Nuda proprietà
Ep.3

di Edoardo Bucci

 

Vedo zia dalla distanza, sta aspettando sotto il portone.
Quando arrivo mi manda dei bacetti simpatici mentre indica con l’indice il suo telefono ricoperto da una brutta cover viola. Una di quelle a libretto.
Saliamo in ascensore e lei attacca solo una volta arrivati al piano.
«Fede amore, scusami tanto ma ci è arrivata una multona e non ne sappiamo il motivo».
Sul pianerottolo suggerisco a zia di riscendere per parlarne con calma ma fa troppo caldo. Il problema ora consiste nel trovare una blanda sintesi delle nostre idee su come permettere la visita della vecchia, il tutto mentre continua a sudare come se avesse fatto un paio di volte la maratona.
Si asciuga costantemente la fronte con la manica destra della maglietta.
La sua scarsa preparazione fisica è da sempre tra la folta schiera dei suoi punti deboli. Nonostante abbia intrapreso da tempo una miracolosa dieta monoproteica – che, a sentirla, doveva donarle la forza di un semidio – i risultati continuano a scarseggiare.
«Facciamo così e basta che si muore di caldo».
La sintesi è tratta. Io porto il nonno a prendere il gelato e lei si inventa una scusa per cui quella passeggiata è prioritaria.
Suono il campanello. Nonno sorride e mi dà la consueta stretta di mano vigorosa. Poi va da zia e l’abbraccia. La disparità di trattamento nel saluto mi ha sempre fatto sentire trascurato ma siamo in ritardo rispetto la tabella di marcia e non ho tempo per pensarci, la vecchia sarà qui in meno di mezz’ora.
Adesso è tutto in mano a mia zia.
«Mamma mia che caldo che fa oggi papà… perché non andate a prendervi un gelato?»
«Perché lo sanno anche i bambini che l’asfalto è vettore di calore».
«Vabbè ma non sono neanche cinquecento metri!»
«Se rimango seduto dove sto non ne faccio nessuno».
«A me andrebbe un gelato…»
«Vallo a prendere, allora».
La sua capacità di imporsi per superare le situazioni della vita è semplicemente inesistente.
Mentre me la immagino al lavoro con bimbi criminali che la obbligano a fare i compiti al posto loro – minacciandola con delle forbici gialle dalla punta rotonda – tira fuori dal cilindro sudato un’intuizione miracolosa.
«Comunque lo dicevo perché se voi vi andate a fare una passeggiata io pulisco casa e non mi state in mezzo».
L’ultima domestica mio nonno l’ha cacciata perché era convinto gli volesse rubare i suoi amati quadri. La poverina era del tutto innocente tranne del fatto di essere nata rumena.
«Mica è sporca casa».
«È piena di polvere!».
«Ti credo faccio tutto da solo».
«Appunto dico, ti do una mano a pulire».
«Va bene andiamo, Luisa tu lo vuoi?»
«Si, grazie».
«Che gusti?»
«Limone e fragola, gli stessi che prendevo quando ero piccolina. Con me non ti sbagli mai papà, l’unica cosa è che ho cambiato è il peso».
Nonno non sorride né dice nulla ma sembra in qualche modo intenerito dal ricordo, qualche secondo dopo siamo fuori dalla porta.
Nell’androne incontriamo il Figlio dell’Ambasciatore. Un uomo di non più di quarantacinque anni molto distinto. Un metro e ottanta con barba castana curata.
Figura mistica della mia infanzia, da sempre ignoro il suo nome. Lo identifico solo come il Figlio del Padre. La sua impresa più importante si era avviata e conclusa con la nascita.
«Buonasera».
«Buonasera».

«…Buonasera,» mi accodo ma il loro uno-due non mi include.
«Certo che senza terrazzo d’estate qui si muore».
Nonno come sempre allude con fierezza a quella che è la storia più gloriosa degli ultimi trent’anni della nostra famiglia.
In pratica il Padre del Figlio dell’Ambasciatore – che era proprio l’ambasciatore argentino presso la Santa Sede – si era innamorato della casa dei nonni. Aveva fatto un’offerta folle per comprarla ma loro avevano rifiutato.
Lui comunque, infatuato dal palazzetto del ‘500 e dalla piazza antistante, ha optato per comprare un’altra casa al piano nobile. A detta di tutti più grande e di rappresentanza, ma meno bella della nostra e soprattutto senza terrazzo.
Nulla di straordinario ma quando ci incrociavamo, parcheggiando la brutta monovolume blu etnico di mio padre, mi sono sempre sentito di poterglielo rinfacciare per riscattare il buon nome della famiglia.

Usciamo dal portone. Sotto casa c’è una fitta distesa di sanpietrini, nessuna traccia di asfalto. Nonno aveva bluffato ma fa comunque troppo caldo. Arriviamo davanti ad un posto che dal nome esteso sulla targa in ottone è L’Istituto Nazionale per la Guardia d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon. Davanti il portale esterno si inchioda e fa il solito saluto militare a quello che viene considerato il più importante presidio alla memoria dei Savoia in Italia.
Non so per quale onorevole motivo il saluto debba durare sempre qualche minuto.
Io aspetto a due metri di distanza.

«God save the King».

Un tizio qualche metro più avanti decide di volerlo prendere per il culo.
Realizzo che è il buttadentro di uno di quei ristoranti per turisti con in esposizione delle pizze ai frutti di mare.
«God save the King».
Nonno è in trance e non si accorge di nulla. Continua con il suo tormentone mentre sta quasi per scoppiare a riderci in faccia. Non fa in tempo però, è obbligato da contratto a fare il simpatico con delle cellulitiche turiste inglesi.«Belisime do you want taste some real italian food?»
Nonostante la sbeffeggiata questa volta mi riprometto di non insistere con le domande retoriche sul perché sostenere i valori monarchici nel XXI secolo. Non riuscendo, tra l’altro, a cavarmela alle incalzanti asserzioni di nonno sui brogli nel referendum del ‘46.
Tira finalmente giù il braccio.
La gelateria è poco più avanti. Coppetta cioccolato, crema e panna per lui, cono con gusti alla frutta per me, per mangiarlo ci disponiamo sui tavoli d’acciaio esterni.
«Ieri in televisione c’era una retrospettiva sul Tour de France».
Superato il fatidico scoglio dei tredici anni, il ciclismo e l’acquisto dei giornali sono stati il fil rouge del nostro rapporto nonno-nipote.
A mio padre piace molto e quando nonno ha scoperto che mi interessava e ci capivo qualcosa ha iniziato a considerarmi un individuo senziente a tutti gli effetti.
La sua fissazione è per le fughe.
Ha una predilezione per il Giro D’Italia del ‘76 con la storica vittoria di Gandarias a Torri del Vajolet. Può parlarne anche due ore di fila senza bisogno di cenni d’interessamento da parte dell’interlocutore. A me non crea problemi, i suoi racconti mi piacciono e almeno lui li romanza un po’ per renderli affascinanti, non come mio padre.
«La Cuneo-Pinerolo del ‘49 sarebbe proibitiva anche con le bici di oggi… Coppi ha elevato l’idea stessa del ciclismo e dello sport in generale quella volta».
Io sono stato tra i pochi ad aver visto quella fuga…
«Io sono stato tra i pochi ad aver visto quella fuga, non c’era mica la televisione. Avrò avuto l’età tua ed ero andato in bici all’alba fino al Monginevro, in mezzo alle Alpi francesi, solo per vedere Bartali».

Nonno ha finito il gelato prima di me.
«Quando avevo meno di trent’anni ho fatto anche parte di una squadra. Poi ho avuto un problema al tendine e ho dovuto smettere. Ero bravo». Questo ricordo era una novità indiscussa rispetto al canovaccio standard.
Il tendine difettoso è lo stesso che lo porta ancora a zoppicare un po’ dalla gamba sinistra, per quello almeno si è fatto curare.
Mentre nonno riprende il filo del discorso sui tornanti delle Alpi francesi mi squilla il telefono.
È mia madre. Mi allontano un attimo facendo finta che non prenda.
«Mi hanno chiamato gli agenti immobiliari, torna subito a casa di nonno che tua zia è scappata di casa».
«Ma che ha fatto?»
«Ha avuto un attacco di panico».
«Sbrigati, stanno ancora là».
Dico a mia madre di farli andar via che altrimenti non avrei saputo cosa inventarmi per giustificare la faccenda al nostro ritorno. Rifletto in maniera confusionaria sulla necessità di tornare a casa per provare a rintracciare zia da lì.
«Nonno mi ha chiamato Zia Luisa. È dovuta andare via di casa e ci ha lasciato le chiavi sotto il tappetino. Si scusa… ma mi sa che è meglio se torniamo».
Nel dirlo spero effettivamente che abbia lasciato le chiavi da qualche parte o che sia tornata, altrimenti la faccenda si complica.
«Perché è dovuta andar via?»
«Non so non mi ha specificato».
«Io il gelato glielo prendo comunque e lo metto in congelatore.»
Osservo da fuori nonno rientrare dentro la gelateria. Prende una coppetta piccola che incartano con della stagnola e la depositano in una busta bianca.

Siamo di nuovo fermi davanti al presidio ai Savoia. Ha il gelato nella mano sinistra e con la destra fa il solito saluto militare. Guardo il telefono con una dose considerevole di irrequietudine sperando in un messaggio di distensione. Una cosa del tipo: «Per la pena che le ha suscitato quella tonta di tua zia, la vecchia ha comprato la casa senza trattare».
Il messaggio tarda ad arrivare.
Dopo un minuto abbondante si vedono delle gocce di gelato sui sampietrini; si deve essere ribaltata la coppetta. Per fortuna questa volta il buttadentro è girato dall’altra parte.
Possiamo ricominciare a camminare.
Quando arriviamo a casa zia è già tornata.
«Ho avuto un falso allarme per una cosa di lavoro che si è risolta…ora mi metto a pulire. Tutto bene il gelato?»
Nonno non risponde. Zia sembra aver appena finito di piangere e cerca di mascherarlo come può.
La sua disinvoltura non è migliorata durante la pausa gelato.
Non so assolutamente come comportarmi, vorrei darle un segno di affetto ma rischierei di insospettire nonno peggiorando la situazione. Così mi viene istintivo batterle una fredda pacca sulla spalla destra, una particolare fusione tra una carezza e il colpo del genitore quando ti stai per strozzare. Lei mi stringe il polso per ringraziarmi del maldestro tentativo.
Quando nonno le offre la coppetta solleva un attimo le sopracciglia e sfoggia un sorriso tenerissimo.
Togliendo la carta stagnola vede però il gelato cioccolato e crema.
Sospira e abbassa gli occhi mentre si passa le mani sulle sopracciglia.
Conoscendo il padre già il fatto che si sia ricordato di prenderglielo dovrebbe essere da apprezzare.
«Non ti preoccupare per le pulizie, faccio io domani che se sudi ancora stramazzi al suolo».
Accantonata quindi l’idea delle pulizie ci sediamo attorno al tavolo sotto l’altana.
Il sole sta iniziando a tramontare e con il ponentino che non trova ostacoli intorno si sta benissimo. Da lì sopra si vede la casa e il terrazzo più in basso come fossero lontani, da piccolo fingevo che fosse un’altra abitazione tutta per me.
Io provo a studiare mentre nonno legge uno dei suoi giornali. Zia con gli occhi ancora lucidi è appoggiata qualche metro più in là sul muretto cercando di mangiare quel che resta del suo gelato. Nel vederla così a distanza con il cerchietto rosso in testa e la faccia sporca di cioccolato sembra una bimba. Una bimba troppo grassa e sudata per intenerire suo padre.

Tornato a casa ho parlato con mia madre riguardo ciò che avevo capito, lei ha chiamato Luisa e hanno avuto una lunga telefonata. Almeno un’ora e mezza in cucina a passeggiare avanti e indietro. La porta l’ha chiusa più per non disturbarci che per nascondere gli incredibili segreti della zia.
«Luisa devi reagire però a queste cose, non hai mica dodici anni».
Fatto questo tutto da dimostrare.
Con il più classico dei metodi hanno optato per una cena il giorno dopo inquadrata sotto la dicitura in codice di Passare un po’ di tempo insieme.

Il ristorante “La Salita” con la sua distesa infernale di tavoli tondi di finto legno rappresenta un ritrovo classico per le comunioni e i battesimi dell’hinterland romano. Un posto non degno di nota che deve la sua fortuna all’essere collocato in un luogo vagamente piacevole.
La parte peggiore della classe media si ritrova qui in bella stagione spinta dall’irrefrenabile pulsione simil-sessuale di mangiare tanto a prezzi abbordabili.
Lo squallore della piscina di venti metri al centro del ristorante, impregnata di alghe verdicce, non sembra essere un valido deterrente.
Non lo è neanche la veranda di dimensioni titaniche, tappa obbligata nel Grand Tour Romano dei manufatti abusivi.
La nostra famiglia lo ha scoperto alla comunione di mio cugino Giorgio e non si sa per quale bizzarro motivo ne era rimasta colpita.
La cena è stata fissata qui per lanciare un inequivocabile segnale di coinvolgimento verso Tancredi, che comunque non si è presentato. La scusa è stata così poco valida che mamma ha esitato nel riportarcela.
Arrivati sul piazzale di terra battuta adibito a parcheggio svetta una schiera abbondante di Station Wagon diesel, rigorosamente dei primi duemila, con i parafanghi sporchi di terriccio del viale.
«Mamma mia che bel freschetto, altro che l’asfalto di Roma».
Clichè romano sempre puntuale tra luglio e settembre, in voga tra chi varca di qualche metro il raccordo.
Dall’entusiasmo sembriamo arrivati in una riserva naturale islandese.
«Guarda tutto gli si può dire a Tancredi ma a scegliere questi posti è proprio bravo».
«Io quasi mi ci trasferirei».
Mamma segue nel glorificare i tre gradi centigradi in meno.
Il cameriere ci fa sedere ad un tavolo rotondo con un centrotavola di fiori finti. Il background di ristorante da battesimi di bassa categoria prevale anche nelle occasioni informali.
«Luisa ed Enrico stanno arrivando, cinque minuti e sono qua».
Poi ricorda la massima della serata: «Non fare riferimento in nessun modo alla storia di zia che scappa piangendo di casa». Fa appena in tempo, la loro Station Wagon diesel, rigorosamente dei primi duemila, ha appena finito di parcheggiare.

«Guarda un po’ che nipote alto c’ho».
«Ciao zio, come va’?»
«Incredibile come basta uscire da Roma e sparisce l’afa».
Papà annuisce entusiasta.
«In ferie quando ci vai Enrì?»
«Faccio un’altra settimana e poi mi rivedono a settembre. Te Giulia’?»
«Io quest’estate me la faccio tutta a Roma, ho preso più ferie a Natale».
«Mamma mia tutto agosto a casa un incubo».
«Eh, qua mica siamo tutti come qualcuno che stacca a Giugno e riattacca a Settembre».
Papà si esprime ciondolando la testa senza accennare neanche uno sguardo a mamma, deve aver deciso un po’ a caso di rompergli le palle sul tema.
«Ma se sto tutto il giorno a fare ripetizioni!»
«Tutto in nero, e poi rompono il cazzo con i sindacati della scuola».
«Lo sai benissimo che la gente non fa i contratti di prestazione».
«Ma dai Giulia’ ci mancherebbe che sti poveracci non possono manco fare ripetizioni d’estate, è assurdo che i professori in Italia siano i meno pagati al mondo».
Zio esagera con la statistica per difendere mia madre, Luisa rimane in disparte.
«Ma sì, stavo giocando».
«Ma invece, senti un po’, Tancredi che si è inventato per non venire?»
«Guarda se te lo dico ti convinci a cambiare cognome».
«E dai, facci ridere».
«In pratica ha detto che ha un corso di aggiornamento notturno per professionisti che lavorano dalle otto di sera alle sei di mattina».
«Magari è vero».
«Sì, ma non è finita. Gli ho detto se voleva proporre un’altra data e mi ha detto che gli dura fino ad agosto. Tutti i giorni, Domenica inclusa»
«Che cazzaro».
«Comunque gli si potrebbe anche dire di non trattarci da stupidi».
«Luisa, lo sai che è inutile. È fatto così».
«Ho capito ma una cosa è non volersi sporcare le mani, ma neanche venire a una cena?»
«Tancredi non è venuto perché è un coglione,» sto per intervenire con una stimabile verve testosteronica. Ovviamente desisto.
«Peccato, è da tanto che non vedo né lui né Giorgio».

Due bambini, marito e moglie. La donna è l’unica a non essere al telefono.
La figlia maggiore sta facendo i quiz per la patente del cinquantino, ha quello che sembra essere un costume intero infilato dentro degli short sfilacciati con dei brillantini di plastica. Una visione spiacevole.
Il figlio piccolo avrà sei o sette anni, guarda dei cartoni su un tablet: mostriciattoli verdi che ballano in gruppo con una musica allegra cantata da voci di bambine. Un futuro da serial killer. Il marito, un coatto quasi antico con i capelli corti e uno scudetto tatuato sul polpaccio, fa delle scommesse live con un’applicazione. I pochi scambi verbali sono fatti con un tono di voce straordinariamente alto.
«Per diminuire il dolore delle ustioni si deve fare uso di acqua fredda, questa è vera pa’?»
«Me sa che è una de quelle a tranello».
Poi la figlia torna a masticare una caramella, alla fragola presumo.
La moglie mi sorprende per la diversità dai figli e dal marito. Neanche lei sembra un’aristocratica, ma ha una faccia perfetta anche senza un filo di trucco e dei capelli mori lunghi che luccicano. Si guarda attorno mentre si passa un prodotto antizanzare sulle braccia.
«Volete un po’ de Autan?»
« A Ma’, me sa che le zanzare le vedi solo te qua».
Gli altri non rispondono così rimette la boccetta in borsa senza aggiungere altro. Hanno finito da diversi minuti di mangiare ma lei sembra non voler disturbare il marito per chiedere il conto. Raduna le croste del pane che hanno tolto i figli mangiando, le rimette nel cestino e ci poggia un fazzoletto sopra, passa la mano sulla maglietta di Thor del figlio per far cadere altre briciole. Lui si volta solo un secondo. Nessuno sembra aver voglia di parlarle.
Mentre fisso con disprezzo sua figlia ci incrociamo per un momento, fingo di osservare il movimento del cameriere dietro di lei.
Sono certo che mi abbia sorriso.
Non riesco a capire quale serie di sventure l’abbiano portata là in mezzo.
È troppo meglio dei suoi figli.
Saranno adottati.
E il marito?
Magari è simpaticissimo o è uno di quelli che da giovane hanno girato il mondo in barca a vela.
Forse è un genio delle scommesse.
Non starebbe qui a mangiare.
Più probabile che abbia un negozio di articoli sportivi vicino ad una fermata periferica della metro A.
Consiglierà i giusti guantoni da portiere a qualche ragazzino cicciottello.
Ritrovarsi a quarant’anni seduti davanti a dei fiori finti con attorno dei perfetti estranei.
Più che estranei dei nemici.
Un’inutilità cattiva.
Ti trascinano a fondo e non si ha neanche il diritto di odiarli perché ci vivi insieme.
Lui si chiama Pierluigi.
Ha un nome sbagliato per la sua faccia.
Se la figlia ha un nome straniero l’ha scelto lui.
O magari lo ha scelto sua madre.
Un nome da commessa.
Tipo Nicole.
Spero per la madre che non si chiami Nicole.
Non so lei come si chiami.
Magari ha un bel nome storico.
Io l’avrei chiamata Livia.
Livia.
Se avessi vent’anni in più la porterei via.
Su una decappottabile non dei primi anni duemila.
Alla ricerca di un ristorante lontano in cui la puzza di cloro non copra l’odore del cibo.
Invece ho solo una tessera dell’autobus.

«Hai sentito Papà oggi?»
Torno sul mio di dramma familiare con zia che supera la sua patologica timidezza e arriva sulla vicenda della vecchia sollevando tutti da un imbarazzo dilagante.
«Sono davvero mortificata per l’accaduto,» ha continuato.
«Ma non lo devi dire neanche per scherzo».
«È una cosa normale. Succede a tutti».

«Stava andando tutto tranquillo, i ragazzi dell’agenzia sono stati molto carini…io ero un po’ agitata perché Fede mi ha detto che a quanto pare la vecchia era una stronza».
Mia madre mi guarda male senza nessun motivo ma decido di non polemizzare sullo sguardo ambiguo.
«Comunque lei era davvero una stronza».
Grazie zia.
«Inizia ad insistere per entrare nell’atelier di mamma e a me non andava… mi sembrava di violare la sua intimità».
«Mi sembra naturale».
Papà cerca di essere carino con mia madre difendendo la sorella per riprendersi dalla battuta acida di prima.
È da qualche tempo che litigano di frequente ma ammiro lo sforzo per evitare attriti in pubblico.
«Lei ha insistito e a un certo punto ho iniziato a lacrimare per lo stress e mi ha detto una frase tipo “io alla tua età ero già nonna e tu stai qui a piangere per una richiesta del tutto legittima”».
«Ma che pezza di merda».
«Sì guardate ci sono rimasta davvero male… però mi è dispiaciuto anche per i due ragazzi».
La sua ricostruzione pubblica ha coscientemente eluso la parte più imbarazzante: lei che corre piangendo sotto il sole rifugiandosi dentro un tabaccaio. Ha raccontato a mia madre di aver acquistato delle sigarette per evitare l’imbarazzo. Non avendo mai fumato ha indicato un pacchetto a caso della serie “quello lì celeste”.

Finito il racconto comunque la conversazione è riuscita a diventare meno pesante.
Le cause della crisi non hanno sorpreso nessuno. Il suo punto debole si intuisce in meno di un quarto d’ora prendendo tre libri a caso dalla sua libreria: sono anni che prova a rimanere incinta senza successo.
La vita dei miei zii è una specie di sottofondo di azioni di repertorio dietro alle tante tecniche di fertilità simil-orientali sperimentate.
La situazione sembrava essersi stabilizzata nell’ultimo periodo dopo un anno complicato che ho vissuto tramite gli sfoghi di mia madre.
Stavano facendo le prove per l’affidamento in adozione di un bambino di sette anni poi la zia è rimasta incinta e con una scusa riguardo problematiche di depressione inesistenti ha deciso di interrompere l’affidamento. Poco dopo ha perso il bambino.
Da quel momento hanno rinunciato ai sogni di procreazione.
Invece di prendersi un cane o un gatto si sono fatti degli amici senza figli, un cliché più interessante della fissa per i quadrupedi.
Mentre ripenso al povero bambino africano rimandato indietro come un paio di scarpe del colore sbagliato, la famiglia del tavolo a fianco si sta alzando. La situazione non è cambiata e Livia è ancora l’unica senza telefono mentre in un cordoglio di disperazione si dirigono chini alla macchina. È lei che sale dal lato del guidatore, al marito avranno tolto la patente per qualche motivo idiota. Il mio sogno di fuga romantica è ancora in piedi ma è lei al volante. La prossima volta che mia zia avrà una crisi isterica verrò da “La Salita” preparato per la fuga.
Cerco una nuova famiglia mentre la mia è al giro di amari offerto dalla casa. Un ultimo scambio di battute su quanto a mio padre piacciano le grappe e, dopo una breve tarantella dal destino già segnato, mia madre paga il conto.

In macchina papà ha difficoltà a fare manovra, propongo di scendere per aiutarlo. Rifiuta per orgoglio, sono necessari tre tentativi ma alla fine ci riesce. «Comunque Luisa parla ogni anno a voce più bassa».
Nessuno sembra interessato ad approfondire.
Mia madre da tempo dà la colpa a un gruppo di meditazione con cui organizzano dei viaggi in campagna e montagna. Mio nonno li aveva definiti degli Estremisti della Calma.
Degli spietati che fanno cene a tema etnico e non offendono mai nessuno.
Senza troppo traffico e con ben due onde verdi accolte con entusiasmo da mio padre siamo a casa.

«Mamma mia senti che caldo che fa a Roma».

Articolo di Edoardo Bucci