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Perché l’Oms non funziona
Come la pandemia ha mostrato l'urgenza di una riforma dell'Oms.
Sin dall’inizio di febbraio, periodo in cui il virus apparso in Cina sembrava esser contenuto ad alcune province cinesi e ad alcune nazioni asiatiche, diversi dubbi sono stati avanzati in merito alle linee guida e alla prevenzione che l’Organizzazione mondiale della sanità stava mettendo in atto. Dopo poco tempo, parallelamente alla diffusione del virus in altri continenti, i dubbi si sono trasformati in accuse. Il 15 aprile, dopo aver superato il milione di casi nel mondo, il Presidente americano Donald Trump ha accusato pubblicamente l’Oms di essere filocinese e ha deciso di congelarne i fondi. Nonostante più volte le dichiarazioni di Donald Trump siano eccessivamente politicizzate e propagandistiche, i dubbi rispetto all’amministrazione della crisi rimangono e diventano, con il passare del tempo e con l’aggravarsi della situazione, più attuali e discussi. Più di 100 paesi infatti, hanno richiesto la conduzione di un’inchiesta indipendente rispetto all’operato di Cina e Oms durante l’Assemblea mondiale della sanità, tenutasi il 18 maggio scorso. Nonostante ancora non si siano delineate le modalità con cui verrà condotta l’inchiesta, risultano evidenti le necessità di una riforma dell’Organizzazione mondiale della sanità.
I 194 stati membri dell’Oms una volta all’anno, solitamente a maggio, inviano una delegazione a Ginevra per prendere parte ad una assemblea nella quale vengono definite le principali linee di azione dell’Organizzazione. L’Assemblea mondiale della sanità è l’ente legislativo dell’Oms, che oltre a deciderne le politiche, delibera le scelte amministrative.
La proposta di condurre un’inchiesta sulle presunte colpe della Cina e dell’Oms arriva in un momento di forte tensione geopolitica tra Washington e Pechino che vede, in questo momento, l’Oms come oggetto della contesa. Trump ha già fatto sapere che avvierà le procedure di diffida e messa in mora, che significherebbero un definitivo taglio ai fondi che erano stati congelati lo scorso aprile. Inoltre, mentre Donald Trump progetta una sospensione definitiva dei fondi, Xi Jinping promette un fondo da due miliardi di dollari da investire nella lotta al Coronavirus.
Col piede sbagliato
Il fatto che il dibattito sull’operato e in generale sull’indipendenza dell’Oms stia continuando, deriva da una serie di errori o ambiguità che l’Organizzazione ha permesso durante le fasi iniziali della pandemia.
Nel corso del dicembre 2019 si diffonde una nuova epidemia di polmonite a Wuhan, che ben presto viene attribuita ad un nuovo virus, sequenziato e riconosciuto come Coronavirus il 27 dello stesso mese. La condivisione del genoma con l’Oms e con il mondo, tuttavia, per ordine delle autorità cinesi, non avviene prima del 10 gennaio: evento seguito dai fastosi complimenti del direttore generale dell’Organizzazione Tedros Adhanom Ghebreyesus, che continuerà a complimentarsi con il lavoro di Pechino anche in seguito. Tedros rimarrà silente anche davanti al rifiuto della Cina alla richiesta di inviare una squadra sul campo (consentita solo il 14 febbraio).
Ma il primo vero passo falso dell’Organizzazione avviene il 14 gennaio, quando con un tweet asserisce che “da indagini preliminari condotte dalle autorità cinesi, non è stata trovata alcuna evidenza di trasmissione da uomo a uomo del nuovo Coronavirus identificato a Wuhan”. Il Lancet poco dopo pubblicherà un’indagine in cui appariva invece evidente la trasmissione tra uomini fin dallo studio della prima famiglia contagiata.
La ragione di questa dichiarazione rassicurante si trova nel fatto che l’immunologa americana Maria Van Kerkhove, responsabile tecnica della risposta dell’Oms al Coronavirus, aveva tenuto una conferenza stampa avvertendo del rischio di una diffusione molto rapida del nuovo Coronavirus. Secondo un’attenta ricostruzione del Guardian, dopo la conferenza stampa un funzionario di medio livello dell’Oms, preoccupato che questa valutazione contraddicesse quanto comunicato fino a quel momento dalla Cina, chiese ai responsabili dei social media dell’Organizzazione di scrivere un tweet che bilanciasse le affermazioni di Van Kerkhove. Un’ulteriore prova della volontà dell’Oms di nascondere le colpe cinesi è stata resa nota grazie ad un’inchiesta condotta da Associated Press. Secondo la quale, parallelamente alle lodi pubbliche fatte dall’Organizzazione, alcune mail e materiale riservato mostravano grande frustrazione da parte dei suoi funzionari, per la lentezza e la scarsa collaborazione che la Cina stava manifestando nel diffondere materiale fondamentale sul virus.
Ulteriore fonte di dubbi è stata la gestione dell’Oms degli asintomatici. Nel report finale della missione dell’Oms in Cina (16-24 febbraio) si sostiene che “la percentuale di persone asintomatiche sembra essere rara e non sembra un fattore trainante della trasmissione”. Esattamente un mese dopo la rivista Science dichiara che gli asintomatici non riconosciuti sono stati la causa del 79% dei casi da infezione. La dimostrazione dell’errore di queste scelte la danno Corea e Veneto, che puntando su tamponi a tappeto ed uso sistematico di mascherine, gestiscono molto meglio l’ epidemia. Tuttavia, nonostante diversi scienziati abbiano sostenuto l’importanza dei contagi causati da asintomatici, ancora non è chiara la posizione dell’Oms. Dopo aver ammesso l’errore di valutazione ad aprile, il 9 giugno la dottoressa Maria Van Kerkhove, capo del team tecnico anti COVID-19 dell’Oms dichiara: “Raro che un asintomatico trasmetti il Coronavirus”, scatenando le critiche di diversi esperti che sostengono il contrario.
Se trasgredendo le sue regole si raggiunge un miglior risultato, ci si chiede su quale fiducia potrà contare l’Organizzazione in vista di future emergenze.
Pozzo senza fondi
In seguito alle decisioni di Donald Trump di congelare i fondi concessi dagli Stati Uniti all’Oms, si è creato un dibattito anche in merito ai metodi di finanziamento con cui l’Organizzazione opera.
Sul finire degli anni 70, in un periodo in cui, in diversi paesi, l’Oms stava programmando le tappe dell’obiettivo “Salute per tutti” entro il 2000, le prerogative del nuovo ordine economico delle Nazioni Unite andarono a scontrarsi con quelle sanitarie. Le politiche neoliberiste di quegli anni penalizzarono l’Oms portando il profitto come unico obiettivo sociale di una nazione, anche in campi come la salute e la sanità.
Ciò è osservabile dall’evoluzione della gestione e composizione dei fondi dell’Oms. L’intento originale insito nelle costituzioni delle agenzie specializzate dell’ONU (come l’Oms) era che i budget approvati derivassero dai contributi degli stati membri, e che i fondi volontari rappresentassero un’eccezione.
Durante l’inizio degli anni ‘80, Ronald Reagan e il primo ministro britannico Margaret Thatcher iniziarono a congelare il bilancio dell’Oms e a causa di ciò, l’Oms fu costretta a affidarsi sempre di più a contributi volontari. La salute globale, attualmente, è guidata dalla legge di mercato, dal 2000 ad oggi le entrate dell’Oms sono raddoppiate, ma solo grazie alla crescita esponenziale dei fondi volontari.
Fino ad oggi, il maggior contribuente dell’Organizzazione mondiale della sanità sono proprio gli Stati Uniti: infatti, nel biennio 2018-2019, il finanziamento americano ha rappresentato quasi il 15% del bilancio complessivo dell’Oms. Tuttavia, il budget dell’Oms è sempre stato modesto, con un incremento dai circa 900 milioni di dollari nel 1998 ai 2,2 miliardi di dollari nel 2017. La Bill & Melinda Gates Foundation è dal 2015 il primo donatore privato volontario. Nel 2017 circa l’80% dei fondi ricevuti dall’Oms erano stanziati dai privati finanziatori e destinati a coprire specifici progetti selezionati dai donatori. Tutto ciò espone l’Organizzazione all’influenza dei privati e delle aziende, offuscando i principi che ne hanno ispirato la nascita settanta anni fa.
Margaret Chan nel 2015, avanzò la richiesta di incrementare del 5% i contributi obbligatori dei 194 stati membri. La risposta dei governi fu che non erano disposti a aumentare gli investimenti in tempi di tagli alle spese. Questa mediazione si concluse con un incremento dell’8% dei contributi volontari, lasciando così immutata l’incapacità dell’Oms di controllare il proprio budget.
Nell’ottobre 2016, subito dopo l’emergenza scatenata dal nuovo focolaio di ebola in Africa centrale, Margaret Chan, ex Direttrice Generale, fece notare la flagrante contraddizione: “mentre si chiede all’Organizzazione di fare di più, […] i contributi volontari all’Oms non sono aumentati, e quelli obbligatori sono persino diminuiti”.
La salute non può essere considerata un bene economico, ma un bene primario con caratteristiche uniche e peculiari che dovrebbe essere tutelato dall’Oms che vede, però, negli anni sempre meno libertà decisionale a causa di prerogative talvolta alienate dal principio della costituzione dell’Organizzazione mondiale della sanità.
Prospettive future
È servito un avvenimento di tale portata per rendersi conto delle fragilità insite nell’Oms, e sarebbe molto poco realistico credere che una volta finita l’emergenza possa tornare tutto come prima. Il futuro dell’Oms è legato allo scenario geopolitico che andrà a delinearsi con la fine del Coronavirus, a simboleggiare quanto l’Oms non si limiti ad essere una comunità medico-scientifica, ma assolva anche e soprattutto funzioni istituzionali e politiche.
Finita l’emergenza, si potrà valutare, con il distacco e l’obiettività necessari che al momento non possiamo avere, cosa è andato bene e cosa invece non ha funzionato nella gestione del virus, ma soprattutto quanto i successi e gli insuccessi siano dovuti all’Oms, alle relazioni tra gli Stati, o quanto invece ai singoli. Abbiamo intervistato, in merito al futuro dell’Oms, la professoressa e ricercatrice di governance in ambito sanitario Kelley Lee. ‘’È giusto che la pandemia determini la fine dell’Oms, almeno per come è configurata allo stato attuale. Quando a fine emergenza si andrà a rianalizzare l’operato dell’Oms, sarà importante capire quale sarà il motivo di questa revisione e da chi sarà portata avanti. Idealisticamente parlando, la motivazione sarebbe capire cosa bisognerà migliorare per il futuro, focalizzandosi quindi sul costruire un sistema di gestione della sanità mondiale tale da non doverci trovare nuovamente ad avere a che fare con una pandemia della portata del COVID-19. Il risultato potrebbe essere un rafforzamento di determinate parti dell’Oms, una riprogettazione su larga scala o anche la sostituzione dell’Oms con una nuova Organizzazione. Quello che sicuramente bisogna evitare è una caccia alle streghe di motivazione politica, in cui ognuno cerca di scrollarsi di dosso le responsabilità delle proprie decisioni sbagliate. Una situazione del genere sarebbe estremamente controproducente e ci renderebbe ancora meno preparati per i futuri problemi’’.
Un’Oms più forte gioverebbe sicuramente ai paesi meno sviluppati, che avendo un sistema sanitario più debole a livello nazionale dipendono molto dall’Oms. Per potenziare il ruolo dell’Oms, però, sarebbe necessario un cambio di rotta significativo da parte degli Stati membri, che fino ad ora hanno anteposto altre priorità e interessi alla sanità pubblica. ‘’Senza dubbio ci vorrà molto tempo per riprendersi dalla pandemia a livello economico. I prossimi anni saranno caratterizzati con ogni probabilità da politiche di austerity, che in passato hanno portato a un restringimento del welfare e di conseguenza della sanità pubblica. Poi è arrivata la pandemia e abbiamo visto come un virus può fermare la società intera. Sarebbe quindi poco lungimirante non investire sul sistema sanitario, sia a livello nazionale che globale, anche per trovarci preparati a situazioni come quella attuale, che con ogni probabilità si verificheranno nuovamente’’.
Articolo di Alessandro Mason, Luca Pagani, Bianca Pinto, Giulia Tore, Riccardo Vecchione