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Il Nagorno Karabakh continuerà a cercare la sua autodeterminazione
Da settembre sono tornati a soffiare i venti di guerra in Nagorno-Karabakh, regione montagnosa situata nel Caucaso, tra Armenia e Azerbaigian. Si è riaccesa una miccia che era stata temporaneamente disinnescata ventisei anni fa, riportando alla ribalta la difficile situazione di una regione che ha vissuto un destino analogo a quello di molte altre ex-repubbliche sovietiche.
Il crollo dell’Unione sovietica all’inizio degli anni ’90 ha infatti significato la disintegrazione di un intero spazio che si estendeva da Minsk a Vladivostok, ridisegnando la posta in gioco dei conflitti in giro per il mondo. Il quadro internazionale uscito dalla Guerra fredda, tuttavia, non ha mai ricevuto piena legittimità da un diritto internazionale incapace di rendere ragione di un mondo in cui, scomparsa la conflittualità tra blocchi ideologici, le nazionalità reclamano un proprio spazio. La mancata sintesi tra due principi egualmente validi ma contraddittori, il diritto all’autodeterminazione dei popoli e l’intangibilità delle frontiere, diventa dunque funzionale alla conservazione di uno status quo che permette di perpetuare i rapporti di forza già esistenti tra le potenze.
Come si è arrivati a questo conflitto?
La maggior parte delle guerre scoppiate dagli anni ’90 ad oggi possiamo ricondurle al tentativo di superare questa diatriba giuridica per raggiungere una mediazione: l’aspirazione all’autodeterminazione di un popolo non può che essere letta se non attraverso le lenti del conflitto. Una dimensione questa, che è stata invece progressivamente censurata dal nostro senso comune a favore dell’intermediazione e della diplomazia.
La guerra rimane però un mezzo, violento, brutale e spesso ingiusto, per cercare di mutare i rapporti di forza. Nonostante la crescente complessità degli equilibri geopolitici abbia ridimensionato la capacità politica effettiva dello Stato a favore delle manovre delle grandi potenze, questa forma politica rimane ancora nel XXI secolo l’unico strumento in grado di legittimare le nazionalità oppresse garantendo il riconoscimento della propria esistenza. La situazione del Nagorno-Karabakh è interessante sotto questo punto di vista perché, oltre ad essere stata la miccia del crollo dell’Unione sovietica, ci offre un esempio di come l’aspirazione alla sovranità di popolazioni che non hanno mai conosciuto la pienezza di questo diritto si sia tradotta in un conflitto perpetuo per il territorio che dura da più di un secolo.
Un errore vecchio cent’anni
Le radici della disputa territoriale attorno a questa regione del Caucaso vanno cercate nella politica delle nazionalità che l’URSS adottò nei primi anni ’20 del Novecento. Il commissario alle nazionalità che si occupò di seguire da vicino la strutturazione amministrativa dell’impero sovietico fu il georgiano Iosif Stalin che adottò una politica di riconoscimento di un’autonomia amministrativa più o meno ampia alle numerose popolazioni che abitavano il Caucaso: in questo quadro, tuttavia, nel 1921 il Nagorno-Karabakh, a maggioranza armena, fu assegnato all’Azerbaigian, per tentare un riavvicinamento di Mosca con la Turchia di Mustafa Kemal, alleata degli azeri.
Quella decisione continua a pesare ancora oggi sulle sorti delle popolazioni armena e azera che abitano quel territorio. Le tensioni tra le due popolazioni ostili sono cominciate ad esplodere nel 1988, quando gli armeni del Nagorno-Karabakh cominciarono a rivendicare l’unione con la madrepatria: di lì a poco si scatenò la furia violenta dei pogrom che portarono alla guerra del 1992-1994 conclusa con un cessate il fuoco che ha congelato la situazione territoriale sancendo la nascita della Repubblica armena dell’Artsakh, un’entità statuale che ha di fatto amministrato la regione del Nagorno-Karabakh senza tuttavia godere del riconoscimento internazionale. Nonostante ripetute violazioni nel corso dei ventisei anni, il cessate il fuoco è rimasto in vigore mantenendo intatto lo status quo.
Dal 1994, tuttavia, gli equilibri sono molto mutati: l’Azerbaigian è stato in grado di emanciparsi dal dominio russo ed ha vissuto un periodo di notevole crescita economica grazie allo sfruttamento degli idrocarburi. L’Armenia ha invece sofferto dell’isolamento internazionale dovuto alla sua posizione geografica, stretta in una morsa turca, ed ha potuto avvalersi solo di una salda alleanza con la Russia e di buoni rapporti con il vicino Iran. L’elezione dell’attuale primo ministro Nikol Pashinyan, leader della cosiddetta Rivoluzione di velluto, ha però minato le basi dell’amicizia con la Russia, scalzando con una forte ondata di proteste il vecchio blocco di potere filo-russo con le sue lotte anti-corruzione.
Il Caucaso è oggi un teatro conteso tra Russia e Turchia: i primi sono costretti a difendere quello che hanno da sempre considerato il proprio giardino di casa dall’offensiva dei secondi che tentano di offrirsi come potenza imperiale nello spazio del perduto impero. Dal rinnovato scoppio delle ostilità avvenuto alla fine di settembre in Nagorno-Karabakh, Turchia e Israele hanno appoggiato militarmente in maniera esplicita le ambizioni azere mentre l’Armenia ha potuto contare quasi esclusivamente sulle sue forze e su quelle della sua nutrita e rumorosa diaspora in giro per il mondo, che tuttavia non sono state sufficienti a scongiurare una drammatica sconfitta tattica sul terreno.
Il ruolo dei media
La propaganda del governo azero ha generato, nel corso degli anni, una narrazione falsa e bellicosa. Questo ha portato la giornalista azera Arzu Geybullayeva a definire la sua generazione “una generazione di guerra”, nata e cresciuta sotto l’ombra dell’aperta ostilità che da un trentennio oppone Armenia e Azerbaijan. Geybullayeva è stata vittima di un massacro mediatico per essere stata una voce critica sulla guerra nell’opinione pubblica azera, pesantemente influenzata, quest’ultima, dal controllo governativo sui mezzi di informazione: Reporter Sans Frontières ha collocato l’Azerbaigian al 168° posto (su 180) nella classifica della libertà di stampa 2020; e durante il conflitto la longa manus del governo sui media si è ulteriormente irrobustita. Anche in Armenia i mezzi di informazione sono stati ampiamente utilizzati. “A Yerevan la propaganda era asfissiante, la retorica marziale feroce; c’erano ovunque maxi schermi che lanciavano appelli alla difesa della patria e proiettavano immagini del sacrificio dei soldati. Ma le voci di dissenso sono state più accettate perché operavano all’interno di una realtà democratica, al contrario dell’Azerbaijan”. A dircelo è Daniele Bellocchio, reporter italiano, collaboratore di diverse testate tra cui l’Espresso, Il Giornale e InsideOver. Nel 2016 Daniele aveva raccontato dal campo gli scontri nel Nagorno-Karabakh, dove è tornato quest’anno appena dopo l’inizio del conflitto.
L’accusa a Pashinyan
Dallo scoppio della prima guerra dopo lo scioglimento dell’URSS non si è mai giunti a un accordo di pace definitivo. “La guerra era nell’aria, ma non era prevedibile in queste dimensioni”, ci dice Daniele.
Oggi come allora, fin dall’apertura degli scontri la disparità di forze in campo è parsa evidente. Una delle accuse che ora pesano di più sul primo ministro armeno Pashinyan è quella di aver rinunciato alla resa anche quando l’esito del conflitto era ampiamente prevedibile, ma soprattutto di aver mentito fino all’ultimo sull’andamento degli scontri. “Alle 11 di sera del 9 novembre, Pashinyan dichiara su Facebook di aver firmato la resa con accordi dolorosissimi per lui e per la nazione. Appena due ore prima aveva dichiarato, sempre su Facebook, che la città di Shushi stava resistendo e che la guerra non era finita. La popolazione ha continuato a credere nella vittoria. Arrivavano notizie di trionfi sul fronte. Noi giornalisti sapevamo che era una follia: quando siamo stati sul fronte tra Hadrut e Martakert ci siamo resi conto che l’esercito era fatto da volontari, da una congerie di ragazzi di ventura mandati in prima linea come carne da macello. Parlando con la popolazione civile e con i militari sembrava invece che l’Armenia stesse vincendo”.
Il 9 novembre invece, dopo quasi un mese e mezzo dall’inizio del nuovo conflitto, l’Armenia è stata costretta al tavolo delle trattative che hanno portato alla firma di un accordo per il cessate il fuoco patrocinato dalla Russia. L’accordo si propone di congelare la situazione attuale grazie al dispiegamento di più di 1900 truppe russe con obiettivi di peace-keeping: la parte settentrionale dell’Artsakh con la capitale Stepanakert rimane in mano armena, mentre di quella meridionale viene sancita la riconquista azera. Se in Armenia il premier Pashinyan è stato fortemente criticato da violente proteste di piazza, un’ondata di giubilo ha invece investito l’Azerbaigian che ha recentemente dato sfoggio della propria superiorità inscenando una parata militare nella capitale Baku alla quale ha partecipato anche il presidente turco Erdogan.
Nelle ultime settimane la tregua è stata però scossa da incursioni azere che hanno tentato di ridisegnare il confine a proprio vantaggio, indice del fatto che l’unica soluzione possibile per il conflitto è una soluzione politica che superi l’orizzonte temporale attuale per instaurare nuovi equilibri nella regione.
Pacekeeper russi nella regione
Esilio per alcuni, ritorno per altri
Esattamente come dopo il conflitto degli anni ’90, “a ridosso del 9 novembre c’è stata la grande fuga,” racconta Bellocchio. “Si parlava di circa 130 mila persone in fuga da ogni parte dell’Artsakh”, su una popolazione di circa 150 mila. Intere città svuotate. Un enorme flusso di esuli praticamente privo di qualunque forma di coordinamento. “C’era un tappo che bloccava il corridoio di Lachin’, città bombardata dagli azeri. Reporter Sans Frontières e le organizzazioni internazionali si sono dovute organizzare per evacuare ottanta giornalisti stranieri. Le persone davano fuoco alle case, ammazzavano il bestiame per non lasciarlo in mano agli azeri”.
Una guerra, quindi, che nella narrazione azera segna la revanche per una ferita vecchia di trent’anni, che però nessuno ha mai tentato di ricucire. “I profughi azeri della prima guerra non sono mai stati ricollocati. Sono stati lasciati a vivere nelle tendopoli, nutrendoli di rancore ed esponendoli come vittime all’opinione pubblica internazionale, covando il desiderio di vendetta per la perdita territoriale”. Anche la politica armena, d’altro canto, si è ispirata negli ultimi anni agli stessi sentimenti bellicosi. “C’è stata una forte crescita della retorica marziale. Nelle scuole elementari sono appese le foto degli eroi di guerra, le istruzioni sugli armamenti e sulla leva militare obbligatoria”.
Quando la guerra rimane l’unico strumento
Se è vero che la guerra è spesso l’unico strumento efficace per risolvere la diatriba fra diritto all’autodeterminazione e intangibilità delle frontiere, la cultura nazionalista promossa dalle istituzioni appare evidentemente funzionale a questo scopo. Ma d’altro canto, le istanze indipendentistiche e le rivendicazioni per le terre perdute sono parte integrante della cultura popolare, e per gli armeni del Karabakh sono il frutto di quell’aspirazione a farsi Stato che esiste da almeno cent’anni. Nella storia recente del Nagorno-Karabakh è mancata la volontà e anche la possibilità di progettare un processo di pacifica stabilizzazione politica. “La voce forte della storia recente nel Karabakh è stata quella di un forte nazionalismo che ha infettato tutti i gangli della società”, ci dice Bellocchio.
Per queste ragioni Geybullayeva ha parlato di “generazione di guerra”. L’ostilità reciproca appartiene al retroterra culturale della cittadinanza. Il discorso sulla cultura s’intreccia con gli equilibri geopolitici del Caucaso, con gli interessi nazionali e con gli interessi delle vicine superpotenze. La diplomazia internazionale non ha potuto inserirsi in questo complicato contesto, e, se anche ci fosse riuscita probabilmente i suoi strumenti sarebbero stati insufficienti. È stata infine una guerra a segnare la svolta più importante nel futuro prossimo del Nagorno-Karabakh.
Articolo di Roberto Smaldore e Fabrizio Maroni