Opération Barkhane

Come il più grande impegno militare francese all’estero si sta trasformando in un nuovo Afghanistan

30/03/2020

Domenica 2 febbraio 2020 la Ministra della Difesa francese Florence Parly ha annunciato l’invio di altri 600 soldati francesi nella regione africana del Sahel, portando il numero totale delle forze impegnate nell’area a 5.100. La notizia, praticamente assente sui media nazionali italiani, arriva al termine di una serie di mesi caldi di critica e dibattito sulla più grande missione francese all’estero, in un’area fra le più pericolose d’Africa, quasi sconosciuta all’opinione pubblica europea e non solo. 

Il Sahel — dall’arabo Sahil “bordo del deserto” — è una lunga fascia di territorio che divide il deserto del Sahara a nord dalla savana a sud e che attraversa orizzontalmente numerosi paesi dell’Africa occidentale, dalla Mauritania fino al Sudan. Una lunga zona di contatto fra il Maghreb islamico e l’Africa sub-sahariana.

Da più di un decennio l’intera area è ormai immersa in uno stato di insicurezza e violenza, dove terrorismo islamico, trafficanti di esseri umani e organizzazioni criminali transnazionali hanno trovato terreno fertile per porre le proprie radici, in una regione immensa e scarsamente popolata. Con il declino di Al-Qaeda e dell’ISIS nel Medio Oriente infatti, il Sahel è un polo d’attrazione per jihadisti in fuga, ed è destinato a diventare il nuovo fronte della lotta globale al terrorismo.

I francesi nel Sahel

La presenza francese nell’area risale al 2012, quando Parigi intervenne al fianco del governo maliano nell’ambito della Guerra Civile del Mali. Il conflitto vedeva contrapporsi il governo centrale di Amadou Toumani Tourè ed il Movimento Nazionale di Liberazione dell’Azawad (MNLA), un gruppo tuareg separatista. Il MNLA mirava ad ottenere l’indipendenza di questa regione nel Nord del paese, ottenendo l’appoggio di movimenti islamici locali, tra cui l’organizzazione Al-Quaeda nel Mahgreb Islamico (AQMI) e varie milizie radicali rifugiatesi nell’area dopo il crollo del regime di Gheddafi. La pessima amministrazione del conflitto da parte del governo centrale, sommata ai malumori dei soldati costretti ad affrontare nemici la cui potenza militare era in continua crescita, portarono ad un colpo di Stato da parte dell’esercito che, dopo aver messo in fuga il regio Presidente, installò un regime militare con a capo Dioncounda Traorè, legittimamente riconosciuto dalla Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (ECOWAS).

Approfittando del crollo del potere statale, i ribelli del MNLA riescono nel marzo 2012 a proclamare l’indipendenza dell’Azawad. Il presidente Traorè decide dunque, in accordo con l’ECOWAS, di richiedere l’intervento militare francese, per riappropriarsi dei territori settentrionali occupati e fermare l’avanzata verso sud delle truppe jihadiste. Ha così inizio l’11 gennaio 2013 la Opération Serval, con la quale Parigi intervenne per ripristinare l’integrità territoriale maliana, segnando così l’inizio del coinvolgimento francese nella crisi saheliana. 

L’operazione ottenne subito l’appoggio delle Nazioni Unite, che danno il via all’operazione di peace-keeping MINUSMA, e di altre nazioni europee, che inviano aeromobili e uomini per fornire supporto logistico e addestramento all’esercito maliano, nell’ambito della missione dell’Unione Europea EUTM Mali.

In poco tempo l’operazione Serval riesce a conseguire numerosi successi e si conclude il 15 luglio 2014, a seguito della decisione del presidente francese Hollande di riconsiderare la dimensione dell’impegno dei soldati francesi, attraverso una distribuzione geografica molto più ampia a fronte della natura transnazionale del problema.

Viene quindi lanciata una nuova operazione, l’Opération Barkhane, anche in risposta alla necessità di ridimensionare il budget per le operazioni esterne, che cominciano a gravare sulle spalle del governo francese. La nuova operazione prevede quindi una riduzione degli uomini impegnati in Mali e la loro ridistribuzione nell’intera regione del Sahel.

Fraçois Hollande, all’epoca Presidente francese, era convinto di poter riuscire a gestire la situazione e ad impedire la ricostituzione di un nucleo jihadista nel territorio presidiato, fiducioso del supporto dell’ONU, dell’UE, e dei paesi del G5 Sahel, un gruppo regionale di 5 stati saheliani (Mali, Mauritania, Ciad, Burkina Faso e Niger) nato proprio per favorire la cooperazione, la sicurezza e lo sviluppo a livello regionale.

L’operazione Barkhane prevede dunque circa 4.500 uomini e numerose basi militari sparse in tutta la regione, e pone il proprio quartier generale a N’Djamena, capitale del Ciad, a testimoniare l’importanza strategica della partnership con il regime di Idriss Déby Itno, alleato nella lotta ai gruppi armati jihadisti.

Come indica l’European Council of Foreign Relations “L’operazione Barkhane è la più grande operazione d’oltremare della Francia, con un budget di più di 600 milioni di euro all’anno”. I suoi compiti sono numerosi, dalle pattuglie di combattimento a fianco delle forze locali e delle milizie partner, fino alla raccolta di informazioni e all’addestramento.

Nonostante l’ampia gamma di azioni, i funzionari francesi sottolineano che la priorità di Barkhane è l’antiterrorismo, ed in particolare le operazioni di eliminazione dei più importanti leader jihadisti.

L’azione sul campo tuttavia, si è rivelata un’impresa ben più ardua del previsto, per tutte forze internazionali presenti nell’area. Lo sanno bene i circa tredicimila caschi blu dell’Onu impiegati in Mali nella missione MINUSMA, tristemente nota per essere stata dichiarata nel 2014 l’operazione di peacekeeping più pericolosa del mondo. Le difficoltà sono dovute soprattutto alle tecniche di guerriglia asimmetrica dei mujaheddin, alla loro difficile localizzazione nelle aree desertiche e allo scarso livello di preparazione militare e logistica degli eserciti nazionali locali.

La situazione attuale

Dopo ben 7 anni di coinvolgimento diretto di Parigi sul territorio, il quadro è ben lontano dall’apparire stabile nelle ex-colonie francesi. Negli ultimi due anni i gruppi armati della regione hanno intensificato i loro attacchi, prendendo di mira comunità, edifici pubblici ed infrastrutture, portando violenza ed insicurezza ad un livello senza precedenti e rendendo quasi impossibile il sostentamento e l’accesso ai servizi basilari per le popolazioni locali.

I paesi più colpiti sono soprattutto Burkina Faso, Mali e Niger, nei quali si è registrato anche un notevole aumento del numero di profughi e sfollati. Secondo l’Unicef sarebbero ormai 1 milione e 200 mila le persone — di cui più della metà bambini — ad aver abbandonato le proprie case e villaggi a causa degli attacchi e dei conflitti armati. Fra i militari francesi la situazione non è affatto rosea, con il numero di caduti che è tornato a salire recentemente. Nel mese di novembre 2019 infatti, sono stati in 13 a perdere la vita in incidente fra due elicotteri, avvenuto durante un’azione di supporto alle forze locali in combattimento contro gli jihadisti.

L’eco dell’accaduto non ha tardato a farsi sentire in Francia, dove giornali e media hanno sottolineato come l’incidente rappresenti per l’esercito francese la più grave perdita da 36 anni ad oggi — dopo l’attentato di Beirut del 1983.

L’intera operazione è quindi finita nuovamente sotto il fuoco incrociato di numerose critiche: da un lato quelle dei cittadini francesi, che si domandano cosa ci facciano i loro soldati a rischiare la pelle nel deserto; dall’altro quelle degli esperti, che hanno rimarcato come a discapito degli sforzi di Parigi, le forze sul campo non siano riuscite a mettere fine agli attacchi dei gruppi jihadisti, né a contenere le violenze a danno dei civili di cui gli eserciti locali sono accusati.

Fra le molte analisi quella di Signe M. Cold-Ravnkilde del Danish Institute for International Studies sottolinea un aspetto chiave dell’inefficienza delle missioni nel Sahel. Secondo l’esperta danese le forze francesi, concentrandosi principalmente sulla ricostruzione degli Stati deboli e sulla lotta al terrorismo trans-frontaliero, non avrebbero risposto adeguatamente ai disagi e risentimenti delle popolazioni locali, finendo per mettere in moto una dinamica che rischia di alimentare quello stesso nemico che cercano di eliminare.

In questo clima di crescente critica e ostilità nei confronti della presenza francese nel Sahel, il Presidente Emmanuel Macron ha inizialmente minacciato di ritirare le forze dalla regione, convocando poi i leader di Mali, Niger, Chad, Burkina Faso e Mauritania nella città di Pau in Francia, per una conferenza sul Sahel tenutasi lo scorso 13 gennaio.

L’intento del Presidente francese era chiaro: rivalutare la situazione sul campo ed ottenere dai leader africani una decisa riaffermazione della legittimità dell’intervento di Parigi, per porre fine a tutte le ambiguità e le accuse di neo-colonialismo rivolte alla missione francese.

Nei mesi precedenti al summit infatti si sono moltiplicati gli episodi di proteste anti-francesi nei paesi del G5. Nella stessa Pau nei giorni a ridosso della conferenza, numerosi fra membri delle comunità africane di Francia hanno chiesto a gran voce che i francesi terminassero la loro “occupazione”. “Non c’è alcuna ambiguità da parte dei paesi del G5 sul fatto che le forze internazionali debbano rimanere nel Sahel” ha dichiarato Tiébilé Dramé, Ministro degli Esteri del Mali, aggiungendo: “se sono lì è perché noi abbiamo chiesto che venissero”.

Per quanto riguarda la rivalutazione della missione Barkhane invece, nel summit si è deciso che la presenza francese rimarrà distribuita su tutti i cinque Paesi dell’area, ma con un focus particolare sulla cosiddetta “zona delle tre frontiere”, dove i confini di Mali, Niger e Burkina Faso si incontrano e nella quale i gruppi armati riescono ad operare con facilità, sfruttando lo scarso controllo e la porosità dei confini. “La priorità è lo Stato Islamico del Gran Sahara” ha continuato Macron, ponendo però l’accento anche sulla necessità delle forze di Barkhane e del G5 di rafforzare i progetti di sviluppo nella regione, al fine di riguadagnare la fiducia dei civili.

Almeno per la riaffermazione della legittimità della presenza francese il summit di Pau sembra aver funzionato. Ma il vero successo del nuovo assetto post-summit si potrà misurare solamente in giugno, in occasione del prossimo meeting del G5 in Mauritania, sperando che le nuove truppe sul campo annunciate da Macron possano aiutare a frenare il diffondersi dell’insurrezione jihadista nella regione.

Le criticità strutturali della missione però restano. “Ricostruire uno stato dove vi è un rifiuto dello stato è contraddittorio,” ha dichiarato Jean-Hervé Jezequel, esperto dell’International Crisis Group in un’intervista su France24. “C’è una strategia militare, ma nessuna strategia politica. Se si vuole restaurare uno stato, bisogna chiedersi che tipo di stato si sta restaurando”.

Gli effetti della crisi libica sulla regione

Nell’ampio contesto delle crisi africane, quella del Sahel è particolarmente legata alle vicende della vicina Libia. Il 9 e 10 febbraio si è tenuto ad Addis Abeba il vertice dei capi di Stato e di governo dell’Unione Africana. Il titolo del summit di quest’anno era Silencing Arms in 2020, ad indicare la priorità dei governi del continente di fermare i conflitti interni. Il presidente della Commissione dell’Unione Africana, il ciadiano Moussa Faki Mahamat, nel suo discorso introduttivo ha indicato in particolare due aree su cui si dovrà focalizzare l’impegno diplomatico dell’Unione nei prossimi anni: la Libia e il Sahel. Due questioni legate a doppio filo, più di quanto non sia mai stato messo in evidenza.

Nella primavera del 2011 l’allora capo di Stato libico Muammar Gheddafi, pochi mesi prima che venisse catturato e ucciso, avvertì a lungo i leader occidentali che supportavano i ribelli contro il suo regime. In una conversazione con Tony Blair, il Rais metteva in guardia il leader britannico sulle disastrose conseguenze della sua rimozione dalla leadership libica, che a suo dire avrebbe aperto un vuoto di potere dove al-Qaeda e altri gruppi avrebbero potuto prendere il controllo e attaccare l’Europa. Anche sul settimanale russo Zavtra, Gheddafi si pronunciò con parole che oggi risuonano quasi come una profezia: “State bombardando il muro che si erge sulla strada dei migranti e dei terroristi”. E sono proprio questi due i temi che uniscono la situazione libica con l’instabilità in Sahel. Le migrazioni innanzitutto. È proprio nel Sahel infatti che passano due delle tre rotte principali del traffico dei migranti diretti al mediterraneo e l’Europa: quella centrale (Burkina Faso, Mali, Niger) e quella occidentale (Senegal, Mauritania, Algeria). Entrambe le rotte convergono poi in Libia, ormai fuori controllo, dove la situazione dei profughi è ingestibile.

In netta crescita è anche il fenomeno dei migranti climatici, in un continente in cui la desertificazione sta causando impatti devastanti. Secondo uno studio del CNR del marzo 2019, il 90% dei migranti arrivati in Italia attraverso la rotta mediterranea tra il 1995 e il 2009 emigravano per motivi climatici. Passata la tempesta di instabilità seguita alle primavere arabe, è molto probabile che il principale motivo di emigrazione torni ad essere il clima sfavorevole. Ma non solo. Le tensioni religiose ed etniche stanno alimentando nell’area una gigantesca crisi umanitaria: in Burkina Faso, Mauritania e Niger vivono attualmente un milione di rifugiati dai paesi circostanti, di cui la metà solo in Burkina Faso; inoltre, 60mila migranti dal solo Mali hanno trovato rifugio in Mauritania.

In questo contesto si inserisce un’esponenziale escalation del terrorismo jihadista. Nel 2019, secondo i dati ONU, gli attentati dei gruppi estremisti islamici nella regione hanno causato 4000 vittime tra civili e militari; e solo negli ultimi due mesi i morti sarebbero più di 300. Da ricordare sono, ad esempio, l’attacco che ha visto 35 civili uccisi la Vigilia di Natale in Burkina Faso e, sempre nello stesso paese, un attentato ad una chiesa che ha provocato circa 24 morti. Ma anche l’assalto alla base militare di Chinegodar, in Mali, che ha causato la morte di 89 soldati nigeriani.

Fornire una mappa dei diversi gruppi jihadisti che dal 2012 popolano il Sahel è difficile. Anche tralasciando i cosiddetti lupi solitari, esiste una galassia di minuscoli gruppetti che si raccolgono poi entro sigle più ampie. Uno dei gruppi di riferimento è sicuramente l’ISGS (Islamic State in the Greater Sahara): fondato nel maggio 2015 e proveniente da una scissione del MUJAO (il Movimento per l’unità della Jihad nell’Africa Occidentale), è ufficialmente affiliato allo Stato Islamico dall’ottobre 2016. Non un affiliato qualunque, anzi: visto il progressivo indebolimento delle forze dell’ISIS in Siria, Iraq e Libia, il progetto di instaurare un califfato nell’Africa occidentale è ormai il fronte d’azione principale dello Stato Islamico (vedi Scomodo n°22).  Grande rilevanza ha anche il GSIM (Group for the Support of Islam and Muslims) che comprende tre formazioni diverse: AQIM (Al-Qaeda nel Maghreb Islamico, operante in Mali), Ansar Dine (anche questo in Mali) e Katibat Macina (tra Mali e Burkina Faso). Infine, va segnalata l’organizzazione Ansarul Islam, autrice di quasi tutte le principali operazioni terroristiche nel nord del Burkina Faso. 

A questo punto, per capire la composizione di questi gruppi jihadisti bisogna fare un passo indietro, ritornare alla caduta del regime libico di Gheddafi e approfondire la composizione etnica dell’area. Uno dei gruppi sociali annoverabili tra i principali sostenitori del Rais erano i Tuareg, un popolo di pastori prevalentemente nomadi che rappresenta una minoranza cospicua ma piuttosto emarginata nelle gerarchie socioeconomiche dei paesi dell’area. 

Con la caduta di Gheddafi i tuareg libici varcano il confine a sud, ormai praticamente inesistente, portando con sé una grande parte degli armamenti delle milizie di Gheddafi, iniziando quindi nel 2012 la lotta armata per instaurare il califfato. Una lotta che ha logorato inesorabilmente la stabilità dei paesi interessati, i quali adesso sembrano aver deciso di passare definitivamente al contrattacco. In chiusura del summit di Addis Abeba, infatti, gli stati del G5 Sahel (Burkina Faso, Ciad, Mali, Mauritania, Niger) hanno avanzato la proposta di creare una propria forza militare antiterrorismo, per rendersi così meno dipendenti dagli aiuti occidentali ed in particolare francesi. La praticabilità di quest’opzione, però, rimane molto difficile. Sia perché le risorse da destinare a un esercito autonomo sarebbero enormi — eccessive per paesi che non hanno un’economia florida — sia, soprattutto, perché non sarà per nulla facile convincere i paesi attualmente impegnati nell’area a rinunciare ai propri interessi.

“Silenziare le armi” nella regione, quindi, resta un obiettivo che nemmeno i più inguaribili ottimisti potrebbero ritenere raggiungibile per il 2020. Nonostante gli sforzi della comunità internazionale, dell’unione africana e della Francia, quella del Sahel è una crisi ben lontana dall’essere risolta. I gruppi sul campo hanno dimostrato infatti di avere grandi capacità di finanziarsi — tramite il traffico di esseri umani, in alcune zone riscuotendo addirittura le tasse — e di sapersi adattare alla pressione degli interventi esterni, conducendo una guerra asimmetrica, ricorrendo sempre più ad attentati ed evitando lo scontro aperto.

Quello che si prospetta per Parigi dunque è uno scenario da Afghanistan, con truppe francesi in aumento senza data di ritorno, un nemico che sfrutta eccellentemente il terreno a suo vantaggio, ed una popolazione locale riluttante a collaborare con le forze internazionali. La risoluzione della crisi nel Sahel è di importanza cruciale per la stabilità del Nord Africa e del Mediterraneo, e finché la regione rimarrà una base sicura per terroristi e trafficanti di esseri umani, continuerà a costituire una seria minaccia anche per l’Europa.

Articolo di Cristiano Bellisario, Simone Martuscelli, Leonardo João Trento