Christopher Nolan è ossessionato dal tempo

Se qui ci fosse Maurice Fischer – l’inflessibile padre del Cillian Murphy di Inception – a dire la sua sull’ultima e più ambiziosa impresa di Christopher Nolan, trovereste semplicemente scritto: “Quello che posso darvi è una parola: disappunto”. Sbaragliata la concorrenza a Hollywood, dove le grandi produzioni stanno subendo posticipi fino al 2022 per via del fattore Covid, Tenet è diventato l’evento cinematografico dell’anno, riportando nelle sale un pubblico già in fermento, ulteriormente fomentato dall’incertezza sulla data d’uscita. Nolan si è quindi ritrovato fra le mani un’arma a doppio taglio, che l’ha sì catapultato nell’olimpo del box office di quest’anno con 45 milioni di dollari incassati in Nord America e 262 nel resto del mondo, ma che ha deluso le aspettative di molti, produttori compresi viste le cifre al botteghino, irrisorie in termini assoluti, soprattutto per il mercato statunitense. L’eccessiva eccitazione ha finito per remare contro a quella che è un po’ la summa del percorso registico di Nolan, nonché l’occasione per tirare le fila di un discorso sulla temporalità che l’ha contraddistinto in molte pellicole. Tenet rimanda infatti al Tempo fin dalla prima, esplosiva scena: quell’amplesso orchestrale che fa da preludio al primo di cinque Atti in cui è divisa questa rappresentazione ormai ventennale. Cinque come i film scelti per analizzarla.

 

Memento (2000)

Tratto dall’omonimo racconto breve del fratello Jonathan – il vero sceneggiatore fra i due – Memento rappresenta il primo esperimento temporale dei Nolan. Un tentativo ancestrale, esercizio puramente stilistico dove gli sfasamenti temporali non intaccano in alcun modo le sorti dei personaggi o della trama, ma vengono utilizzati come espedienti di montaggio: per raccontare la storia del paziente psichiatrico Lenny Shelby (Guy Pearce), Nolan spezzetta il girato in segmenti scenici di pochi minuti, riavvolgendoli in fase di montaggio e inframmezzandoli con spezzoni in bianco e nero apparentemente incollocabili. L’ultima scena diventa la prima, la penultima la seconda e così via. L’intento è quello di far provare allo spettatore la stessa sensazione del protagonista: raccontando la storia al contrario, aprendo ogni segmento in medias res senza mostrare il “prima”, Nolan riproduce lo spaesamento da disturbo della memoria a breve termine con un’operazione geniale. Non si assiste quindi a una vera e propria inversione – se non nei primi fotogrammi, in cui si ritrova il proiettile che rientra nel caricatore – perché le singole scene rimangono lineari nella loro singolarità. Giocando tutto sul twist ending per lasciare lo spettatore ignaro fino all’ultimo, la magia scompare già a una seconda visione, non più ignaro; tuttavia Memento rimane per molti nostalgici il capolavoro dei Fratelli Nolan, più umile e intimo in confronto ai successivi kolossal, nella maggior parte dei quali il sodalizio è venuto meno. Privati l’uno dell’altro, i due mostrano le rispettive carenze: Jonathan nel suo Westworld, serie della HBO per cui scrive ottimi personaggi ma si confonde nella messa in scena; Christopher col suo Tenet, impeccabile nella minuzia temporale ma con dei dialoghi da far sanguinare le orecchie.

Si dice che la gestazione di Tenet sia durata dieci anni. Decisamente troppi se si considera la scarsa cura messa nella sceneggiatura da Christopher Nolan, forse troppo preoccupato di far tornare tutti i conti per accorgersi di aver scritto uno sceneggiato che, semplicemente, non gli rende giustizia. I personaggi discutono come peripatetici circondati da un’atmosfera da spy story – con la sua bond girl cavallona e il suo Sean Connery versione afro – che ha fatto storcere il naso al gusto personale di molti. La prima metà del film sta tutta lì: in più scene fondamentalmente uguali dove la preparazione del colpo avviene ad alta voce, passeggiando nel bel mezzo di folle oceaniche, magari proprio in quell’aeroporto sul quale si progetta di far schiantare un aereo. Scelta della squadra, preparazione del colpo, missione compiuta. Così almeno per un paio di cicli, quanto basta per riempire un’oretta buona di bobina. Ma è quando si arriva ai dialoghi cruciali, che il regista compie gli errori più gravi, violando la regola drammaturgica basilare: “Niente spiegoni!”. Per eccessivo amor di chiarezza, Nolan imbocca lo spettatore fino all’esaurimento, rompendo di fatto la quarta parete in modo del tutto innaturale e trasformandosi nell’amico della comitiva che farebbe anche ridere, se solo non si ostinasse a spiegare le barzellette. Quando poi si rende conto di aver esagerato, li diluisce con dei botta e risposta anche peggiori, telefonati, insignificanti, di quelli che metteresti in bocca a un T-800 impersonato da Arnold Schwarzenegger: “È la procedura operativa standard”. Aspetti questi, che la crème de la crème della critica internazionale ha passato in rassegna poco o niente, tutta presa – come Nolan d’altronde – dal rigore dell’impianto temporale, millantando una confusione di fatto inesistente, accusando il regista di aver fatto il passo più lungo della gamba. Su tutti Leslie Felperin, che sull’Hollywood Reporter si è vantata di non aver capito il film dopo ben due visioni, non considerando che la mancanza è interpretabile in ambo i sensi. Giacché a una dissezione autoptica dei suoi numerosi snodi, Tenet non appare affatto confuso, spiegando fin troppo e lasciando ben poco alla libera interpretazione; semmai complicato, ma il meglio della critica dovrebbe riconoscere l’abisso fra i due aggettivi, dove il primo indica la violazione (da parte dell’autore) di un principio all’interno di un sistema di regole prestabilito, e non la difficoltà (da parte dello spettatore) nel comprenderlo per quanto articolato possa sembrare.

 

Inception (2010)

Peccato che in Tenet non si verifichino errori di questo genere, con i quali Nolan – padre fondatore del blockbuster cervellotico – ebbe invece a che fare in un altro sistema complesso, senza però che a qualcuno venisse in mente di negare la bontà della pellicola. Il film in questione è Inception, che a dieci anni dall’uscita tiene il pubblico ancora avvinghiato al dubbio insolubile di Dom Cobb (Leonardo DiCaprio): “Sogno o son desto?”. Nolan si è sempre rifiutato di fornire una risposta, mettendo l’accento sul valore della domanda. O meglio, sul fatto che Cobb, arresosi al desiderio di ritornare dai suoi figli, non se la ponga più, lasciando il solo spettatore a preoccuparsi della trottola. Una scappatoia che andrebbe bene detta da chiunque altro, meno che da Nolan, così rigoroso e severo con se stesso. Via via che sprofonda nei sottolivelli onirici – col tempo che in questo caso subisce una dilatazione esponenziale, trasformando i minuti in settimane e poi anni – Nolan sembra difatti perdere di vista le stesse regole che si era autoimposto, dal Totem al Calcio: per svegliarsi non si deve perdere il calcio coordinato; uccidersi in un sogno sotto sedativo fa sprofondare solo in un livello ulteriore; il totem smette di funzionare se toccato da altri all’infuori del suo proprietario. Una volta messe a sistema, l’equazione non torna: osservando una regola, le altre le soccombono.

Normalmente, queste hanno per noi, come il tempo stesso d’altronde, una direzione chiara e irreversibile, con differenze ineludibili tra passato e futuro: le sigarette non si rigenerano dal fumo e dalla cenere; una volta mischiati, caffè e  latte non si separano spontaneamente. Tuttavia, nel suo film, Nolan non sembra curarsi di quest’evidenza empirica: proiettili che rientrano nelle pistole che li hanno sparati; veicoli ribaltati che tornano a sfrecciare in retromarcia; tracce di catastrofi non ancora avvenute. Grazie al tornello, colonna portante dell’originalità di Tenet, il regista fa muovere a ritroso nel passato singoli oggetti, invertendo il tempo in maniera perfettamente coerente con i dettami della fisica. Sorprendentemente, da Einstein a Maxwell, che si tratti di relatività speciale o meccanica quantistica, tutte le equazioni che meglio descrivono il nostro universo funzionano perfettamente sia che il tempo scorra in avanti sia che scorra all’indietro. Proprio come nel titolo (palindromo) del film, l’avanti e l’indietro sono indifferenti. Eppure un orientamento temporale rimane privilegiato, sbilanciando – come evidenziato nella pellicola – le  nostre esperienze dal passato verso il futuro: vale a dire nella direzione in cui l’entropia – cioè il disordine – può solo aumentare, come affermato dalla seconda delle leggi sulla Termodinamica. E proprio da qui Nolan parte per la sua svolta, manipolando una variabile per trovare una strada diversa nei percorsi del tempo: il tornello non è infatti la classica macchina del tempo a teletrasporto, ma un apparecchio in grado di invertire l’entropia stessa di oggetti e persone, che riescono così a muoversi a ritroso in una realtà che mantiene invece le nostre coordinate temporali. Equazioni, termodinamica, entropia: se vi gira la testa è perché il tema è particolarmente scivoloso, causa non di rado di paradossi e contraddizioni. Parlare di viaggi nel tempo è come entrare in un labirinto in cui la causa e l’effetto sembrano rincorrersi incessantemente, in una gara in cui non si riesce più a capire dov’è il principio e dov’è la fine. Uno degli scenari teorici più abusati – anche in Nolan – per spiegare queste problematiche è il celebre Paradosso del Nonno: se un uomo tornasse indietro nel tempo per uccidere suo nonno, non potrebbe mai nascere e dunque commettere l’omicidio stesso. Un po’ quello che avverrebbe agli antagonisti del futuro di Tenet se riuscissero nella loro impresa di impedire il surriscaldamento globale nel passato, invertendo l’entropia del mondo fino al suo collasso e uccidendo così i loro antenati. E quale soluzione, si domandano i protagonisti, è stata trovata dai loro discendenti, dai loro futuri nipoti? In realtà, nessuna. Nolan sembra lavarsene le mani e dirci con una semplice battuta: “Non c’è soluzione, è un paradosso!”. Ma ciò che Tenet si limita a problematizzare, un altro film interviene per risolvere.

 

Interstellar (2014)

Quello che alle parole d’ordine di Walt Withman (“Viviamo in un mondo crepuscolare”) risponderebbe coi versi di un altro poeta, Dylan Thomas, per scuotere Tenet e farlo rinsavire: “Non andartene docile in quella buona notte. Infuriati, infuriati contro il morire della luce!”. Nel 2014, Jonathan e Christopher si ritrovano insieme a lavorare su una diversa tipologia di viaggio temporale, offrendo in Interstellar un escamotage visivo – l’ennesima invenzione – che ristabilisce a pieno la coerenza degli spostamenti temporali: il tesseratto. Stavolta è il turno della Teoria dell’Universo a Blocchi, per la quale passato, presente e futuro hanno la stessa importanza, coesistendo tutti in una prospettiva in cui nessun momento è privilegiato. In altre parole, tutti gli eventi che compongono l’universo coesistono seppur in tempi diversi, così come diverse città – Kiev, Tallin, Mumbai – coesistono in spazi diversi: proprio come possiamo tornare più volte nello stesso luogo, teoricamente potremmo tornare più volte nello stesso tempo. È in questo spazio quadrimensionale che la fantasia del regista ha licenza di muoversi senza limiti o barriere. All’interno del tesseratto Joseph Cooper (Matthew McConaughey) assiste allo svolgimento temporale – anno per anno – di un singolo luogo, la cameretta della figlia, cercando inutilmente di impedire al se stesso del passato di partire per il suo viaggio interstellare, abbandonandola: ma se non ha creduto ai suoi stessi messaggi, è perché era già nel futuro per mandarseli. Questa una delle conseguenze più disorientanti dell’Universo a Blocchi: dobbiamo guardare la nostra vita come un grande libro, in cui tutto è già scritto. Non si può cambiare il corso degli eventi, ma solo farli realizzare per come essi si presentano, si sono presentati e si presenteranno sempre. Una verità compresa da Cooper senza bisogno degli spiegoni superflui che si ritrovano invece in Tenet, ma solo grazie alla potenza immaginativa del tesseratto.

Far parlare le immagini rimane dunque la formula chiave per il successo, come Nolan ci invita a fare, nonostante tutto, anche nel suo ultimo film, con un consiglio direttamente indirizzato allo spettatore: “Non cercare di capire, sentilo”. E vedilo. Il problema è che anche dal punto di vista attoriale, Tenet conta su una qualità interpretativa inferiore alla media delle commedie romantiche. I personaggi principali vengono declassati a misere comparse rispetto all’unico vero protagonista: il tempo.

 

Dunkirk (2017)

A ricordarcelo, ultimo ma non meno importante, è Dunkirk, stagione 2017, nel quale Nolan si ostina a giocare con i suoi trucchi da prestigiatore (analessi e prolessi) in modo del tutto ingiustificato – ma non per questo meno godibile – per un film di guerra, spezzettando la cronaca storica in tre linee narrative da far convergere in un punto preciso dello spazio-tempo, in una coordinata precisa del piano cartesiano. Il Tempo si riconferma dunque il suo marchio di fabbrica, la sua cifra stilistica, il suo affezionatissimo attore feticcio. Anche a scapito dei veri attori, in Tenet più che mai. Nel pieno della sua Fase McConaughey, Robert Pattinson regala la prova migliore, accettando ogni ruolo disponibile per guadagnarsi il suo posto al sole lontano da un passato decisamente pallido – in tutti i sensi. Notato nel Blackkklansman di Spike Lee, John D. Washington cambia la capigliatura ma non la strafottenza alla Harlem Anni ‘80, folleggiandosi in risse da bar del tutto inadeguate per un agente della CIA. Costretto in un antagonista scritto davvero male, le cui motivazioni sembrano più le proiezioni di un geloso in andropausa che di un oligarca russo trafficante di armi, Kenneth Branagh fa l’impossibile per salvare il salvabile.

In conclusione, Tenet sembra aver ricevuto lodi e condanne in quantità bilanciate, ma all’incontrario rispetto ai suoi meriti e demeriti. O per meglio dire all’inverso, visto che in effetti ci troviamo di fronte all’ultimo tornello di questo articolo. La fine e l’inizio si confondono, diventando una cosa sola. Perché questo explicit non fa che rimandarvi all’incipit, nella speranza che quanto è stato scritto nel mezzo abbia innestato in chi legge “una sola idea, molto semplice, che avrebbe cambiato tutto”: che il disappunto paterno possa trasformarsi in approvazione.

Articolo di Carlo Giuliano, Claudia Esposito