Oldsplaining Ep.2 – Corrado Formigli

29/03/2023

C’è qualcosa di storto nel modo in cui l’informazione italiana ha affrontato il racconto della guerra in Ucraina. Lo dico da convinto sostenitore delle ragioni di Kyiv, senza mai aver nutrito dubbi su chi fosse l’unico responsabile di questa vile aggressione: Vladimir Putin. Ma già in questa mia premessa, nel dover sottolineare, quasi fosse un’enunciazione di fede, che esistono un aggredito e un aggressore, c’è qualcosa di strano. Cosa deve fare un giornalista? Distribuire patenti di autorevolezza e indipendenza? Prestare giuramenti di fedeltà alla causa? Oppure, come credo, raccontare e interpretare i fatti?

A oltre un anno dall’invasione russa, il dibattito sull’invio delle armi, su una possibile tregua, sull’efficacia delle sanzioni a Mosca è sempre più una resa dei conti fra ultrà, una disputa ideologica. Sollevare un dubbio o ospitare una voce sgradita è diventato motivo di divisione e proscrizione. Ho raccontato in trent’anni di professione tante guerre. Ho fatto l’inviato quando la tv aveva grandi mezzi e spazi editoriali per mettere in scena i conflitti in prima serata, davanti a milioni e milioni di telespettatori. Ho raccontato la guerra civile in Albania nel 1996, gli orrori islamisti del GIA (Gruppo Islamico Armato) in Algeria nel 1998, il Kosovo e Belgrado nel ’99, la seconda Intifada palestinese, le Torri Gemelle, l’orrore dell’Isis in Siria e Iraq. Ho speso tempo a sufficienza in prima linea fra bombe e cadaveri per sviluppare un senso profondo della guerra, delle sue regole, dei suoi orrori. Mi porto dentro l’odore del sangue e dei corpi putrefatti, i pianti dei superstiti, gli sguardi dei bambini. So che dentro un conflitto muore la razionalità, trascinata via dalla paura. Odio, morte e brutalità rendono difficile, sul campo di battaglia, individuare torti e ragioni. Sotto i mortai, tutto si confonde. E la propaganda, cercando di occultare i fatti, vede nel giornalismo il suo nemico. Ecco perché il nostro primo compito è andare a vedere con i nostri occhi. E quando dico “nostri”, intendo di chi considera ancora l’informazione un mestiere, non un video su TikTok. Cosa andiamo a fare in guerra, con spese assicurative e rischi di incolumità alti, quando ormai troviamo tutto sui social? Ecco, questa domanda mi perseguita. Te la pongono editori, produttori, direttori di testata. Come se prendere il video di un soldato girato con la gopro e postato su una piattaforma digitale equivalesse al reportage di un inviato. Come se bastasse essere lì per informare. No, con tutto il rispetto per i video cosiddetti “user generated”, il giornalismo di guerra è altro: non soltanto mostrare ma indicare il contesto, mediare le informazioni, allargare lo sguardo. Insomma, mettere in opera tutte quelle misure adatte a neutralizzare la propaganda. Costa? Certo, costa. Denaro, tempo, assunzione di responsabilità. Si chiama, appunto, giornalismo.

È fatto non solo dagli inviati sul campo, ma da un’attenta valutazione dei contenuti in redazione. Quando Gabriele Micalizzi, bravissimo fotografo e filmmaker, mi inviava le sue esclusive immagini dal fronte di Mariupol, passavo le notti a montarle cercando di individuare il contesto. Nelle zone controllate dai russi, infatti, i giornalisti sono accompagnati da “sentinelle” di Mosca. Così come, nelle zone sotto il controllo ucraino, lavora a pieno regime la propaganda di Kyiv. Compito nostro è ripulire il racconto dall’inquinamento delle “veline”, dalla disinformazione degli stati maggiori. È normale che sia così. Molto meno sospettare chi lavora oltre le linee nemiche di essere al soldo dei russi, addirittura “putiniano”. Eppure questo è successo. Non solo giornalisti schedati a seconda della loro area di azione. Anche opinionisti bollati come spie del Cremlino solo perché sostenitori di posizioni minoritarie. Esempio classico: il professor Alessandro Orsini, mostrificato in prima pagina su diversi giornali in quanto critico verso Zelensky e gli americani. La prima trasmissione a ospitare le sue posizioni “eretiche” è stata proprio Piazzapulita. Era il marzo 2022 e i talk show erano affollati di sostenitori della linea filo Nato. L’invio delle armi e la guerra a oltranza sembravano l’unica via possibile. Mi domandai, memore delle piazze pacifiste ai tempi del Kosovo, che cosa pensasse l’opinione pubblica. I sondaggi mostravano un’Italia riluttante, scettica sull’invio di armi. Mi limitai a dargli voce invitando Orsini nel mio studio. Unica posizione contro. Fui e sono tuttora criticato per quella scelta. Che invece rivendico, anche se poi decisi di rinunciare al professore perché dettava troppe condizioni e non accettava il confronto con ospiti a lui avversi.

Anche aver intervistato il fisico Carlo Rovelli, grande scienziato e voce libera, mi ha provocato molte critiche. Ricordo in particolare le proteste di Nathalie Tocci, direttrice dell’Istituto di affari internazionali, arrabbiata che ospitassi a parlare di guerra un fisico. Come se a parlare di guerra dovessero essere invitati solo generali ed esperti di geopolitica e la pace non fosse un tema universale e mobilitante. Come se, in definitiva, intellettuali, scrittori, scienziati, religiosi dovessero tenersi alla larga dai temi cari a Tocci.

Di questa guerra, in sostanza, mi resta il gusto amaro di polemiche settarie e provinciali. Scendiamo dagli spalti e restituiamo agli italiani la profondità e la complessità del racconto, le ragioni degli uni e degli altri, la prospettiva storica. Spiegare la guerra del Donbass fin dal 2014, quando quasi tutti nella comunità internazionale la ignoravano, non vuol dire tifare per Putin. Serve a visualizzare l’uscita dal conflitto, i viottoli negoziali. Così come invitare nei nostri talk show nomi controvento, meno allineati, significa tenere l’orecchio sulle pulsioni più profonde del pubblico.

Ma, soprattutto, è necessario contrapporre alla logica invasiva e disintermediata dei social quella della mediazione giornalistica e del controllo delle fonti. Continuando ad andare sui luoghi, su entrambi i fronti. Battendosi contro ogni forma di censura e di semplificazione della guerra.

 

Articolo di Corrado Formigli