Oldsplaining Ep.1 – Marco Damilano

09/02/2023

Qualche giorno fa ho visto nella trasmissione di Fabio Fazio il regista Mario Martone che parlava del suo film documentario su Massimo Troisi (“Laggiù qualcuno mi ama”). Troisi, grande attore napoletano, popolarissimo negli anni ’80 dello scorso secolo, scomparso troppo giovane nel 1994, per me e per tutta la mia generazione è stato un mito, ma solo oggi Martone mi ha spiegato il motivo. Era timido, ha detto il regista. Di più: si sentiva a disagio nel mondo, con la sua comicità esprimeva il disagio dell’esistenza. È vero: il recitare di Troisi era balbettante, sconnesso. Sul palcoscenico o davanti alla cinepresa sembrava in imbarazzo, come se fosse nudo. Si metteva le mani in testa, tra i capelli, balbettava. Ma in quel discorso spezzato, balbettante, il pubblico si riconosceva. Il pubblico giovane, in particolare. Che si parlasse di rapporti di coppia o di politica.

Sulla politica interveniva pochissimo. Lo fece quando il presidente della Repubblica Sandro Pertini, socialista, partigiano, molto amato e molto attento alla sua popolarità, andò in tv dopo il terremoto disastroso del 1980 in Irpinia a denunciare le lentezze dei soccorsi e la sparizione dei fondi destinati al precedente sisma del Belice, del 1968: «Dove è andato a finire questo denaro? Chi ha speculato su questa disgrazia? Costui è in carcere, come dovrebbe essere?», tuonò il presidente. Un messaggio shock. Non era mai successo che il vertice dello Stato attaccasse un altro pezzo dello Stato in tv. Qualche mese dopo Troisi di fronte a una telecamera accesa mandò, a sua volta, un messaggio a Pertini: «Presidente, noi siamo una famiglia onesta. Non abbiamo preso noi i soldi del Belice…». Un capovolgimento. Troisi si mascherava da cittadino comune che si sente chiamato in causa dal Presidente. Svelava quello che sarebbe diventato, decenni dopo, e non certo per colpa di Pertini, l’imbroglio del populismo. A furia di cercare le colpe altrui perché non riesce a governare in nome del popolo (i nemici del popolo sono sempre gli stessi: l’Europa, i poteri forti, i giornali, la sinistra), alla fine se la prende direttamente con il popolo.

Troisi sarebbe stato un perfetto interprete della sinistra, di quello che dovrebbe essere la sinistra. Da mesi, dopo la sconfitta alle ultime elezioni contro Giorgia Meloni, anzi, da anni, è in corso il dibattito: cos’è la sinistra, da dove dovrebbe ripartire, ricominciare. E giù consigli, suggerimenti, articoli: ricominciare dai territori, dalle periferie, dalle donne, dai giovani. Un coro sempre più irritante. Perché, nella maggior parte dei casi, le prediche arrivano da chi non conosce i territori, le periferie, le donne, i giovani. Senza volermi aggiungere direi solo: ricominciare da Troisi (citando il suo film più famoso). O meglio, da quella parola usata dal regista Martone. Disagio.

Il disagio è prima di tutto una questione esistenziale e personale, individuale. Sentirsi a disagio nella propria città, nella propria classe oppure nella propria famiglia, nei propri spazi, in questo tempo, nella vita. A disagio perché c’è un trauma, una ferita, l’impossibilità di riconciliarsi con se stessi. Ma disagio è anche una parola politica. Perché chi si sente a disagio nella realtà in cui si trova può sentirsi sovrastato e dichiararsi passivo, inerte. Oppure può accumulare rabbia e rancore e delegare a qualcuno il compito di risolvere i suoi problemi, e questa è la risposta tipica della destra: serve un leader (una leader) forte, che ci pensi lui (lei) a nome mio. Oppure, ancora, può decidere di fare qualcosa per cambiare, magari insieme ad altri che condividono lo stesso disagio.

Uno dei problemi degli ultimi anni della sinistra, in Italia e non solo, è aver dato l’impressione di non provare nessun disagio nella realtà in cui ci troviamo a vivere. Anzi, di trovarsi perfettamente a suo agio in un mondo disuguale e diviso in modo feroce tra forti e deboli, dove i deboli sono gli altri, quelli da escludere, da tenere fuori, senza voce, senza diritti. È la sinistra che un grande scrittore che adoro, lo spagnolo Javier Cercas, ha definito «la sinistra fighetta», contenta di declamare i valori senza condividere nulla, soddisfatta di esserci e infatti votata soprattutto dai ceti più benestanti. Un grande politico della storia repubblicana, che non era di sinistra, Aldo Moro, parlava di «principio di non appagamento». Significa non essere appagati mai dell’esistente, che non vuol dire condannarsi all’infelicità o sentirsi sempre disadattati: anzi.

Mi capita di leggere riflessioni come quelle di Costanza Savaia, 24 anni, vive a Savona, vorrei dirlo con le parole che ha scritto lei: «A oggi l’Istat stima per me un’aspettativa di vita di circa, ancora, sessant’anni. Sessant’anni che si spianano di fronte a me come una prateria brulicante di imboscate della storia, ignote, ipermassicce, ben oltre il limite del 2050 che tanti scienziati pongono come punto di non ritorno prima di assistere al declino definitivo dell’essere umano come specie. È un fardello estremo da sopportare. Cosa significa vivere sapendo di non avere un futuro? Cosa significa essere più poveri dei propri genitori, crescere in una cultura del lavoro salariato e tutelato come privilegio non di pochi ma addirittura di pochissimi? Cosa significa non potersi permettere il materiale scolastico, e quando si può studiare, trascorrere il proprio tempo sui libri anziché in relazione con altri esseri umani? Cosa significa non riuscire ad andare a votare perché si soffre troppo a entrare nel seggio?». La risposta di Costanza, però, non è la rassegnazione o la frustrazione. «Pratichiamo l’attenzione. E cerchiamo di non concedere a nessuno, vecchio o giovane, il primato dell’azione sulla relazione. Cerchiamo, insomma, di fare politica. Tutti».

L’attenzione. La relazione. E il primato della relazione sull’azione. Perché non basta compiere le azioni giuste, il vero cambiamento è farle insieme, dentro una relazione che può essere anche conflittuale, a volte dovrà esserlo per forza. C’è un’ultima avvertenza, la possibilità che nonostante la buona azione, la buona relazione, gli ottimi propositi, la battaglia sia vana e tutto finisca con una sconfitta. Ma Troisi ci direbbe che anche questa è una buona strada per vincere il disagio. Riconoscerlo, rappresentarlo, accoglierlo. Come la politica da anni non riesce a fare.

Articolo di Marco Damilano