanto attualmente previsto dalla Costituzione del Paese, ma anzi i militari hanno dichiarato di aver agito in sua difesa, agendo entro i confini stabiliti dalle sezioni 417 e 418 per assicurarsi che le loro rivendicazioni di frode elettorale fossero ascoltate e che la Corte Suprema fosse in grado di emettere una decisione prima che un Parlamento guidato dalla NLD potesse riunirsi. 

Per comprendere uno scenario socio-politico così complicato, è necessario ricordare alcuni passaggi fondamentali nella storia del Paese. A fine anni ‘40 il Myanmar ottenne l’indipendenza dalla corona britannica e nel 1962 piombò in una spietata dittatura militare che resse fino al 2010. Quell’anno si ebbero le prime elezioni generali multipartitiche. I militari dichiararono la vittoria del proprio partito (USDP, Partito della Solidarietà e dello Sviluppo dell’Unione), ma numerosi gruppi di opposizione pro-democrazia lo accusarono di frode. Il 30 marzo 2011 la giunta militare al Governo venne dissolta e si aprì la strada ad una democrazia parlamentare semi-civile. 

Successivamente, alle elezioni generali del 2015, il NLD ha ottenuto la maggioranza assoluta in entrambe le camere del Parlamento e così il candidato Htin Kyaw diventò il primo presidente civile dal 1962, mentre da aprile 2016 Aung San Suu Kyi ricopre il ruolo di Consigliere di Stato. Gli ultimi dieci anni di storia del Paese riportano un processo di transizione democratica lento, tumultuoso, a tratti incoerente e non ancora concluso. Da un lato, sono state intraprese numerose riforme tra cui l’istituzione della Commissione nazionale per i diritti umani, la scarcerazione della leader pro-democrazia Aung San Suu Kyi, il riconoscimento dell’amnistia a più di 200 prigionieri politici, nuove leggi sul lavoro che permettono il diritto ai sindacati e agli scioperi, un rilassamento del censura della stampa e la regolamentazione delle pratiche monetarie. Dall’altro lato, costanti guerre civili derivanti per lo più da conflitti etnici o rivendicazioni di autonomia sub-nazionale continuano a destabilizzare il Paese, la costituzione vigente prevede che i militari possano designare il 25% dei membri del Parlamento, bloccando così la possibilità di raggiungere la maggioranza necessaria per emendare la costituzione non democratica in vigore redatta dalla giunta militare nel 2008. 

Inoltre, regna l’assenza di un ordinamento giuridico indipendente e l’opposizione politica al governo militare non è tollerata. Al riguardo, è interessante che nelle ultime elezioni di novembre 2020 i partiti etnici abbiano ottenuto solo il 10% dei seggi e che, come riportato dal New Mandala,  molti appartenenti a vari gruppi etnici ritengano che le loro vite e condizioni rimarrebbero le stesse sia che il paese sia governato dai militari che dal partito democratico della NLD. Infine, nonostante le riforme monetarie e fiscali avviate, si stima che in Myanmar il prodotto interno lordo sommerso sia tre volte quello dichiarato, come ricordato da Michele Boario, consigliere tecnico dell’organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale. I dati e passaggi storici appena riassunti suggeriscono che adottando la prospettiva dei militari, in un’analisi di costi e benefici derivanti dal golpe si sia ritenuto che il prezzo da pagare in termini di crisi di fiducia, riduzione degli investimenti esteri e l’arrivo di nuove sanzioni mirate fosse comunque inferiore ai costi che, in alternativa, deriverebbero dal compimento del processo di transizione democratica e l’accrescimento del potere politico di leader civili. 

L’apparente prevedibilità e premeditazione del colpo di stato trova ulteriore prova dell’insolita diffusa presenza di forze di sicurezza a Naypyidaw e Yangon proprio durante il giorno del colpo di stato. 

 

Il Myanmar chiede di non essere dimenticato: chi accenderà la luce? 

Il recente golpe rappresenta un’ulteriore occasione di confronto tra Occidente e Oriente, paragonabili a due estremi di un pendolo lungo il quale il Myanmar oscilla fin dalla sua indipendenza.

I rapporti tra la Cina e il Tatmadaw sono caratterizzati da un lungo periodo di astio reciproco durante il quale l’esercito del Myanmar ha accusato la Cina di sostenere alcuni gruppi etnici armati birmani che combattevano contro il governo centrale fin dai tempi dell’indipendenza nel 1948. Tuttavia, dopo la svolta severa e illiberale intrapresa dal regime militare instauratosi nel 1988, gli Stati Uniti e l’Unione Europea imposero diverse sanzioni economiche e un embargo sulle armi in Myanmar, costringendo molte aziende occidentali a lasciare il Paese, mentre la Cina divenne il principale partner riguardo al commercio di armi. Inoltre, bisognoso di valuta estera, il Myanmar aprì la propria economia agli investimenti stranieri e diverse aziende cinesi sfruttarono tale situazione per acquistare concessioni di legname, distruggendo vaste aree di foresta nel nord e costruendo gasdotti lungo l’intero paese.

I generali divennero nervosi e preoccupati dal fatto che il Myanmar si stesse trasformando in uno stato vassallo della Cina e ciò li portò a intraprendere un programma di riforme e a consegnare il potere a un governo quasi civile nel 2011. Tale governo si è aperto alle relazioni con Washington e ha minacciato di rinegoziare alcuni contratti esistenti per gli investimenti cinesi, mentre nello stesso anno la Comunità Europea rimosse tutte le sanzioni vigenti eccetto quelle riguardanti l’industria bellica e gli armamenti. Tra il 2012 e il 2014, il valore di investimenti stranieri in Myanmar è cresciuto da 2 a 9 miliardi e nello stesso periodo l’Unione Europea si è posizionata come partner del Paese nel suo processo di transizione democratica. 

Nel 2013 l’Ue ha aperto una delegazione a pieno titolo e ha istituito una task-force apposita per sostenere la democratizzazione. Nel 2014 le due parti hanno anche iniziato a impegnarsi in un regolare dialogo sui diritti umani, mentre nel 2015 l’Ue ha firmato come testimone internazionale l’accordo di cessate il fuoco nazionale e ha dispiegato la più grande missione internazionale di osservazione elettorale con circa 100 osservatori alle elezioni generali di quell’anno. 

In seguito alla vittoria elettorale della NLD di Aung San Suu Kyi nel 2015, l’Occidente ha nuovamente allentato alcune sanzioni e il Myanmar si è aperto ulteriormente ad altri investitori stranieri. Nel frattempo, però, ha ripreso a corteggiare la Cina firmando piani di investimenti noti come “Corridoio economico Cina-Myanmar” per finanziare alcuni progetti infrastrutturali nel  Paese dal valore di miliardi di dollari che, tra le altre cose, permettono di costruire la rete di strade, ferrovie e zone economiche speciali in snodi chiavi della Belt and Road Initiative. Le relazioni di avvicinamento a Pechino hanno subito una particolare impennata dopo la campagna di uccisioni di massa, stupri e incendi dolosi trattenuta dai militari del Myanmar contro la minoranza musulmana dei Rohingya nel 2017. Si calcola che durante l’ultima ondata di persecuzioni circa 650 mila musulmani siano sfollati nei campi profughi vicino al Bangladesh per scappare dalle operazioni di rastrellamento.

L’Occidente ha criticato e punito il silenzio di Aung San suu Kyi, allora  leader del Paese e premio Nobel per la pace nel 1991. L’Unione Europea ha intensificato le sanzioni in vigore, adottato un quadro di misure mirate contro i funzionari responsabili di gravi violazioni dei diritti umani e sospeso qualsiasi invito del comandante militare del Myanmar in quanto pratica facente parte del dialogo tra il comitato militare dell’Unione Europea e il comandante in capo alle forze armate del Tatmadaw iniziato con alcune visite reciproche nel 2016. Anche l’amministrazione Trump ha criticato rapidamente la pulizia etnica dell’esercito birmano, ma fallì nel processo già tentato senza successo dal suo predecessore di cercare di professionalizzare il Tatmadaw offrendo assistenza statunitense ai futuri leader militari e cercando di sviluppare con essi delle relazioni di fiducia e influenza. 

Per quanto in linea con i valori liberali e democratici, indossare le lenti occidentali per analizzare fenomeni e contesti diversi non può che implicare effetti collaterali. Infatti, tale atteggiamento ha portato a sottovalutare il ruolo dei militari nel vincolare la Lady durante il suo governo, come dimostra anche la scarsa attenzione dei media occidentali nel 2017 riguardo l’assassinio del costituzionalista Yangon, oppositore dello strapotere dei militari, promotore una proposta di legge contro le azioni di odio nei confronti delle minoranze, sostenitore dell’NLD e stretto collaboratore di Aung San Suu Kyi che, tuttavia, non rilasciò alcuna dichiarazione, né si presentò ai funerali, probabilmente perché intimorita dal messaggio politico che tale assassinio ha voluto mandare. Nel frattempo, dal 2017 la Cina e la Russia hanno migliorato le loro relazioni con il Myanmar e nel 2020 il presidente Xi Jinping nel 2020 si è recato nel  Paese, segnando la prima visita di un leader cinese nel paese  dopo 19 anni e parlando di una nuova era di relazioni «basate sulla vicinanza fraterna».

Boario spiega che da dopo il golpe del 1 febbraio, un noto produttore di birra giapponese ha annunciato di volersi ritirare dal Myanmar e ci sono le premesse per pensare che anche altri investitori stranieri faranno lo stesso, lasciando potenzialmente alla Cina lo spazio sufficiente per diventare l’unico partner economico del Paese nel medio termine. Finora, Pechino si è trattenuto dal definire la presa di potere del Tatmadaw un colpo di stato, chiamandolo piuttosto «un grande rimpasto di gabinetto», e il 3 febbraio Cina e Russia hanno bloccato il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dal rilasciare una dichiarazione di condanna dei militari. Per quanto questa posizione sembri in linea con il principio di non interferenza negli affari interni di Paesi terzi che guida la politica estera cinese, l’attuale cauta posizione di Pechino non deve essere interpretata come appoggio agli sviluppi interni del Paese. 

Infatti, il 4 febbraio Pechino e Mosca hanno sostenuto una dichiarazione annacquata di preoccupazione per lo stato di emergenza dichiarato dal Tatmadaw e chiedendo il rilascio di Aung San Suu Kyi, adottando quindi una posizione di stemperamento delle azioni ONU piuttosto che di osteggiamento delle stesse, dimostrando quanto quella odierna sia una Cina diversa, una Cina che sta cercando di posizionarsi sulla scena globale. Dall’altro lato, come spiegato dal Royal United Services Institute, alcuni ex funzionari indiani suggeriscono che Nuova Delhi adotterà un approccio più pragmatico nelle sue relazioni con il Myanmar, continuando a sostenere il processo di democratizzazione e ad impegnarsi con il governo, probabilmente perché preoccupata che il potenziale isolamento diplomatico del Paese possa favorire Pechino nel più ampio quadro di competizione strategica sino-indiana in Asia meridionale. 

In secondo luogo, siccome all’interno dell’ASEAN – l’organizzazione politica, economica e culturale di Paesi del Sud-est asiatico  – il Myanmar è l’unico paese  con cui l’India condivide un confine terrestre, il Paese è importante per l’India non solo in termini geopolitici ma anche per quanto riguarda la tentata politica di espansione delle relazioni economiche con i paesi del sud-est e dell’Asia orientale. Una posizione cauta è stata anche quella intrapresa dall’Unione Europea in seguito al consiglio di ministri degli esteri del 22 febbraio durante il quale si è deciso di non implementare nuove sanzioni, contrariamente a quanto fatto dagli Stati Uniti di Biden, ma nel frattempo sollecitare la distensione dell’attuale situazione di crisi, la fine immediata dello stato di emergenza, il ripristino del governo civile legittimo, il rilascio immediato dei politici e attivisti detenuti  e l’apertura del neoeletto parlamento. L’UE intende evitare di contribuire alla destabilizzazione della regione, ma si dice pronta ad adottare ulteriori eventuali misure restrittive, mentre nel frattempo continuerà a fornire assistenza umanitaria e ad utilizzare canali di dialogo insieme ad altri partner regionali e internazionali. 

Meno compatta è, invece, la risposta dell’ASEAN dove Singapore, Malesia e Indonesia hanno espresso preoccupazione, mentre Thailandia, Cambogia e Filippine hanno liquidato l’evento come un «affare interno» del Myanmar. Tale frammentazione limita nuovamente la capacità dell’organizzazione nel generare una risposta collettiva, come già avvenuto durante il colpo di stato in Thailandia nel 2014. Decisamente più forte sono state le reazioni di 137 ONG locali e internazionali che hanno richiesto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite di imporre immediatamente un embargo sulla vendita di armi al governo militare e della Nuova Zelanda che ha sospeso tutti i contatti militari e politici con il Paese, impegnandosi a bloccare qualsiasi aiuto che potrebbe andare al governo militare ed emettendo divieti di viaggio per i nuovi leader.

Mentre le reazioni internazionali sono caute e frammentate, le proteste interne al Paese continuano in modo sempre più compatto, così come più determinata e aggressiva diventa la reazione da parte dei militari. A causa delle norme anti-covid, i giornalisti stranieri non possono entrare nel paese e i social sono lo strumento più potente che il popolo birmano ha a disposizione per chiedere al mondo di non voltare lo sguardo. Ad oggi si stimano circa 38 morti e 1300 arrestati, in un contesto in cui ai posti di blocco la polizia controlla i telefonini e canali social dei protestanti che vengono fermati. Intanto venerdì scorso, al palazzo di vetro di New York, l’ex rappresentante del Myanmar ha presentato appello alle Nazioni Unite per fermare il colpo militare nel Paese, concludendo il suo discorso con il saluto a tre dita usato dai protestanti birmani e preso in prestito dal film “The Hunger Games”. Il giorno dopo, i militari hanno invitato U Tin Maung Naing come nuovo ufficiale rappresentante del Myanmar. Oggi entrambi posseggono il badge e le credenziali di ingresso al Palazzo, ma il posto per la rappresentanza del Paese è solo uno. 

Tra un ripasso storico e geopolitico delle relazioni del Myanmar, si può quindi concludere che ci sono delle ragioni per sostenere che il golpe fosse prevedibile, mentre l’analisi delle reazioni internazionali all’evento suggerisce prospettive in qualche misura più inaspettate. Tra un Occidente che timidamente si accorge delle disattenzioni commesse e un Oriente in cui nuovi attori stanno emergendo in modo più o meno dirompente a livello regionale e internazionali, il popolo del Myanmar chiede al mondo intero di non essere lasciato nell’ombra. Continuare a osservare l’evoluzione della situazione potrebbe offrire spunti interessanti sui nuovi principi guida della politica estera cinese, nonché sul processo di istituzionalizzazione e integrazione dell’ASEAN in quanto modello di integrazione e governance regionale differente da quelli occidentali già a lungo e approfonditamente analizzati.

Articolo di Aurora Grazioli