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Non dateci più il nostro cibo quotidiano
L’essere (animale) umano ed il rapporto con gli allevamenti intensivi
L’espressione Wet Market è stata sulla bocca di tutti per mesi in concomitanza con la pandemia corrente: drammatiche le immagini restituite dai media dei mercati cinesi e lontanissime dall’immaginario quotidiano. Tali realtà sono state identificate da alcuni come una delle principali cause dello scoppio della pandemia, anche se non è ancora una tesi condivisa né tantomeno verificata. In Italia, una delle ultime proteste contro gli allevamenti intensivi è avvenuta il 10 ottobre 2020 a Jesi in cui i manifestanti hanno denunciato l’incremento degli allevamenti e dei disagi territoriali per coloro che vivono nelle vicinanze.
La bilancia del consumo carnivoro
In breve, con “allevamento intensivo” si intende una forma di allevamento che mette in pratica le tecniche scientifiche ed industriali ai fini della produzione (in massima quantità) di carne con un impiego di suolo e costi ottimizzando il prodotto in base alle richieste di mercato.
Da ormai qualche anno, varie istituzioni e organizzazioni hanno avviato delle analisi con lo scopo di rilevare la perdita di benessere e l’impatto negativo non solo ambientale ma trasversale a diversi settori. Nel 2006 la FAO ha pubblicato Livestock’s Long Shadow: Environmental Issues and Option in cui emerge con grande chiarezza l’enorme danneggiamento della zootecnia sull’ambiente e i ricorrenti avvertimenti dichiarati dalla comunità scientifica, affermando apertamente l’insostenibilità di un’alimentazione carnivora, soprattutto nel lungo periodo. In seguito alla pandemia ancora in atto, l’ISTAT ha rilevato, che l’allevamento nel territorio italiano è stato altamente colpito sia per il calo dei prezzi, nel nord Italia un particolare ma anche della domanda (precisamente più a sud).
Dallo studio Il costo nascosto del consumo di carne in Italia: impatti ambientali e sanitari commissionato dalla Lega Anti Vivisezione alla società, Demetra, di ricerca scientifica in ambito sostenibilità è emerso che sulla collettività ricade un totale di 36,6 miliardi di euro all’anno come costo effettivo della carne: con questa cifra si intendono il 52% di costi sanitari e il 48% di costi ambientali, quest’ultimi calcolati seguendo le undici categorie di impatto che sono state pubblicate dalla Commissione Europea per gli studi LCA (Analisi del Ciclo di Vita), tra i quali cambiamenti climatici, riduzione dello strato di ozono, occupazione di suolo, consumo di acqua. Inoltre, una ricerca avviata da Greenpeace ha evidenziato che il 17% delle emissioni di gas serra totali dell’Unione Europea provengono dagli allevamenti intensivi, più di quelle di automobili e furgoni se fossero sommate insieme con un aumento costante dal 2007 al 2018.
La legge italiana
Sorge spontanea la domanda se dal punto di vista legislativo si sia cercato di contenere o contrastare gli allevamenti intensivi, soprattutto per ciò che riguarda il maltrattamento degli animali. In Italia questo fenomeno è gestito a livello istituzionale dal Ministero della Salute, il quale ha pubblicato un opuscolo dal titolo “Norme nazionali sulla protezione degli animali negli allevamenti. Competenze e responsabilità” in cui viene sottolineata più volte la protezione garantita degli animali negli allevamenti sancita dalle leggi nazionali ed internazionali, insieme alla competenza e la responsabilità di organi e persone che se ne occupano dal Ministero della Salute stesso, ai veterinari delle ASL e gli stessi allevatori. Emerge un’effettiva volontà di controllo del fenomeno degli allevamenti intensivi, in particolare del maltrattamento degli animali con riferimento ad una legge del nostro Codice penale, l’articolo 544-ter per il quale: “chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche è punito con la reclusione da 3 a 18 mesi o con la multa da 5 mila a 30 mila euro. La stessa pena si applica a chiunque somministra agli animali sostanze stupefacenti o vietate ovvero li sottopone a trattamenti che procurano un danno alla salute degli stessi”; l’unico strumento per contrastare un’infrazione sarebbe quello comprendente le sanzioni amministrative.
La convinzione di essere diversi dagli altri
Una volta compreso che gli animali non umani sono prima di tutto esseri viventi senzienti, ogni forma di violenza e sopruso nei loro confronti si configura come un male che, in quanto tale, deve essere estirpato alla radice, non plasmato in una pillola addolcita più facile da digerire. Tom Regan, filosofo americano specializzato in diritto degli animali, affermava che “dobbiamo svuotare le gabbie, non renderle più grandi”.
La percezione umana dell’animale e le dinamiche del rapporto che ne conseguono sono dettati da un criterio del tutto infondato e privo di evidenza scientifica, di fatto la classificazione che prevede animali di serie A e animali di serie B. Coi primi siamo soliti intessere profondi legami affettivi, rendendoli compagni di vita meritevoli di amore e tutela; i secondi, nelle nostre menti si riducono a meri “agglomerati” di carne, volti unicamente a soddisfare le nostre esigenze. Tale classificazione si traduce in forme ed espressioni differenti a seconda del contesto culturale e sociale: cani e gatti, ad esempio, nell’orizzonte occidentale sono animali rispettati dall’uomo, mentre in quello orientale cibarsene è una pratica radicata sin dall’antichità.
Per comprendere l’infondatezza di questo convincimento si pensi alle parole del filosofo Peter Singer in merito al principio di eguaglianza, che non si configura come pretesa di eguaglianza reale ma come prescrizione sul modo in cui gli esseri umani dovrebbero essere trattati. L’incontro con l’altro è sempre incontro con la diversità, in quanto ogni individuo è unico e particolare nel suo essere, e se da una parte tale eterogeneità ci attrae, rendendo la relazione con l’altro un campo fertile di confronto e crescita personale, tuttavia non può diventare indicativa di una maggiore o minore abilità in un essere umano. Alla luce di questa considerazione, ad esempio, il razzismo e il sessismo si configurano come infondati e ingiustificabili. La stessa logica dovrebbe essere applicata anche all’interno del mondo animale: accogliere una classificazione come quella descritta in precedenza equivale ad imporre discriminazioni all’interno di una stessa ‘’categoria’’ di esseri viventi – quella degli animali non umani – sulla base di criteri insufficienti e non scientificamente validi, tanto per l’uomo quanto per l’animale. L’animale umano tende a collocarsi su un piedistallo, conquistando una posizione privilegiata che lo rende arbitro delle vite di coloro che non appartengono alla Specie Homo Sapiens. In questo modo si sfocia inevitabilmente in una prospettiva antropocentrica, che legittima atti di manipolazione nei confronti dell’ambiente circostante e degli esseri che ne fanno parte in funzione di un fine apparentemente maggiore e prioritario: l’uomo. Basti pensare alle infinite sperimentazioni condotte sugli animali, sottoposti a scosse elettriche e dosi letali o subletali di radiazioni, trasformati in cavie da laboratorio per indagini psicologiche che inducevano angoscia, depressione, ansia e morte, o sottoposti a test per cosmetici e coloranti. Tutte indagini e procedure che in campo scientifico spesso e volentieri non sembrano offrire nuove conoscenze realmente importanti o vitali.
Singer respinge dunque con forza tale impostazione: si tratta dello ‘’specismo’’, termine coniato per la prima volta nel 1970 dallo psicologo britannico Richard Ryder, pioniere del movimento liberazione animale, intendendo un pregiudizio o uno stato di prevenzione a favore degli interessi dei membri della propria specie, cui viene attribuito uno status superiore, sfavorendo quello dei membri di un’altra specie.
La presunzione dell’animale umano
L’intento primario non è quello di umanizzare l’animale, in quanto è indubbio che nell’essere umano la corteccia cerebrale, sede delle capacità intellettuali, presenti una maggiore complessità: tuttavia è nel diencefalo che hanno sede gli impulsi fondamentali, le emozioni e le sensazioni, e questa porzione del cervello risulta ben sviluppata in svariate specie animali. Nemmeno il linguaggio può essere ritenuto un fattore decisivo per stabilire se l’animale soffra o meno: l’essere umano possiede una capacità di verbalizzazione che evidentemente è assente nell’animale, ma farne un criterio per prescrivere il trattamento da riservare a un essere vivente è privo di qualsiasi senso e logica. Darwin sosteneva che l’uomo appartenga ad una varietà di esseri viventi che hanno compiuto un processo di evoluzione, lottando per la difesa e la sopravvivenza della propria specie. L’uomo, grazie alla facoltà della parola, è progredito notevolmente, guadagnandosi una posizione predominante all’interno del mondo animale ma ‘’non contento di questa supremazia, si è messo a scavare un abisso tra la sua natura e la loro, fino a considerarsi presuntuosamente l’immagine di Dio’’. Dunque, la differenza in termini di intelligenza e linguaggio tra l’uomo e l’animale si configura come una differenza di grado e non di tipo: la superiorità rivendicata dall’uomo non è un fatto reale. Il potere e il controllo procurano all’essere umano un piacere tanto inebriante quanto marcio alla radice, mettendo in moto un pericoloso circolo vizioso che lo induce a dominare l’ambiente circostante a discapito dell’altro: la vita diviene una corsa incessante verso un grado di dominio sempre maggiore, che induce ad agire a danno dell’altro pur di essere i primi in gara.
Tuttavia, come ribadisce Darwin, è chiaro che non è più necessario lottare contro le altre specie animali e ogni atto distruttivo non trova alcuna giustificazione. La tutela che gli animali richiedono non riguarda esclusivamente la loro ma si configura come un atto di rispetto verso l’uomo stesso: il difficile momento che stiamo vivendo da oltre un anno ne è la prova più tangibile.
Wet market e allevamenti intensivi: due facce della stessa medaglia
Negli ultimi decenni questa espressione è tornata ciclicamente alla ribalta, e quasi mai sotto una bella luce. Nello specifico, con l’espressione Wet Market s’intendono i mercati in cui vengono venduti prodotti freschi e deperibili (contrapposti ai Dry market) tra cui appunto anche carne fresca e animali appena uccisi o – in certi casi – ancora vivi.
Questi mercati non sono però necessariamente legati alla vendita di animali selvatici o esotici infatti la maggior parte non li commercializza, ma alcuni di quelli che lo fanno sono oggetto di studio sulla nascita di focolai di malattie zoonotiche, ovvero malattie infettive trasmesse dagli animali all’uomo, attraverso il consumo di alimenti contaminati o il contatto con animali infetti. Le ricerche condotte dall’European Food Safety Authority indicano che circa il 75% delle nuove malattie che hanno colpito l’uomo negli ultimi dieci anni è stato trasmesso da animali o da prodotti di origine animale. Un caso tristemente noto è il mercato di Huanan a Wuhan che l’OMS – nel suo report del 26 marzo 2020 sulle origini del virus – ritiene abbia svolto un ruolo fondamentale per la diffusione del virus all’origine della pandemia di Covid-19.
Alcune inchieste hanno portato sui nostri schermi terribili immagini, a testimonianza e denuncia di ciò che l’industria della carne comporta a livelli di igiene e benessere degli animali e, di conseguenza, di salute di chi li porta sulla propria tavola; sono inoltre stati lanciati diversi appelli, tra gli altri da parte del direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases, Anthony Fauci, con la richiesta della chiusura di questi mercati. Scandalizzati dalle condizioni igienico-sanitarie in cui vengono allevati e macellati gli animali in quegli ambienti, li condanniamo quali metodi barbari che ci appaiono tanto lontani dalla nostra realtà, ignari che la differenza con gli allevamenti europei è solo sulla carta. Indagini come quelle condotte dalla giornalista Sabrina Giannini mostrano che la regolamentazione europea non ha una reale efficacia pratica: nel programma di inchiesta “Indovina chi viene a cena”, vengono evidenziate come falle in primis la mancanza di controllo d’applicazione della normativa e la poco attendibile garanzia delle certificazioni “bio” o di benessere animale perché, come critica Paolo Carnemolla, presidente di FederBio: “ un allevatore può essere certificato biologico anche se non è a norma di legge”; da non dimenticare poi la collusione tra figure politiche, lobby, industrie, giornalisti ed esperti, nella promozione e pubblicizzazione ingannevole di beni alimentari non sani e/o eticamente prodotti. Un classico esempio di queste rassicurazioni posticce è l’espressione “galline allevate a terra” che non significa infatti che queste siano libere nei prati: sono allevate a terra ma in enormi capannoni sovraffollati, senza luce naturale e immerse nei loro stessi escrementi. Come descrive efficacemente Giannini, “i piani sequenza bucolici che la televisione mostra quando entra nei campi o negli allevamenti non fanno troppa distinzione tra intensivo o estensivo […] non c’è critica, denuncia, e tutto sembra un set perfetto del Truman Show agricolo”.
Qual è quindi il comune denominatore tra Wet market ed allevamenti intensivi? Le zoonosi nascono non solo con il contatto con animali selvatici, i quali patogeni entrano raramente in contatto col nostro sistema immunitario, ma anche in presenza di alcune circostanze come scarse condizioni igieniche e di ventilazione, che favoriscono lo sviluppo microrganismi patogeni, ammassamento degli animali in spazi ristretti, che permette il contagio rapido, scarsa diversità genetica, che rende questi animali tutti suscettibili allo stesso modo ai patogeni, ampio impiego di antibiotici e la conseguente resistenza agli stessi.
Cosa rimane al futuro
Come affermato nel libro ”La rivoluzione nel piatto”, l’unica nota positiva è che sono sempre di più gli allevatori e i coltivatori che non vogliono adeguarsi al sistema intensivo ma che, costretti a pagarne il prezzo in maggiori costi di produzione e in concorrenza sleale di aziende che falsamente si definiscono “bio”, hanno dovuto abbandonare il loro mestiere.
Una speranza sono le “nuove” generazioni che decidono di affacciarsi all’agricoltura con un intento etico di sostenibilità, con una nuova – o forse, vecchia – idea di agricoltura e allevamento. Una realtà in crescita è Slow Food, un movimento culturale internazionale nato in contrapposizione al concetto di fast-life e fast-food con obiettivi ben precisi: difendere la biodiversità e gli ecosistemi, diffondere prodotti di qualità rispettando la sostenibilità ambientale e sociale, valorizzare l’identità e le tradizioni culinarie di ogni singolo paese e tutelare i diritti dei consumatori, tra cui quello al gusto e che “le nostre scelte quotidiane a partire da ciò che è presente sulla nostra tavola possano cambiare il mondo”.
Non è ormai oscuro dunque che nel parlare di una transizione ecologica bisogna anche introdurre una transizione alimentare, come Roberto Bennati, il Direttore Generale LAV, ha più volte sottolineato. In questo momento avere una sensibilità su tematiche ambientali ed ecologiche vuol dire anche essere consapevoli dell’insostenibilità della carne per le modalità e quantità di consumo e di produzione. Fare un uso consapevole e moderato della carne, potrebbe essere un modo per intervenire singolarmente (anche) alla questione del cambiamento climatico: è necessario tenere a mente del prezzo ambientale e sanitario di ciò che abbiamo nel piatto.
Articolo di Marina Roio, Marta Guazzoni, Sara Sofia