La PAC senza politiche per mitigare il clima è inutile

Il 17 dicembre, c’è stato il terzo trilogo tra i rappresentanti della Commissione europea, del Parlamento e del Consiglio, per discutere dell’impostazione della Politica Agricola Comune (PAC) per i prossimi sette anni.

La discussione tra le parti ha avuto il via libera a partire dallo scorso 23 ottobre, quando il Parlamento europeo ha concluso le operazioni di voto riguardanti la riforma della PAC. In quella sede, sono stati approvati numerosi emendamenti che modificano in peggio la proposta avanzata dalla Commissione europea, con un compromesso al ribasso tra i politici delle diverse ali dell’europarlamento. I socialdemocratici (S&D), i popolari (PPE) e i liberali (Renew) hanno deciso di piegarsi alle pressioni delle imprese dell’agroindustria, cancellando qualsiasi possibilità di transizione del sistema alimentare europeo. Sono rimaste inascoltate le voci di milioni di cittadini europei, che chiedono una politica più ambiziosa che tuteli l’ambiente, il lavoro e la salute. 

 

La PAC era sbagliata e la nuova impostazione non può migliorarla.

La Politica Agricola Comune è la voce maggiore nel bilancio dell’UE e, anche se la quota si sta progressivamente riducendo, l’impostazione attuale prevede di stanziare 387 miliardi di euro in 7 anni. Si tratta di circa 1/3 del bilancio totale che viene destinato all’agricoltura comunitaria, la cui gestione ha forti impatti sulla vita di tutti di cittadini. I fondi previsti dalla PAC sono suddivisi in due “pilastri”: il primo, il Fondo europeo agricolo di garanzia, viene utilizzato per effettuare pagamenti agli agricoltori in base alla superficie coltivata; il secondo pilastro, il Fondo europeo agricolo per lo sviluppo rurale, serve a finanziare l’agricoltura biologica, il sostegno alle zone svantaggiate, oltre alla tutela dell’ambiente e il contrasto ai cambiamenti climatici.

Questa impostazione, che la Commissione ha provato a modificare con la sua proposta, è alla base di numerose storture, raccolte e denunciate negli anni da movimenti, associazioni e ricercatori con numeri e fatti. 

Il dato più allarmante, che ha determinato la necessità di un superamento della PAC così com’era sempre stata pensata, riguarda la distribuzione dei fondi. Negli ultimi anni l’80% dei pagamenti diretti, basati sulle dimensioni aziendali, è andato ad appena il 20% delle aziende. Si tratta di imprese di grande dimensione, votate alla produzione industriale e all’allevamento intensivo. Questo dato, accompagnato a una sempre crescente concentrazione della proprietà delle terre – nel 2016 oltre la metà della superficie agricola era di proprietà del 3% delle aziende   permette di comprendere come la ripartizione dei pagamenti per ettaro abbia incoraggiato, negli anni, l’espansione delle aziende agricole senza sostenere l’occupazione. Infatti, mentre milioni di aziende agricole hanno chiuso, la superficie coltivata è rimasta invariata. Non solo, spesso i pagamenti diretti sono finiti in tasca a grandi proprietari terrieri che, in molti paesi, hanno portato avanti vere e proprie azioni di land grabbing per ricevere fondi della PAC.

In questo senso, la scelta del Parlamento europeo e del Consiglio è stata quella di non condividere la proposta iniziale di destinare parte del primo pilastro agli eco-schemi, dimostrandosi incapaci di tutelare gli ecosistemi  e gli agricoltori ma ben attenti a prendere le difese delle grandi industrie dell’agroalimentare.

Gli impatti che gli ultimi sette anni di PAC hanno avuto sulle imprese e sull’ambiente non sono bastati a fare cambiare idea alle istituzioni europee. Infatti, lo scorso 27 novembre, Consiglio e Parlamento hanno concordato di estendere le attuali norme della PAC fino alla fine del 2022, ritardando di due anni il necessario superamento di un modello che si è dimostrato totalmente insostenibile.

 

Il lungo cammino della PAC, vittima degli interessi di pochi.

La discussione ha inizio nel 2018, quando la Commissione europea presenta la prima proposta della nuova PAC per il settennio 2021-2027. Nell’idea avanzata dalla Commissione, la Politica Agricola Comune diviene un pilastro fondamentale del successivo Green Deal europeo, insieme a piani e strategie volti a favorire una svolta ecologica dell’Unione. In particolare, la strategia “Dal produttore al consumatore” (Farm To Fork) e la “strategia sulla biodiversità per il 2030”, entrambe proposte nel maggio 2020, definiscono obiettivi ambiziosi legati alla riduzione degli impatti ambientali delle filiere agroalimentari.

È proprio su questi obiettivi che la Commissione, nel sottoporre la proposta al Parlamento europeo e al Consiglio, ha chiesto una maggiore attenzione, sottolineando la necessità di armonizzare la PAC con le strategie europee, indirizzandola verso una crescente sostenibilità. Per questo, nel maggio 2020 la Commissione chiede che alcuni “punti chiave” vengano mantenuti affinché la PAC rifletta adeguatamente il Green Deal”.

La discussione interna alle altre istituzioni europee è proseguita fino allo scorso ottobre, quando in Parlamento sono stati approvati gli emendamenti che, di fatto, bloccano ogni possibilità di dare all’Europa una politica agricola capace di veicolare il cambiamento.

Infatti, la posizione raggiunta dai Parlamentari dell’Unione toglie gran parte dei finanziamenti agli eco-schemi (cioè le pratiche agroecologiche messe in atto sui campi). Si tratta di comportamenti virtuosi, come l’agricoltura conservativa, la riduzione di prodotti chimici di sintesi o la rigenerazione del suolo, capaci di diminuire sensibilmente l’impatto del sistema agricolo tradizionale. L’esempio più evidente si ha nell’articolo 28-ter, assente dalla proposta iniziale e frutto del compromesso tra gli eurodeputati, nel quale si esplicita che i fondi stanziati per gli eco-schemi saranno subordinati alla loro convenienza economica. Questo passaggio mostra chiaramente la mancanza di volontà dei politici europei di cambiare davvero l’attuale paradigma, di invertire una insostenibile visione che antepone l’economia all’ecologia. 

Come se non bastasse, tra gli eco-schemi sono citate le “azioni volte a ridurre i fattori di produzione e a migliorare la gestione  sostenibile delle risorse naturali, come l’agricoltura di precisione”, una formula che va incontro agli interessi delle grandi industrie agricole, che considerano suolo e manodopera come costi da abbattere, al fine di massimizzare i profitti. Un approccio che, negli anni, ha determinato lo screditamento  del lavoro agricolo e la svalutazione del cibo.

Altri articoli aggiunti con gli emendamenti del Parlamento spalleggiano i colossi della produzione intensiva, ponendo l’accento (e una buona parte dei finanziamenti) su obiettivi di competitività e aprendo allo sviluppo di nuovi OGM, dimostrando come la PAC sia, ancora una volta, vittima dell’azione di lobbying dell’agroindustria. 

Il Consiglio, negli stessi giorni, ha approvato un’impostazione della PAC ancora peggiore. La posizione degli Stati membri, ad esempio, prevede una riduzione al 20% dei fondi per gli eco-schemi (rispetto al 30% previsto dalla Commissione). Tra i criteri di accesso al finanziamento, si valuterà anche il numero di capi allevati. Non il minore, come vorrebbe un approccio sostenibile, ma il maggiore, trasformando l’eco-schema in un veicolo per sussidiare l’allevamento industriale. Come se non bastasse, l’accordo tra i Paesi membri riduce il numero minimo di obiettivi ambientali specifici da raggiungere, elimina la rotazione obbligatoria delle colture e indebolisce i legami con la strategia Farm To Fork, rendendo vana qualsiasi speranza di cambiamento, almeno nelle intenzioni, della Politica Agricola Comune.

 

Perché parlare di agricoltura è parlare di clima.

I cambiamenti climatici hanno un impatto devastante sull’agricoltura. In Europa, specialmente quella mediterranea, siccità ed eventi climatici estremi sono sempre più frequenti e violenti (solo in Italia, nell’ultimo anno ce ne sono stati più di 1.600) e rappresentano una frequente causa di perdite di raccolto. Ma l’agricoltura contribuisce anche alla crisi climatica: in Europa, il settore agricolo è responsabile del 10,3 % delle emissioni di gas climalteranti (senza comprendere le emissioni di CO2 derivanti dall’uso del suolo e dal cambiamento di uso del suolo), di cui quasi il 70 % proveniente dal settore dell’allevamento (nonostante uno studio pubblicato su Science indichi che a livello mondiale la carne rappresenti solo il 18% delle calorie consumate). Per questo motivo, nelle diverse riforme della PAC le azioni di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici hanno acquisito sempre più importanza e, nel 2013, sono state individuate come obiettivo fondamentale, divenendo una priorità della politica di sviluppo rurale. Tuttavia l’agroindustria, che con pratiche agricole insostenibili contribuisce maggiormente al totale delle emissioni nocive del settore agricolo, non risulta particolarmente colpita dalla “nuova” struttura della PAC, che sembra voler anteporre gli interessi economici di pochi alla tutela degli ecosistemi. 

Questa volontà politica emerge dagli emendamenti che aprono a pratiche di erosione e consumo di suolo, colpevoli di indebolirne la fondamentale capacità di assorbimento del carbonio. Sono un esempio il drenaggio delle torbiere, importantissimi siti di stoccaggio del carbonio capaci di mitigare l’impatto dei cambiamenti climatici in Europa, l’eliminazione delle rotazioni obbligatorie delle colture e, ancora, la mancata tutela delle zone protette della Rete Natura 2000. Dopo gli oceani, il suolo è il secondo serbatoio di assorbimento naturale del carbonio per grandezza. Tuttavia, risulta evidente la mancanza di visione delle istituzioni europee, colpevoli di ignorare i rischi concreti legati al consumo e alla degradazione del suolo, la risorsa grazie alla quale viene prodotta la maggior parte del cibo che consumiamo.

 

La nuova PAC rischia di affondare le promesse di un’Europa sostenibile.

L’Unione Europea e i suoi Stati membri sono tra i 190 paesi che hanno sottoscritto, alla Conferenza di Parigi sul clima del 2015, il primo accordo universale e giuridicamente vincolante sui cambiamenti climatici, con l’obiettivo di limitare le proprie emissioni di gas climalteranti. In particolare, l’UE si è impegnata a ridurre le emissioni del 40% entro il 2030, mettendo in campo diverse strategie e un ambizioso Green Deal per modificare le proprie politiche chiave, di cui la PAC è forse la più importante.

Nel maggio 2020, la Commissione europea ha dichiarato che la PAC sarebbe stata compatibile con il Green deal. Con i voti di ottobre, però, gli Stati membri hanno reso carta straccia questi impegni, ignorando l’Accordo di Parigi e la Commissione, destinando 387 miliardi di euro a una politica debole e assoggettata alle lobby dell’agroindustria.

Ora, la discussione prosegue nei Triloghi, i negoziati interistituzionali in cui il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione avranno l’opportunità di illustrare le loro posizioni sugli elementi chiave dei tre regolamenti per il raggiungimento di un accordo su un testo comune. Su questo, Frans Timmermans, primo vicepresidente della Commissione europea e commissario europeo per il clima e del Green Deal europeo, si è espresso molto chiaramente sulla necessità di lavorare su un riallineamento della Politica Agricola con il Green Deal, dichiarando che la posizione del Parlamento europeo sulla riforma della PAC è poco ambiziosa in termini di tutela degli ecosistemi. 

Lo scollamento della PAC dalle strategie dell’Unione, dunque, sembra destinato a diventare il campo di battaglia tra la Commissione e le altre istituzioni europee, in un braccio di ferro che verrà giocato, ancora una volta, sulla pelle dei cittadini.

Lo stesso Timmermans, lo scorso 25 novembre, ha incontrato le attiviste Greta Thunberg e Luisa Neubauer, portavoci della campagna social #WithdrawTheCAP, che ha portato all’attenzione della Commissione un’istanza condivisa da migliaia di giovani in tutta Europa: ritirare la proposta di modifica della PAC, per un riallineamento con gli obiettivi del Green Deal.

 

La posizione del nostro Paese

In tutta questa danza, cosa accade in Italia? Da una parte, i nostri europarlamentari si sono dimostrati pronti a supportare le richieste dell’agroindustria, approvando in massa gli emendamenti peggiorativi della PAC (solo cinque su 76 hanno espresso voto contrario); dall’altra, la ministra Bellanova, in Consiglio, ha dimostrato un’indifferenza quasi totale nei confronti della questione ambientale. La ministra, infatti, nei giorni di discussione con i suoi colleghi europei, ha apertamente espresso il suo parere contrario alla percentuale minima di obbligatorietà degli eco-schemi. Una posizione, la sua, in netto contrasto alla proposta della Commissione e a quanto affermato da uno studio commissionato dal Parlamento, nel quale diversi ricercatori confermano l’importanza della condizionalità di queste pratiche ecologiche e della necessità di destinarvi anche più del 30% dei fondi del primo pilastro. A questo si somma la proposta italiana di escludere le risaie dalle aree ecologiche, una decisione che faciliterà quei modelli di agricoltura non sostenibili che insistono negli ampi territori del nord Italia e, allo stesso tempo, sottrarrà valore all’agricoltura delle aree interne del nostro paese, più sostenibile per l’ambiente e la società.

Le affermazioni della Ministra Bellanova dimostrano la mancanza di lungimiranza di una classe politica che, da un lato, propone la creazione di un fondo di mutualizzazione che sostenga gli agricoltori vittime degli eventi estremi, ma dall’altro taglia i fondi per prevenire quegli stessi eventi e mitigare il loro impatto: un controsenso molto costoso per un’area sempre più a rischio come l’Europa mediterranea.

Sulla stessa lunghezza d’onda è l’europarlamentare italiano Paolo De Castro che, se a maggio esprimeva la necessità di “integrare questi due processi (Farm To Fork e PAC) per garantire ai nostri agricoltori un quadro normativo coerente”, a novembre, dopo aver votato a favore delle modifiche dell’Eurocamera, accusava gli ambientalisti di voler incorporare gli obiettivi del Green Deal e della Farm to Fork dentro la PAC. Allo stesso modo, i nostri parlamentari e senatori, nel discutere la posizione italiana sulla PAC, non si sono frenati negli attacchi ai gruppi ambientalisti, definendo “lezioncina” le mobilitazioni che, da anni, milioni di persone portano avanti per una politica europea che limiti gli impatti dell’agricoltura industriale sull’ambiente e la salute di tutti i cittadini, deputati compresi

La nostra classe dirigente, senza distinzione di colore politico, si dimostra sempre pronta a rispondere alle istanze ambientaliste con frasi preconfezionate basate sull’assunto – falso – che la transizione ecologica comporterà un calo delle prestazioni economiche del settore agricolo. Ripetendo questo mantra, continuano a costruire politiche incentrate sulla competitività e sullo sviluppo a qualunque costo, ignorando le evidenze che mettono in relazione il consumo di risorse naturali con una sempre più bassa redditività delle produzioni agricole. Non solo, i decisori politici, primi responsabili delle mancate opportunità di cambiamento che negli anni abbiamo visto susseguirsi in Italia, parlano di una svolta green che continuano a rimandare, proponendo piani poco ambiziosi e insufficienti ad avviare un cambiamento che tuteli l’ambiente, il lavoro e la salute dei cittadini (a partire dalle fasce più povere).

Sono numerosi i report e gli articoli che inquadrano le opportunità di un sistema alimentare europeo che sia sempre meno dipendente dall’energia fossile e più sostenibile, e altrettanto numerosi sono i movimenti di esperti e ricercatori che mettono a disposizione della politica le proprie conoscenze per incentivare il cambiamento. Tuttavia, solo una minima parte di queste sollecitazioni trovano riscontro nelle strategie italiane ed europee e, troppo spesso, sono sovrastate dalle voci delle lobby degli industriali. Tutto questo non è più accettabile.

Quest’anno ci ha mostrato le debolezze di un sistema economico impreparato alle crisi, siano queste sanitarie, economiche o ambientali. I cambiamenti climatici, sempre più devastanti, possono e devono essere contrastati da politiche capaci di ripensare i modelli di produzione e di consumo e di cambiare l’attuale paradigma, a partire dalla tutela dell’agricoltura sostenibile e degli ecosistemi. 

Articolo di Valentino Affinita