È giunto il momento del lavoro infame.
Ho accettato conoscendo tutte le motivazioni ma senza averne compresa nessuna a fondo.
I dilemmi più complessi della vita non sono fatti per essere risolti dai dilettanti.
I dilettanti ci provano, e quando falliscono hanno le colpe che hanno, nessuna di meno. Ma, di certo, nessuna in più.
La decisione è stata presa da mia madre e i suoi fratelli in una cena a porte chiuse a casa dei miei. Il compito mi è stato notificato a notte fonda, con un discorso telegrafico addolcito da Zibibbo e biscotti alle mandorle.
Tutta la serata è ruotata attorno al ritornello del “non dico che si debba fare così, però...” Neanche a dirlo, alla fine stiamo facendo tutto come si diceva di non fare.
Il mantra che guida questa missione è quello di mia madre: «Puoi fingere con i clienti che il nonno abbia l’Alzheimer e che sia meglio non farlo innervosire».
La straordinaria vocazione morale della famiglia si può riassumere in questa frase.
Se a differenza della gente del quartiere sono venuto fuori con un senso del gusto rispettabile, lo devo alla casa del nonno.
Sono cresciuto in una delle tante zone di Roma dove i palazzinari hanno meritatamente truffato generazioni di persone oneste, convincendole che una villetta dalle dubbie qualità costruttive avrebbe avviato una nuova era dell’abitare.
Mi considero un miracolato solo grazie a quell’attico vicino al Pantheon.
Lo stesso che nella cena a porte chiuse mia madre e i suoi fratelli avevano deciso di vendere come nuda proprietà. L’infamia, se c’è bisogno di spiegarla, è che il proprietario non ne sa nulla.
Ed ecco il mio ruolo. Un surrogato di Robin Hood che ruba a dei non-più-ricchi suoi familiari per dare a dei finti poveri, anch’essi suoi familiari.
«Federico vammi a prendere i giornali per cortesia».
«Non posso, ti avevo detto che sto aspettando due amici per prendere gli appunti di progettazione, no?»
«Dopo puoi andare?»
«Sì, nonno. Dopo vado. Non sia mai che te li perda per un giorno».
«Se leggessi anche tu come leggo io non saresti così sottomesso».
Mentre parla dei giornali mi fisso sulla sua pupilla azzurra, ormai velata dalla cataratta. Nonno non si fida dei medici per qualche faccenda legata ad un’ernia operata anni prima. Una volta ho provato a convincerlo con uno di quegli aneddoti imparati da bambini che al momento giusto si possono spacciare per conoscenze di alto profilo.
«Già ai tempi dei romani si operava la cataratta…»
Non si era stupito e aveva blaterato qualcosa contro la sanità pubblica.
“I miei amici” non li ho mai visti. Sono degli agenti immobiliari a cui è stata affidata la vendita della casa. Fingere amicizie improbabili é tra le strategie migliori suggerite dal gotha familiare.
Sento suonare il campanello. Per qualche motivo devono aver trovato il portone aperto. Vengo assalito da un’ansia incredibile e mi accorgo che la scusa degli amici è un’idiozia.
Perché mai avrei dovuto salutare degli amici con la stretta di mano? E poi dove avremmo parlato delle varie questioni senza Nonno Eugenio alle spalle?! Potevamo vederci in un bar. Mi potevano invitare in agenzia.
Aprendo la porta cado nel letargo tipico dell’imbarazzo. I due sono vestiti in completo. Uno grigio e l’altro blu. Il lato positivo è che almeno sembrano studenti; degli universitari grassocci alla laurea dell’amico più in forma. Gli mancano solo le pizzette in mano e un prosecco da offerta speciale.
Timori inutili, nonno non ha voglia di presentarsi. Da lontano fa un cenno impercettibile e si chiude in camera.
«Buonasera Federico, possiamo darci del tu?»
«Certamente,» rispondo. D’altronde lo aveva appena fatto, dopodichè in una specie di trenino di sfondamento entrano in casa senza attendere neanche un “prego”.
«Ma che casa incredibile Federico!» aggiunge Completo grigio, poi si posiziona mezzo passo dietro Completo blu. Il rispetto della gerarchia per gli agenti immobiliari deve essere questione di vita o di morte. Il degno possessore dello smoking sintetico migliore avrà venduto senza dubbio almeno un paio di monolocali in più.
«Tranquillo Federico, vendere questa casa sarà un gioco da ragazzi».
«Basta che poi non ti spendi tutti i soldi» bisbiglia Completo grigio. Lo fa in una maniera talmente impacciata che sono quasi tentato di abbracciarlo. Nella sua testa è un’affermazione accattivante.
Il capo lo ammonisce con lo sguardo, la battuta gli sarà sembrata fuori luogo, legittimo.
Il comandamento doveva essere stato una cosa tipo “pronuncia frasi a effetto di basso livello e non arrossire mai”. Completo grigio aveva disatteso entrambe le regole. Una carriera rovinata.
«Allora Federico, ti lascio il foglio con l’elenco degli appuntamenti. Probabilmente ci saremo quasi sempre noi… Ti dico subito che la signora della prima visita, quella di lunedì prossimo, è anziana e molto particolare; dovrete avere un po’ di pazienza».
Una vecchia signora insopportabile a casa di un vecchio signore insopportabile. Potrebbe essere l’inizio di una romcom per la terza età, di certo non un avvio felice per la mia estate.
«Mia madre vi ha informato della situazione?» Chiedo a bassa voce sperando che non si sia scordata.
«Certo, certo. Tua madre ci ha detto dell'Alzheimer e ci dispiace molto... però le abbiamo spiegato che per motivi di forma sarebbe meglio che foste voi a informare direttamente i clienti sulla faccenda della proprietà e di eventuali complicazioni».
Bene, altra responsabilità acquisita. I clienti non saranno gentili complici del nostro delitto, spetta a me il ruolo audace di fregare anche loro. Un compito affidato ad uno che una volta è stato truffato da una mail di phishing pensata per settantenni.
«Ciao Federico ci vediamo presto! E salutaci il nonno da parte nostra».
Rispondo qualcosa come “alla prossima” e penso che per essere il leader della coppia non è molto sveglio: perché avrei dovuto dire ad un malato di Alzheimer che due tipi che non aveva mai visto lo avevano salutato?
Appena chiudo la porta, nonno esce dalla camera.
«Federico, i tuoi amici sono esteticamente deplorevoli».
La voce carica di una spocchia di altri tempi mi arriva da dietro e mi convinco che abbia sentito tutta la conversazione.
Ripasso la frase a mente. “Esteticamente deplorevoli”.
«Perché dici, nonno?»
«Mai visti dei completi così brutti».
«Hai ragione, ma glieli danno a lavoro. Fanno gli agenti di commercio per pagarsi gli studi».
«Se li comprassero di tasca loro, quelli fanno schifo».
Mi rilasso e annuisco ridacchiando. Lui è uno che critica come stile di vita, specializzato in Critica del Vestiario. Tutto nella norma.
Al matrimonio di mio Zio Tancredi aveva detto che il vestito della zia sembrava acquistato al mercatino dell’usato. Lo aveva detto ad alta voce proprio durante il “sì lo voglio” che credo si pronunci in quei casi.
Questo lo sapevo, come del resto quasi tutto, attraverso dei racconti.
Il rapporto con mio nonno è da sempre passato per il filtro insormontabile dei suoi figli.
E non poteva essere altrimenti anche per colpa della sua stramberia più nota: nonno non parla con i ragazzi fino ai tredici anni di età. Assurdità citata addirittura in una tesi di laurea in antropologia di un tizio di Pordenone.
Lo scambio massimo, prima di allora, era racchiuso in un cordialissimo: «Ciao Federico».
Almeno a me aveva concesso il privilegio del nome. La leggenda vuole che la prima frase mai detta a mio cugino Carlo sia stata: «Com’è che ti chiami tu?» seguita da un commento su suo padre Tancredi, riportato come: «Le scarpe con i lacci dopo una certa età ce li hanno solo i matti, e li usano per impiccarsi». Qualcosa mi dice che anche quella storia fosse stata ingigantita.
Sapere la differenza tra bello e brutto è per lui il principale vanto davanti ai figli, cresciuti nel periodo più sfortunato della storia familiare. L’unico possedimento rimasto di un passato nettamente migliore è questa casa. L’anello mancante tra l’uomo e la scimmia. Il grande vuoto tra gli affreschi al soffitto e la carta da parati a righe arancioni.
E io ora sono qui, su incarico dei tre figli, per venderla a sua insaputa.
«Federico, per cortesia, adesso puoi andare a prenderli?»