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Come il #NoStreamDay potrebbe favorire gli streamer di Twitch
Perché il primo sciopero su Twitch potrebbe aver posto le basi per un miglioramento delle condizioni lavorative degli streamer.
L’avvento di internet ha, tra le altre cose, incoraggiato la nascita di nuove professioni. Tuttavia, se da un lato appare chiaro come la nascita di un mercato rappresenti un’opportunità per chiunque abbia intenzione di approfittarne, dall’altro si deve sempre considerare il rischio che esso difetti di un’adeguata regolamentazione, poiché difficilmente il diritto riesce a seguire il passo del progresso. Accade così che spetti proprio a coloro che lavorano nel determinato settore individuare eventuali problematiche e richiederne una soluzione. Un’esigenza che pare essere stata percepita all’interno della neonata categoria dei Content Creators, professionisti digitali che realizzano contenuti audio-video per piattaforme, generando un elevato riscontro tra gli utenti che le frequentano. Nello specifico è accaduto che lo scorso 9 dicembre numerosi streamers italiani presenti su Twitch, si siano rifiutati di andare in onda. L’evento, denominato dagli stessi NoStreamDay, presenta le caratteristiche tipiche di uno sciopero, tra i primi mai organizzati in questo settore.
Il NoStreamDay
Tra le cause di questo sciopero sembrano anche esserci le modalità che la piattaforma di San Francisco ha utilizzato nel bannare in modo permanente Daniele Simonetti, in arte Sdrumox, in seguito ad affermazioni giudicate razziste risalenti allo scorso giugno. Come più volte sottolineato dai promotori, ad essere contestate non sono le ragioni nel merito della sanzione, ma le modalità attraverso le quali la stessa è stata somministrata: ci sono infatti voluti circa sei mesi prima che la piattaforma comunicasse al ragazzo una decisione definitiva. In questo periodo a causa della sospensione dell’account, Simonetti si è trovato impossibilitato a svolgere il proprio lavoro, per poi constatare di averlo perduto definitivamente solo alla fine del mese di novembre. In seguito agli sviluppi di questa situazione, qualche giorno dopo vari streamers hanno redatto un manifesto nel quale criticano alla piattaforma l’assenza di chiarezza nelle regole e palesano la necessità di una maggiore trasparenza, affinché ognuno sappia quali specifici comportamenti siano leciti e quali meno.
Twitch, noto sito di livestreaming, negli ultimi anni ha esercitato una certa attrattiva per diversi Content Creators, i quali hanno compiuto una vera e propria migrazione approdando da altre piattaforme come Youtube. Il motivo lo chiarisce Ivan Grieco, noto commentatore di eSports nonché streamer, il cui nome appare tra i firmatari del manifesto del NoStreamDay: “Twitch è una buona piattaforma, più invitante rispetto alle altre, sia per quanto riguarda il livello tecnico che quello retributivo. Resta l’unica che ci permette di fare determinate cose e di guadagnare una determinata cifra, diciamo che non c’è concorrenza, qualora ce ne fosse se ne potrebbe riparlare.” Attualmente il sistema di retribuzione di Twitch si basa su tre modalità principali: le subscription, ovvero spettatori che pagano tra i 5 e i 25 euro per abbonarsi al canale in cambio di determinati vantaggi; le donazioni, che a seconda dello streamer a cui vengono fatte possono comportare per chi le fa la scelta della musica o la possibilità di fare dichiarazioni live; e le pubblicità che vengono mostrate sul canale.
Secondo Grieco questa crescente intolleranza verso sempre più espressioni o comportamenti non è accompagnata da una specificazione esaustiva riguardo le azioni sanzionabili: “Pretendiamo più chiarezza, riteniamo che ci siano delle zone grigie su determinati aspetti del regolamento, inoltre nel manifesto richiediamo anche una parità di trattamento per tutti gli streamers. Ci auguriamo che con gli aggiornamenti di fine gennaio queste incomprensioni saranno chiarite più nel dettaglio.”
Twitch ha infatti comunicato che dal 22 gennaio entrerà in vigore un nuovo regolamento che pare essere volto proprio verso una chiarificazione delle regole. Una decisione probabilmente spinta dalle diverse critiche mosse alla piattaforma in diversi paesi, compreso il nostro. Infatti, Grieco, ritiene plausibile che anche il NoStreamDay abbia avuto un ruolo in questa vicenda: “sicuramente ci sono state diverse lamentele al livello globale per la poca chiarezza del regolamento, forse la nostra protesta ha semplicemente accelerato l’uscita dell’annuncio, che già era nell’aria. Comunque abbiamo notato che il sito del NoStreamDay ha ricevuto visite anche da San Francisco, che è la città dove si trova la sede di Twitch America.”
Non resta che chiedersi, a questo punto, quali cambiamenti apporterà il NoStreamDay all’interno della categoria e se grazie ad esso verrà percepita sempre più l’esigenza della costituzione di un gruppo volto alla tutela degli interessi dei Content Creators. Ivan Grieco, nonostante sia consapevole della complessità del percorso, si reputa ottimista: “Sicuramente si incontreranno delle difficoltà, perché ognuno ha interesse nel tutelare sé stesso, tuttavia dal momento in cui si ottiene un piccolo risultato, credo che poi man mano tutti quanti si vorranno unire. Chiaramente è un processo lento, ma prima o poi sarà inevitabile che accada, così come è accaduto per le altre categorie lavorative.”
Sicuramente l’iniziativa è stata in grado di sorprendere ma anche di polarizzare streamer e pubblico, se è vero che questo genere di protesta, almeno in Italia, non ha avuto precedenti, lo stesso non si può dire dei problemi che il no stream day ha voluto evidenziare. Per farsi un’idea di cos’abbiano comportato la nascita e la diffusione di grandi piattaforme come Twitch sarà utile guardare ai travagliati pregressi di piattaforme simili, i cui casi costituiscono dei precedenti utili a orientarsi in contesti relativamente nuovi.
Lavorare sulle “piattaforme”
Non è facile trovare una definizione univoca di cosa sia una piattaforma, sotto questo termine rientrano Twitch e Youtube, ma anche Facebook, Spotify e servizi di trasporto e delivery. Quasi sempre la vocazione originaria di queste piattaforme è quella di “fare da tramite”, rendendo disponibile un’infrastruttura che possa mettere in comunicazione un acquirente con un operatore in grado di offrirgli un servizio specifico. Alcune sentenze storiche come quella della Corte di Giustizia dell’UE del 24 Dicembre 2017 sugli autisti di Uber, o la sentenza della Cassazione del 20 Gennaio 2020 in merito ai fattorini di Foodora indicano però come questa vocazione si scontri tendenzialmente con una realtà differente.
La relativamente recente nascita e diffusione di queste modalità di organizzazione del lavoro volta all’offerta di servizi (tendenzialmente a basso costo) ha portato con sé numerosi problemi relativi al rapporto tra piattaforme e lavoratori. Il più noto riguarda la tipologia di inquadramento dei contratti, in parole semplici: le piattaforme si limitano a mettere in contatto un cliente o utente con lavoratore che autonomamente gli offre un servizio, oppure si occupano anche di dare indicazioni al soggetto su come il suo lavoro vada svolto? Si tratta di una distinzione non da poco perché nel primo caso il lavoratore è autonomo, percepisce un compenso ma dovrà pagare da sé i contributi, non avrà diritto a ferie, permessi, malattie e altre importanti tutele. Nel secondo caso invece molto probabilmente è un lavoratore subordinato, dovrebbe avere diritto a tutto ciò che abbiamo elencato e al contempo però essere inserito nell’organigramma dell’azienda e compiere le mansioni nei modi e nei tempi che gli vengono richiesti. Entrambe le sentenze sopra citate hanno sostanzialmente sancito l’eterodirezione almeno parziale dei lavoratori rispetto alle piattaforme, a questi andrebbero di conseguenza riconosciute tutte le tutele dei subordinati. I creators di Twitch sono considerati alla stregua di liberi professionisti, legati da un rapporto contrattuale al sito. Come conferma infatti Grieco: “noi streamer abbiamo una partnership, siamo inquadrati come lavoratori autonomi e non subordinati, poiché il nostro non è un contratto tra dipendente e datore di lavoro. Noi streamers abbiamo dei doveri da rispettare e loro ci garantiscono l’utilizzo della piattaforma, questo è il discorso. Ad esempio, se siamo partner di Twitch non possiamo monetizzare facendo dirette su altre piattaforme come YouTube”.
Ma quali sono le modalità e i criteri con i quali vengono gestiti i dati e le valutazioni degli utenti? Anche su questo versante quel poco che c’è di letteratura giuridica è stato scritto prendendo le misure su figure professionali più vicine al rider che non allo streamer. Due sono i problemi che in un passato recente sono stati evidenziati: la scarsa trasparenza relativa alle metriche di valutazione e la non portabilità del ranking personale. In riferimento, ad esempio, all’algoritmo che permette di assegnare i turni ai rider è stato posto il problema di come questo funzioni essenzialmente secondo dei criteri non trasparenti, premiando con i turni più remunerativi chi da una disponibilità assoluta senza però dare la possibilità a tutti di comprenderne a pieno il meccanismo. Sulle piattaforme è possibile raggiungere certi traguardi che equivalgono in sostanza ad un livellamento di carriera: recensioni positive, sottoscrizioni, dati che sottolineano un’elevata produttività costituiscono un vero e proprio curriculum digitale. La non portabilità di questi dati mette il lavoratore, che per una qualsiasi ragione fosse allontanato da una piattaforma, nella condizione di perdere mesi o anni di lavoro e di dover ricominciare praticamente tutto da capo.
Nel merito di questo si esprime anche una recentissima sentenza del tribunale di Bologna che ha giudicato discriminatorio e non sensibile alle esigenze dei lavoratori un algoritmo utilizzato dalla compagnia Deliveroo, segno inequivocabile dell’attenzione crescente verso il tema.
Il futuro della professione
Il mondo delle piattaforme è differenziato e articolato, ma mutatis mutandis questi problemi sono gli stessi che sottostanno alle dinamiche che hanno spinto molti streamer a sottoscrivere il no stream day: una scarsa trasparenza e arbitrarietà nei sistemi di valutazione e l’eccessivo impatto di sanzioni come il “permaban”, un radicale allontanamento dalla piattaforma che comporta di fatto la quasi totale perdita del lavoro svolto magari per anni.
Twitch era stata scelta da molti creatori di contenuti in fuga da Youtube dopo l’adpocalypse proprio come un’alternativa più libera e remunerativa alla piattaforma di google, per via di un modello di monetizzazione non incentrato esclusivamente sulla pubblicità e di politiche interne meno vessatorie.
Tuttavia, anche la piattaforma acquistata nel 2014 da Amazon crescendo in numeri e popolarità ha dovuto intervenire con delle lingue guida più stringenti imponendo vincoli ed esercitando un controllo sui suoi streamer, basti pensare ai recenti casi del ban prima della parola Simp, poi della emoji PogChamp. Controllare e sanzionare i lavoratori è però un aspetto caratteristico di una modalità di lavoro subordinata, mentre gli streamer sono a tutti gli effetti lavoratori autonomi. A differenza dei rider che tramite il riconoscimento giuridico della condizione di lavoratori subordinati potevano ambire a maggiori tutele e garanzie, gli streamer sembrano tenere maggiormente ai loro spazi di autonomia. Il che non è strano se si pensa al genere di comicità talvolta licenziosa che una parte stessa del pubblico si aspetta dagli streamer.
“Questi lavoratori sono lavoratori autonomi, quantomeno sulla carta, ma quest’autonomia viene compressa da alcune di queste piattaforme e da qui nasce anche la manifestazione del disagio” – ci spiegano Antonio Aloisi e Valerio De Stefano, professori di Diritto del lavoro rispettivamente all’Università IE di Madrid e all’Università di Loviano che nel loro libro Il tuo capo è un algoritmo edito da Laterza, mettono in campo alcune proposte che se messe in pratica andrebbero proprio a risolvere problematiche di questo tipo.
La più importante di queste riguarda la possibilità di superare la rigida opposizione tra subordinazione e autonomia istituendo un corpo di diritti imprescindibili per tutte le tipologie di lavoratori. Una soluzione come questa consentirebbe di tutelare figure atipiche come quella dello streamer che difficilmente potrebbe essere inquadrato come lavoratore subordinato.
L’idea di garantire una tutela a tutti i lavoratori e non solamente ai subordinati, tramite un diritto universalistico e personale in grado di superare i vecchi inquadramenti, è sussurrata alle orecchie dei legislatori non solo da parte del mondo accademico ma anche da quello sindacale, va segnalato infatti che nel 2015 la CGIL aveva presentato la Carta dei diritti universali del lavoro, una proposta di legge di iniziativa popolare il cui contenuto verteva proprio sull’ampliamento dei diritti, svincolandosi dall’appartenenza ad una categoria piuttosto che un’altra.
I presupposti per un sostanziale miglioramento delle condizioni lavorative per streamer e creatori di contenuti sembrano quindi esserci, al momento la sfida più complessa forse è costituita dalla possibilità di mettere da parte faide e battibecchi interni alla categoria. Una volta uniti questi lavoratori della rete di certo non rischierebbero di passare inosservati.
Articolo di Alessio Esposito, Andrea Bacchin