Nuda proprietà
Ep.5

di Edoardo Bucci

 

«Alle elementari dovevamo fare un gioco».
«Che gioco?».
«La maestra ci diceva un aggettivo che ci descriveva e noi all’uscita dovevamo correre a dirlo al genitore».
«Tu che aggettivo avevi?».
«Coraggiosa».
«Ci sta, ti ho sempre vista più coraggiosa di papà».
«Comunque usciamo tutti contenti per questa cosa, io vedo nonno e gli vado incontro».
«Non veniva nonna a prenderti?»
«Sì, veniva lei, tranne il venerdì che andava dal parrucchiere e nonno si prendeva il pomeriggio libero. Io corro verso di lui e gli dico papà la maestra mi ha detto che sono coraggiosa. Lui rimane in silenzio, sento tutti gli altri genitori che dicono “brava” “bravo”. Allora glielo ripeto “papà abbiamo fatto questo gioco e la maestra mi ha detto che sono coraggiosa”. Non dice niente. Scoppio a piangere con tutti che ci guardano. Poi mi prende per mano e ce ne andiamo».
«Scusa non lo sapevi che non vi parlava?»
«Si lo sapevo ma stava facendo progressi, oltre le formalità faceva anche dei complimenti e cose del genere. Invece quel giorno non ha detto niente».
«Poi ne hai parlato con nonna?»
«Lei ha detto che dovevo far finta di niente, che non era colpa sua e che mi voleva comunque bene».
«E basta?»
«Si».
«…»
«Piano piano ho iniziato ad averci un dialogo. Nell’estate tra seconda e terza media più o meno. Per decidere il liceo mi ha aiutato molto».
«Papà dice che la faccenda dei tredici anni è una cazzata».
«Che ne sa tuo padre. Con noi ha parlato verso i tredici anni quindi abbiamo preso per buona quell’età».
«Anche io avevo tredici anni».
«Lo so, appunto».
«Chissà se si ricorda l’età di tutti».
«Andrà ad occhio, ma ha una buona memoria».
«Altrimenti chiede un documento».
«Sarebbe capace».
«Da piccolo qualcosa mi diceva».
«Con voi nipoti interagiva di più».
«A nove o dieci anni mi ha spiegato com’è fatto il cemento armato» .
«Grande discorso da affrontare con i bambini».
«Mi ricordo stavamo insieme in balcone».
«Comunque ogni tanto parla anche con i più piccoli. Mamma ci diceva “È timido con le persone che conosce da poco e per questo con voi piccini non parla”. Quanta fatica per difenderlo povera donna».
«Avrà avuto anche dei pregi».
«Non abbastanza».
«Crescendo non avete mai affrontato con lui la cosa?»
«Io no».
«Zia?»
«Lei ci ha provato a parlare ma continuava a dire che esageriamo e che semplicemente non è bravo con i bambini».
«Lo avrà detto anche al famoso analista».
«E certo. Dice che il trauma dell’adozione, lo ha somatizzato anche così».
«Ti ricordi il tizio di Pordenone? Che aveva scoperto?»
«il nipote di un’amica di Luisa niente due scemenze sulla rimozione dell’infanzia nella generazione della seconda guerra mondiale».
«Che padre strano».
«Strano strano».
«Tra poco dobbiamo andare».
«Dobbiamo stare alle undici lí, ci mettiamo un’ora abbondante quindi abbiamo mezz’oretta».

 

Nonno e Luisa arrivano nella sala conferenze adibita a stanza della colazione. Io e mia madre siamo seduti ad un tavolo vicino ad una finestra. C’è una bella vista sulla campagna. Il Buffet è nella norma, tre tipi di cornetti, due di cereali, bacon, uovo, latte e caffè. La macchina per fare i cappuccini è rotta. Quella dell’aranciata funziona.
«Come hai dormito papà?»
«Male».
«Come mai?»
«Ho tossito tutta la notte».
«Mi dispiace».
«Ora va meglio».
«Che ti prendo da mangiare?»
«Caffè».
«Da mangiare niente?»
«Il buffet fa schifo».
«Non borbottare. Le cose si fanno mangiare».
«No. Tancredi e Giorgio sono scesi?»
«No».
«Tra cinque minuti chiamali al telefono Fede».
«Sapete chi ci sarà al funerale?»
«Lo hanno organizzato quelli della comunità di cura in cui stava».
«Quindi tutti ritardati».
«No papà vengono le suore e le persone che l’hanno seguita».
«Le cugine ci stanno?»
«Sì, Renata e Lucia».
«Annamaria?»
«È morta l’anno scorso».
«Giusto».
«Papà ma anche i nonni sono seppelliti lì?»
«Certo Luisa è il cimitero del paese di origine della famiglia».
«Non ne hai mai parlato».
«Prima di Margherita non ci viveva nessuno, da cinquant’anni ci siamo trasferiti tutti altrove».
«Io qualche racconto del paese da piccola me lo ricordo».
«Io no».
«Un’estate mi sa siamo anche andati».
«Quando muoio se mi mettete lì vi maledico».
«Ci risparmiamo il viaggio».
«Ma perché nonno?»
«Voglio essere sepolto al Verano con Lisa».
«Mi sembra giusto».
«Fede chiama Tancredi».

 

Il telefono di Tancredi non prende e di Giorgio non ho il numero né alcun motivo per averlo. Decido di bussare alla porta ma non rispondono, staranno ancora dormendo. Vado alla reception per chiedere se possono far squillare l’interfono vicino al letto.
«Mamma in camera non rispondono, o sono morti o sono già usciti».
«Lo chiamo».
«Non risponde ti dico».
«Hai provato a chiamare Giorgio?»
«Non ho il numero».
Ovviamente lei lo ha per portare avanti ogni anno l’apatico rito degli auguri tramite SMS senza dover passare per la chiamata di cortesia al fratello come qualche anno fa. Con il tempo risparmiato abbiamo potuto rinunciare al Telepass.
«Ciao Giorgio, noi siamo qui a fare colazione dove siete?»
«Aspetta, ti passo un attimo papà»
«Vittoria buongiorno! Stiamo tornando da una passeggiata all’alba con Giorgio, un’oretta al massimo e stiamo là».
«Come un’ora? Dobbiamo stare lì alle undici».
«Dai ci sbrighiamo e poi guidiamo più veloci».
«Scusate ma non posso venirvi a prendere in macchina?»
«Qua so’ tutti sentieri. Comunque voliamo».

 

Il deficiente aveva deciso di iniziare l’iter del recupero rapporto padre-figlio proprio oggi. Nessuno voleva alzare i toni quindi abbiamo optato per tacere sulla questione. Dopo mezz’ora però è sorto spontaneo l’interrogativo.
«Scusate ma non possiamo avviarci e ci raggiungono?»
«Tu papà che dici?»
«Andiamo».
«Fede metti le valigie in macchina».
«Io li chiamo».

 

Arriviamo con quindici evidenti minuti di ritardo. Impossibile sbagliare sull’unica chiesa.
In travertino con un piccolo campanile in mattoni e altro travertino. Dei bassorilievi su una superficie ramata sono appoggiati alla facciata senza un criterio comprensibile.
Tre gradini e poi il portone principale più piccolo di quello di un qualunque palazzo di un qualunque quartiere bene.
Chissà perché non hanno una chiesetta storica ma questo capolavoro degli anni settanta.
Potevano fare dei Bowling, come in tutte le province che si rispettino.

 

Tu che abiti al riparo del Signore…

 

La chiesa dentro è bianca con delle travi in legno che sono state messe con ordine sparso sotto il tetto senza nessun ruolo strutturale. Era senza dubbio più piacevole un bowling. Il crocifisso appeso sotto l’altare sembra uscito dagli scarti di un museo delle cere.

 

..ti rialzerà, ti solleverà…

 

Quindici fedeli ascoltano il prete, un quarantenne di un metro e settanta dall’aspetto piacevole.
Spero non sia uno di quelli che fa le battute.
Con il turibolo argentato gira attorno alla bara spargendo incenso. Zia inizia a tossire.

 

..dal laccio del cacciatore ti libererà…

 

Le cugine si scambiano un cenno con nonno.
Ora so chi sono. Due vecchie con i capelli tinti una di rosso l’altra di un biondo cenere. Sono vestite di nero con delle collanine in oro a vista, quella più vecchia ha anche degli orecchini. Avevano vissuto entrambe a Torino poi sono tornate qui con i mariti per la vecchiaia. Ora sono morti.

 

…su ali d’aquila ti reggerò.

Come il sole, così nelle mie mani vivrai.

 

Nel resto della chiesa praticamente solo suore.
Il canto sulle ali dell’aquila lo sanno alla perfezione, le cugine si perdono qualche parola.
Nonno rimane in silenzio, il suo rapporto con la fede non mi era chiaro. Zia invece era una di quegli atei da quattro soldi che al primo parente oncologico sono andati in chiesa a cercare il perdono. Perfino a Međjugorje era finita per chiedere alla Madonna il favore di riequilibrare il suo ovaio Policistico ma la Madonna aveva una lunga lista d’attesa e allora si era buttata su religioni meno frequentate. Qualche ramo autoctono dell’Induismo o una cosa del genere. Io e mia madre aderiamo probabilmente alla categoria di Atei ostentati ma a un passo della Redenzione.
Sale sul leggio la cugina più vecchia che ripete da un pezzetto di carta qualcosa copiato dal funerale precedente. Scende e si rimette a sedere, probabilmente del marito.
La segue una delle suore che ci mette più impegno.
«La nostra sorella Margherita, che abbiamo conosciuto quando già la malattia la stava portando via, è rimasta viva con l’anima fino all’ultimo giorno».
Dalla panca dietro di me si alza Nonno. Mamma prova a chiedere cosa volesse fare ma non fa in tempo. Le suore lo guardano con perplessità mentre il prete gli chiede qualcosa. Lui lo ignora. Le cugine commentano tra loro il gesto.
Ha gli occhi lucidi ed è rosso in faccia.
Tossisce poi inizia a parlare.

 

Margherita era mia sorella. Era mia sorella da quando sono nato. Non da quando è nata lei, ma da quando sono nato io. Lei mi voleva bene. Mi scriveva sempre delle lettere. Quando ero impegnato io non le leggevo. Poi da vecchio le ho lette tutte. Non voleva che mi sposassi con Elisabetta. Diceva che voleva fare la mantenuta. Poi mi ha mantenuto più Lisa a me che io a lei. Si sono volute bene. Quando è morta l’ho vista piangere. Era in una chiesa più bella e grande di questa. Qui non è un granché. Le avevo detto quando morirai ti faccio un bel funerale. Lei mi ha detto che gli uomini muoiono prima delle donne.

Poi è morta lei. Volevo ringraziare le sorelle che l’hanno tenuta in questi ultimi anni quando non c’era nessuno. Mi chiamavano sempre per dirmi come stava. Margherita non aveva nessun altro. Che ce l’aveva a fare quella bella testa lì…Per parlare con quattro monache?

Ha fatto bene a impazzire.Lo avrei fatto anche io.Lei voleva che fossi meno rancoroso e che facessi pace con suo fratello. Mi è dispiaciuto averla fatta stare male per questo.

Nessuno lo sa perché lo nascondeva sempre ma aveva un dito in meno al piede sinistro.

Agostino glielo ha falciato per sbaglio con il tagliaerba.Io l’ho picchiato e gli ho rotto un dente.Poi mio padre ha picchiato tutti e tre. Mi ha incrinato una costola.

Sono stato a letto per due settimane. Soffrivo come un cane. Agostino appena ha fatto due soldi si è rimesso il dente. Rimettere il dito era impossibile. Erano altri tempi.

Lei ci soffriva perché non poteva portare le scarpe aperte. Le piacevano molto.

Io a Natale gliele regalavo sempre per obbligarla a metterle.

Non lo ha mai fatto.

Spero che lassù le riattacchino quel mignolo.

Starà ancora in mezzo a qualche campo.

 

Il prete fa un applauso silenzioso con le mani.
Zia si è commossa dal discorso di nonno. Mia madre abbassa lo sguardo. Deve aver trovato la storia del mignolo mozzato fuori luogo.
«L’anima fedele di nostra sorella Margherita perché, lasciato questo mondo, viva in te;
Per Cristo nostro Signore».
Debolissima replica di Amen e usciamo. Le suore fanno le condoglianze a tutti noi. Una decina di abbracci a delle sconosciute facilmente risparmiabili. Non ho mai capito perché puzzano sempre di carne macinata.

 

Il cimitero ha una cinta muraria con l’intonaco rovinato che la separa da un parcheggio a strisce blu. Una distesa di asfalto su cui affacciano delle casette ad un piano con accanto una cabina telefonica abbandonata, a fianco il fioraio, chiuso.
In lontananza vedo arrivare la macchina di mio zio, parcheggia un po’ prima e ci raggiunge davanti l’entrata.
Giorgio zoppica da una gamba, lui ha una busta bianca in mano.
«Papà mi devi scusare, sono mortificato ma Giorgio ha preso una storta e non riusciva a camminare».
«Non ti preoccupare».
«Che hai nella busta?»
«Ho preso dei Porcini belli belli».
«Non li puoi lasciare in macchina?»
«Eh se… con il sole si rovinano».
«Va bene, per cortesia andiamo».
«Bello di Zia stai bene?»
«Sì zia, va’ meglio».
Chissà cosa mai avrà pensato prima di andare a fare funghi in mezzo ai campi la mattina di un funerale.
Arriviamo insieme ad alcune suore e alle cugine davanti quella che è la postazione scelta per la lapide. Alla destra c’è una distesa di prato vuoto. Alla sinistra Franco Barberis 1923-2006, dalla faccia avrà avuto vari aneddoti di guerra da raccontare.
Infiliamo la zia nella buca.
«Volete dire delle ultime parole?»
«Penso il funerale sia stato intenso per tutti».
«Se non vi dispiace vorrei dire un Padre Nostro».
«Certo Madre».
«…e non ci indurre in tentazione, ma liberaci dal male. Amen»
Le suore si dirigono verso l’uscita per concederci qualche minuto da soli prima di far ricoprire la tomba e mettere la croce in legno provvisoria in attesa dell’arrivo della lapide vera e propria. Le cugine le seguono qualche minuto dopo.
«Non siamo riusciti a prendere neanche i fiori».
«Era chiuso».
«Quest’inverno vi regalo un viaggio e torniamo a mettere i fiori a Margherita. Poi andate a sciare».
«Bella idea papà».
«Non possiamo prendere in prestito un fiore da questo Franco? Poi glielo riportiamo».
«Porta sfortuna Fede».
«Ok».
Mamma si ferma, prende dalla busta di Tancredi il porcino più grande sotto lo sguardo preoccupato del fratello e lo pianta al margine della fossa.
«Mi sembra che nella tradizione Cristiana i funghi simboleggino la rigenerazione dopo la morte».
«Mo’ lo sai tu che fai tanto la comunista?»
«Sta’ zitto. Me lo aveva spiegato il collega di religione».
«Dice che contano pure i porcini?»
«Contano contano».
L’attività svolta era la trasposizione fuori luogo del preludio di una litigata tra due fratelli alla festa del cuginetto. La festa era stata sostituita con un funerale e il giocattolo del contenzioso con un porcino. I bambini con adulti che negli anni erano semplicemente peggiorati.
Nonno si commuove per un momento poi si asciuga le lacrime con il fazzoletto di sempre.
Zio sembra rammaricato per la perdita del suo fungo migliore.

 

«Ciao Zia».
«Ciao».
«Ciao Margherita».

 

L’appuntamento è ad un bar lì vicino per sistemare con le cugine la faccenda del cane e delle sue quattro cose.
«Papà prima di andare non vuoi fare un salto alla tomba dei nonni?»
«Non fa niente».
«Se vuoi chiedo al custode».
«Non fa niente».
Tancredi dice di doversene andare. Il figlio claudicante ha fornito il piano d’uscita perfetto.
Le cugine ci aspettano fuori il piccolo bar. Dentro siamo soli con l’uomo dietro al bancone che non sembra intenzionato a vendere nulla oltre caffé e patatine in busta.
Ordiniamo dei caffè.
«Eugenio che occasione triste per rivederci dopo tanto tempo».
«Eh, già».
«Come stai?»
«Non ci pensiamo».
Le due vecchie poggiano quasi contemporaneamente le borsette di pelle nera sul tavolo.
«Ho parlato con il Sant’Anastasia è tutto risolto. Di immobili non aveva nulla e le poche pratiche le possiamo fare tutte noi da Roma».
«Grazie Vittoria perché di queste cose non ne sappiamo nulla».
«…»
«La mia unica preoccupazione è il cane».
«Che cane è?»
«Un setter nero di sei o sette anni circa».
Si conferma così la tesi di mio nonno sull’inesistenza di cani di altri colori.
«È uno di quelli là addestrati per assistere i malati».
«Non sono capaci neanche i cristiani ad assistere i malati figuriamoci i cani».
«Io lo porterei a Roma! Se non troviamo nessun altro lo posso anche tenere, sempre se Enrico è d’accordo».
«Almeno sappiamo che va in buone mani».
«Luisa sei sicura?»
«Sì, è da un po’ che ci pensavo… poi ripeto, magari prima cerco qualcuno di fidato».
«Va bene».
«In macchina c’entra?»
«Quello non è un problema».
Il clan della calma evidentemente non è più sufficiente. Il Nonno finisce di bere il caffè si schiarisce la voce e rientra nella conversazione.
«Ma non c’era un quadro?»
«Te lo stavo per dire. Prima di essersi trasferita un paio di anni fa, ha avuto un raptus e ha squarciato un quadro».
«Squarciato?»
«Già, a metà. Lo tiene insieme la cornice in pratica».
«Credo fossero due i quadri Lucia».
Grande rivalsa per la cugina arrugginita che si ricorda qualcosa in più della sua versione 2.0.
«Giusto. Ne avevano trovato un secondo tempo dopo sotto il letto».
«Due quadri? Vorrei andare a vederli».
«Non penso valessero tanto altrimenti li avrebbe venduti».
«Scusate dove erano questi quadri?»
«Sono rimasti nella casetta in campagna dove stava in affitto».
«È lontano da qui?»
«In linea d’aria no, ma sono strade di montagna ci vuole un’oretta».
«Papà non possiamo andare, facciamo troppo tardi e io di notte non guido».
«Torno in treno da solo».
«Ma che stai dicendo!»
«Ci puoi spiegare perché dobbiamo andare oggi?»
«Voglio farli restaurare».
«Li prendiamo questo inverno quando torniamo a mettere il fiore, va bene?»
«No, li prendo ora e torno in treno».
«Ma che cazzo dici come fai a tornare in treno su…»
«Allora partiamo domani mattina, Federico trova un alloggio con l’internet e pago io».
«Luisa tu puoi rimanere?»
«Sìsì per me non è un problema, come ti senti tu».
«Conoscete un affittacamere qui vicino?»
Il barista interviene da dietro.
«Ci sono dei ragazzi che hanno lasciato questo».
Ci porge un volantino dieci centimetri per sei con una fotografia a colori che mostra una tradizionale casa di montagna con a fianco un numero di telefono.
La chiamata ha esito positivo. L’alloggio è libero, il prezzo è alto ma nonno acconsente senza battere ciglio. Almeno sembra una bella casa.
Salutiamo finalmente la cugina Renata. Troppo probabile come vicina della tomba di Zia per essere sopportata un’intera giornata. Lucia ci accompagna.
La mia opinione sul restare non è stata in nessun modo sondata. Non è una novità.
Assecondare i capricci del padre per placare i loro turbamenti interiori é più importante.
Comunque mi piace la montagna.
Mamma mi chiede di accompagnarla a prendere la macchina. Si fruga nella borsa, prende delle caramelle alla liquirizia e me ne offre una. Si avvicina ad una cicca ancora accesa consumata meno di metà, ci poggia il piede con forza, quasi volesse stritolarla mentre con gli occhi cerca di capire chi l’abbia buttata. Non c’è nessuno.
«Fede, comunque ti volevo dire… avrai notato che questo è un periodo particolare tra me e tuo padre…»
Il discorso tradizionale sulla crisi matrimoniale mi sorprende. È evidente che sono due persone di mezza età con dei problemi, non si amano più e hanno pochi interessi in comune ma non li vedo così disperati. Si stavano informando anche sull’acquisto di un camper e la storia della nuda proprietà serviva a finanziare una piccola seconda casa a metà con Zia Luisa. Per me questo bastava a salvare la baracca o a dare un qualche tipo di stimolo. È più entusiasmante di quello che hanno fatto negli ultimi dieci anni e sembrava ci si stessero impegnando.
«Non pensare che ci stiamo separando ma magari dobbiamo cambiare qualcosa.»
Non so che dire oltre ad elencare località marittime in cui comprare la villetta. Voglio bene ai miei genitori ma non sono affezionato a loro come coppia. Mi andrebbe bene se divorziassero tra qualche anno. Ora mi spaventa. Mamma ci tiene a tranquillizzarmi e io ho paura di fare altre domande. In qualche modo si risolverà. Se non dovesse risolversi ci posso fare poco. Quando avevo quattordici anni già hanno avuto una situazione di questo tipo. Si risolverà.
Un professore delle medie mi ha detto la famiglia è come un’isola. Il mare ci passa attorno ma non attraverso.
Chissà cosa intendeva.
Probabilmente niente, era un coglione.
L’anno dopo lo hanno cacciato perché ha molestato una bambina.
Il mare non ci passa attraverso.
E se ci fosse un canale?
Allora sarebbero due isole.
Forse uno Tsunami.
Ma se l’isola è alta il mare non ci passa.
Io cerco di mediare sulle cose.
Di lasciare fargli fare il loro corso.
Girando attorno si capisce di più.
Capisci il perimetro.
Dove inizia e dove finisce.
Se finisce.
Potrebbe essere un mantra della vita.
Passare attorno alle cose e non attraverso.
Rubato ad un pedofilo che insegnava ai bambini come usare il compasso.
Non ficcatevi la punta nell’occhio era un suo altro must.
Attorno, non attraverso.
Da raccontare ai nipoti.
Bella morale di merda.

 

 

 

Articolo di Edoardo Bucci