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Pangea umana
Gli effetti della migrazione ambientale in Italia
Lo scorso 21 ottobre è stato approvato a palazzo Montecitorio un cambio di rotta interessante in ambito migratorio, che sembrerebbe prendere le distanze dal tanto disputato Decreto Sicurezza del governo Salvini del 2018. Il nuovo decreto firmato da Lamorgese, nell’ampliare il riconoscimento del permesso di soggiorno anche a coloro che fuggono da «gravi situazioni di calamità», riporta all’interno del dibattito pubblico il non risolto tema delle migrazioni ambientali. Ci si chiede se l’Italia stia aprendo le porte a delle nuove dinamiche ad orientamento umanitario, non solo nell’ambito della protezione di persone migranti, ma anche nel riconoscimento del cambiamento climatico considerando le previsioni dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati secondo il quale entro il 2050 circa 200-250 milioni di persone nel mondo intraprenderanno uno spostamento per motivi climatici.
Numeri e realtà
Quest’ultimo e la migrazione internazionale sono due fenomeni sempre più interdipendenti tra loro. Secondo i dati proposti da True Numbers dal 2014, si è registrato un graduale aumento del numero di persone costrette ad allontanarsi dal proprio territorio a causa di disastri naturali. Nel 2018, le statistiche del Internal Displacement Monitoring Centre, l’autorevole fonte internazionale su dati e analisi degli spostamenti interni, calcolava che dal 2008, 26,4 milioni di persone sono state costrette a fuggire a causa di alluvioni, tempeste di vento, terremoti o siccità. Il Consiglio Norvegese per i Rifugiati propone di vedere questo numero sotto un’altra ottica: l’equivalente sarebbe una persona sfollata ogni secondo durante tutto il corso della decade 2008 al 2018. Il problema continua ad essere imminente: solo nella prima metà del 2020, i disastri naturali hanno fatto spostare 9,8 milioni di persone. Questo ha portato alcuni studi raccolti dal Migration Data Portal a prevedere le variazioni del clima come prima causa di migrazioni di massa, coinvolgendo oltre duecento milioni di persone entro il 2050, ossia una persona ogni quarantacinque nel mondo.
Per quanto riguarda lo scenario politico e sociale, risulta spesso difficile individuare una confermata relazione diretta tra migrazione e cambiamento climatico. Questo fa sì che le ragioni di tipo ambientale non siano ancora considerate una causa a sé stante della mobilità umana, bensì solo un’aggravante che accompagna altri fattori di vulnerabilità (push factors) più tradizionali, quali le condizioni economiche, la fuga da guerre o repressioni di qualsiasi genere. Questo ragionamento è reso esplicito in una comunicazione del 2013 della Commissione Europea: la maggior parte dei disastri naturali sono esacerbati dal cambiamento climatico, ma non attribuibili ad esso con certezza. Per questo, cercare di isolare il cambiamento climatico come fonte di migrazione complicherebbe il percorso di riconoscimento dei soggetti coinvolti.
Secondo i dati riportati da True Numbers, attualmente i rifugiati ambientali o climatici si concentrano soprattutto in Estremo Oriente e nei Paesi del Pacifico (67,8%), mentre l’Europa è la regione del pianeta meno colpita, nonostante tale fenomeno riguardi lo 0,2% della popolazione totale. In numeri assoluti, la Cina è il Paese con il più alto numero di migranti climatici, mentre Cuba è al primo posto rispetto alla densità di popolazione. Contestualizzando il fenomeno a livello europeo, con trentuno migranti climatici ogni mille abitanti, l’Italia è al primo posto. Le cifre presentate disegnano un’immagine tanto chiara quanto sconcertante in merito all’aumento della mobilità umana per ragioni climatiche, causa effettivamente riconosciuta solo dal diritto domestico svedese, norvegese, finlandese e danese e, da pochi mesi, apparentemente, italiano.
Tra mancanza di definizioni e impasse politica
Una società in una continua decostruzione, il mondo dei diritti umani necessita al contrario di “etichette ristrette” e definizioni sempre più precise per sostenere il processo di identificazione di determinati gruppi vulnerabili. Nonostante la complessità di fenomeni transfrontalieri e transdisciplinari, servono definizioni solide per poter riconoscere l’esistenza di determinate realtà e aprire la strada verso la protezione giuridica dei soggetti coinvolti, come in questo caso la mobilità umana causata da disastri naturali. Infatti, nell’assenza di una definizione robusta è impossibile prendere posizione e politicizzare il fenomeno. Questo lascia in ultima istanza coloro che fuggono per ragioni climatiche in circostanze spesso peggiori di quelle che hanno lasciato alle spalle o, nel migliore dei casi, senza un luogo chiaro e legalmente sicuro dove andare.
Ad oggi, la giurisdizione internazionale riguardante i rifugiati è basata sulla Convenzione di Ginevra del 1951, la quale, in quanto coerente alla propria epoca, non fa accenno alla figura del rifugiato climatico e ambientale. Il diritto internazionale si trova intrappolato, così, intorno ad un’interpretazione dei push factors della migrazione, come le guerre o l’instabilità economica. In un briefing di maggio 2018, il Parlamento Europeo comunica che molti Paesi in via di sviluppo hanno sollecitato l’Ue a concedere ai migranti climatici lo status di rifugiati, ma i singoli Stati membri non hanno sostenuto l’idea di creare questa nuova categoria. Infatti, nel già citato atto della Commissione Europea di aprile 2013 si è sostenuto che non ci fosse bisogno di una “protezione di tipo rifugiato” specificamente per motivi legati al clima. Non senza ipocrisia, la Commissione stessa in quella sede parlò dello sfollamento ambientale come una questione strettamente legata ai diritti umani e il Parlamento Europeo riconoscesse in più di una risoluzione il cambiamento climatico tra le cause della mobilità umana. A gennaio 2020, per la prima volta nella storia, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha stabilito che gli “environmentally displaced people” non possono essere rimpatriati al proprio Paese di origine se questo stesso non ha intrapreso alcuna azione concreta contro inquinamento e cambiamento climatico. Pur non essendo una decisione vincolante, essa trova fondamento nella legge internazionale sui diritti umani, che è invece lo è.
Responsabilità storiche e presenti
A monte dell’esitazione della comunità e dei singoli stati nel prendere posizione politica e legale in merito alle migrazioni ambientali troviamo la grande battaglia del riconoscimento del cambiamento climatico. Finché le cause antropocentriche del cambiamento climatico non verranno sostanzialmente riconosciute, allora gli uragani, l’innalzamento del livello del mare e la diffusione di nuove epidemie saranno ancora etichettati semplicemente come “disastri naturali”. Allo stesso modo, le persone che fuggono da questo tipo di eventi saranno etichettate come “sfortunate”, anziché come potenziali richiedenti d’asilo. Questa situazione permette ai singoli stati e alla comunità internazionale nel suo insieme di sottrarsi non solo da responsabilità di tipo etico e umanitario, ma anche di tipo storico, politico e giuridico. In sostanza, il lato naturale degli eventi legati al cambiamento climatico fa perdere alle migrazioni ambientali la sua forza e autonomia, incasellando i migranti climatici come coloro “che si trovavano al posto sbagliato nel momento sbagliato” e deresponsabilizzando la politicizzazione del fenomeno.
Infatti, sulla base del fatto che i Western States degli anni Novanta hanno supportato le maggiori politiche di produzione di gas serra, principalmente dai primi anni dell’industrializzazione del ventesimo secolo, è possibile concludere che questi sono direttamente responsabili per la migrazione internazionale causata dal cambiamento climatico. Dall’era post Protocollo di Kyoto – accordo firmato nel 1997 e ratificato nel 2005 da ben 192 Paesi, i quali si impegnano a ridurre le emissioni di elementi inquinanti del 5% – si parlava di un cambio di rotta e una maggior presa di coscienza della crisi. Tuttavia, per realizzare che lo stato dell’arte è addirittura peggiore è sufficiente notare che Paesi come gli Stati Uniti, responsabili di circa il 36% delle emissioni di gas serra sul pianeta, non hanno firmato l’accordo o che dal 1990 le emissioni di anidride carbonica sono salite del 51%. In quest’ottica, i migranti climatici non sono configurabili come un gruppo vago o casuale di persone vittime di contingenze imprevedibili, bensì come una categoria di persone oppresse da politiche di sfruttamento della terra da parte di un gruppo di Paesi ben preciso, i cosiddetti Western States e developed countries, cui spesso ambiscono a iniziare una nuova vita, ma da cui vengono ignoranti, lasciati allo sbando e messi da parte.
Un primo passo a livello del diritto internazionale sembrerebbe essere curiosamente stato fatto in maniera involontaria, creando un precedente che potrebbe essere utilizzato nel futuro come strumento per forme sussidiarie di tutela. Il caso è del 2015 e riguarda la richiesta d’asilo di un cittadino dell’isola di Kiribati nel Pacifico, area estremamente vulnerabile ai cambiamenti climatici e l’innalzamento del livello del mare. Ioane Teitiota chiese protezione in particolare alla Nuova Zelanda. Nel 2020 gli fu rifiutata dalla Commissione dell’Onu per i diritti umani, motivando che “potrebbero esserci interventi da parte della Repubblica di Kiribati, con l’assistenza della comunità internazionale, per adottare misure affermative per proteggere e, ove necessario, ricollocare la sua popolazione”. Ne emerge che se un Paese si impegna all’adattamento ai problemi ambientali, i propri cittadini non sono titolari di protezione internazionale. Implicitamente si riconosce così la necessità dei governi nazionali di adottare misure per garantire i diritti umani minati dal cambiamento climatico. Sulla scia di questa nuova potenziale onda di cambiamento si inserisce anche l’Italia.
La protezione per calamità naturali nella legislazione italiana
La riflessione italiana sulla possibilità di garantire protezione a chi fugge dal proprio Paese a causa di disastri ambientali affonda le sue radici nel 1998, anno in cui viene approvato il Testo Unico sull’Immigrazione che diviene il punto di riferimento della legislazione italiana riguardo questa tematica. Tale decreto prevede, all’articolo 20, una forma di protezione temporanea in caso di disastri naturali per flussi migratori ingenti. Allo stesso tempo sancisce che, oltre allo status di rifugiato e alla protezione sussidiaria, debba essere prevista una protezione per motivi umanitari «qualora il richiedente si trovi in una condizione di vulnerabilità». È proprio la mancanza di una definizione specifica di “vulnerabilità” che permette in seguito al termine “protezione umanitaria” di adottare un significato sempre più ampio. Ad esempio nel 2015, il Tribunale di Milano stabilisce che anche le condizioni oggettive del Paese di origine – quali carestie, disastri naturali, generali condizioni ambientali e climatiche – che mettono in pericolo i diritti civili, politici e socio-economici dell’individuo facciano riferimento ad una condizione di vulnerabilità.
Solo nel 2018, tuttavia, si verificano le prime importanti modifiche al TUI, con l’introduzione mediante il Decreto Legge Salvini dell’art. 20-bis secondo cui «quando il Paese verso il quale lo straniero dovrebbe fare ritorno versa in una situazione di contingente ed eccezionale calamità che non consente il rientro e la permanenza in condizioni di sicurezza, il questore rilascia un permesso di soggiorno per calamità». Tale permesso ha durata di sei mesi ed è rinnovabile solo per altri sei, consente l’attività lavorativa dell’individuo sul territorio nazionale, ma non prevede una convertibilità in permesso di soggiorno (PDS) per motivi di lavoro. L’articolo 20-bis, se confrontato con l’art. 20, mantiene il riferimento a uno statuto di protezione speciale, ma si differenzia per un particolare aspetto: contrassegnando la calamità come «contingente ed eccezionale» restringe così il campo a soli eventi improvvisi e singolari, quali alluvioni e terremoti, escludendo tipologie di eventi come carestie e siccità, che pur derivano da fenomeni climatici di una certa portata.
Nuove prospettive
La più recente versione dell’articolo 20-bis risale a dicembre 2020, quando viene inserita una discreta quanto significativa modifica: si ridefinisce come “grave” la calamità necessaria a far sì che il richiedente ottenga la protezione speciale, consentendo così una lettura più ampia dell’evento naturale considerato. Inoltre, si elimina il riferimento alla durata di sei mesi, lasciando intendere dunque che il Permesso di soggiorno (Pds) per calamità naturali possa essere rinnovato fino a quando persistano le insicure condizioni ambientali del Paese di origine. Questo prevede la possibilità di convertire tale titolo in Pds per motivi di lavoro, dando così vita alla possibilità di una permanenza stabile del richiedente su territorio italiano. Si potrebbe quindi affermare che da questo intervento legislativo scaturisca una nuova prospettiva, la quale potrebbe, in futuro, portare alla definizione giuridica e quindi fattivamente riconosciuta di “rifugiato ambientale”, sebbene la strada sia ancora lunga. A tale visione contribuisce in modo rilevante una sentenza della Corte di Cassazione del 9 marzo 2021 secondo la quale il disastro ambientale, il cambiamento climatico e l’insostenibile sfruttamento delle risorse di un territorio siano da annoverare tra le condizioni che possono mettere in pericolo o addirittura azzerare i diritti fondamentali dell’individuo, come emerso dal caso Ioane Teitiota contro Nuova Zelanda.
Proprio per questa ragione dunque il Paese ospitante, una volta accertatosi che il Paese di origine dell’individuo non sia impegnato in politiche di lotta all’inquinamento e di adattamento al cambiamento climatico, è tenuto a garantire protezione, con le dovute specifiche da considerare caso per caso. Ad esempio, la sentenza della Cassazione sopra citata valuta le condizioni del delta del Niger, affermando che lo sfruttamento di risorse ad opera delle compagnie petrolifere, i conflitti etnico-politici, l’inaccessibilità dei beni naturali essenziali per la popolazione locale e l’instabilità che – nonostante il tentativo di contrasto del governo nigeriano – caratterizzano la regione siano, nel complesso, elementi sufficienti per considerare tale contesto ambientale degradato, al punto da ledere i diritti fondamentali dell’individuo al pari di un conflitto armato. Così, mediante una vera e propria presa di coscienza legislativa, la Corte ha accettato il ricorso del richiedente proveniente dal territorio nigerino.
Al fine di monitorare l’applicazione del Pds per calamità naturali nella sua nuova forma, “Scomodo” ha richiesto alcuni dati al Ministero degli Interni mediante un’istanza di accesso civico generalizzato. Secondo le informazioni ricevute dal Dipartimento della Pubblica Sicurezza presso la Direzione centrale dell’Immigrazione e della Polizia delle frontiere, le richieste di Pds per calamità naturali effettuate tra l’1 novembre 2020 – periodo a partire dal quale è entrato in vigore il decreto legge proposto sotto l’esecutivo di Lamorgese, poi convertito in legge a dicembre – e il 25 marzo 2021 sono quarantatre, di cui diciassette accettate e le restanti respinte. Inoltre, tra i Paesi di provenienza di coloro che hanno ottenuto il Pds si trovano numerosi stati, alcuni dei quali tristemente prevedibili come Bangladesh, Senegal e Nigeria, altri più inaspettati quali Albania e Russia. Sebbene questi valori posti su scala nazionale potrebbero non risultare particolarmente significativi, in realtà rappresentano forse in nuce l’inizio di un possibile processo di consapevolezza e comprensione attraverso il quale riconoscere che il fenomeno della migrazione climatica è quanto mai attuale e riguarda tanto chi è costretto a partire quanto chi è tenuto ad accogliere.
La realtà (locale)
Il tema del cambiamento climatico è un argomento trasversale, che interessa chiunque si occupi di soprusi e diritti. In altri termini, si configura come lo sfruttamento indiscriminato delle risorse ambientali da parte dell’uomo e il loro inquinamento profondamente legato ai rapporti di forza esercitati fra gli uomini stessi. Questo legame tra giustizia ambientale e giustizia sociale è particolarmente noto alla società civile che, sul territorio, si occupa di assistenza a persone migranti in fuga da territori sempre più inabitabili.
Raggiunto dalla redazione di “Scomodo”, Andrea Costa, storico coordinatore e portavoce dell’associazione romana Baobab Experience, ha rimarcato l’importanza di una narrazione sui cambiamenti climatici da un punto di vista politico: «Credo che finalmente qualcuno, anche nelle istituzioni, stia cominciando ad occuparsene seriamente. Persino i media mainstream hanno difficoltà nel denunciare le cose come stanno. Serve più coraggio nella denuncia e più impegno nelle conseguenti azioni». Baobab è presente a Roma dal 2015, con un presidio di soccorso e assistenza nei pressi della stazione Tiburtina. Nonostante rappresenti, per chi attraversa la città in cerca di una prospettiva di vita di migliore, uno dei principali punti di riferimento per ricevere assistenza, il presidio viene regolarmente sgomberato dalle forze dell’ordine e bersagliato dalle istituzioni, le quali ignorano puntualmente le necessità dei migranti.
Sul legame tra cambiamento climatico e migrazioni osservabile dal loro punto di vista, Costa nota come: «Nella nostra esperienza risulta difficile individuare con precisione il “migrante climatico” e difficilmente abbiamo sentito dire a qualcuno che fosse il cambiamento del clima il motivo per cui fosse costretto a migrare. Eppure, approfondendo con i migranti la discussione, molti di loro alla fine parlano di un “cambiamento”, rispetto a quella che era stata la vita loro e della loro famiglia, delle condizioni stesse della vita lavorativa e non. Sicuramente la siccità, terribilmente in aumento, ha reso per molti migranti impossibile il lavoro nei campi o quello dell’allevamento di bestiame ma ci siamo convinti che bisogna considerare come “cambiamento climatico” una lunga lista di fattori come la guerra e le sue scorie belliche, l’inquinamento delle acque perpetrato dalle fabbriche spesso di multinazionali occidentali, i giacimenti petroliferi e minerari che vengono sfruttati indiscriminatamente, i rifiuti tossici provenienti dai “Paesi sviluppati”». Continua Costa: «Tutte queste cose si possono considerare “cambiamento climatico”? Secondo noi sì».
Non un punto d’arrivo, ma di inizio
Nonostante, dunque, i recenti passi in avanti nel riconoscimento del nesso causale tra guerre, cambiamento climatico e mobilità umana, i dispositivi di riconoscimento e protezione messi in campo dal Ministero dell’Interno italiano sembrerebbero ancora insufficienti, mettendo in risalto la mancanza di un’impostazione omnicomprensiva e strutturale. Come denota Valeria Capezio, volontaria legale dell’associazione Naga di Milano, attiva nell’integrazione e nell’assistenza a persone migranti dal 1987, «al Naga abbiamo avuto poca esperienza di richieste e rilasci di Pds per calamità naturale, soprattutto dalle ultime modifiche della ministra Lamorgese. Le modifiche sono ancora troppo recenti e tra le persone che abbiamo modo di incontrare non c’è nessuno che ne sappia o che ci chieda informazioni in merito. Tuttavia, quelle poche istanze di permesso di calamità naturale al Questore di Milano che ci sono state hanno avuto tutte come motivazione la pandemia e abbiamo avuto riscontri negativi. In particolare, nel 2021 la Questura di Milano ha risposto che la pandemia è un problema di livello globale e da contatti con l’Ambasciata – in particolare si trattava di cittadine del El Salvador – è stato confermato che il sistema sanitario sta riuscendo a gestire la situazione. Insomma, a loro parere il rischio sarebbe lo stesso restando in Italia».
La riduzione dell’intero fenomeno delle migrazioni legate al cambiamento climatico solo a diciture come “calamità naturale” appare, infatti, come un riconoscimento ancora troppo parziale del problema. Inoltre, la connotazione molto generica di queste ultime complicherebbe anche i presupposti per l’ottenimento, relegando il tema della compromissione ambientale strutturale dovuta all’azione umana sullo stesso piano di quelle che possono essere emergenze sì di origine naturale ma dovute a fenomeni umani di mala gestio contingenti, come le crisi sanitarie o i terremoti, e dunque facilmente contestabili dalle autorità. Secondo Capezio, «all’origine di questo permesso per calamità, c’è stata una scelta governativa sbagliata – intendo con il Decreto Legge Salvini – che ha abolito la protezione umanitaria, che in molti casi aveva coperto anche la questione ambientale, e introdotto singoli casi speciali, tra cui, comunque, quello per calamità naturale potrebbe, almeno nella nuova formulazione del Decreto Lamorgese con la convertibilità, aprire strade interessanti su questo tema».
Dunque, per quanto riguarda la vita reale dei migranti, il problema sembrerebbe essere soprattutto la consapevolezza sulle cause della sempre maggiore inospitalità dei luoghi di origine, come evidenzia Andrea Costa: «Nessun migrante – dei 95.000 transitati al presidio di Baobab Experience – ha mai fatto direttamente accenno all’essere “migrante climatico”. Però, molti sono a nostro avviso quelli che avrebbero avuto tutte le carte in regola per farlo. Probabilmente una campagna seria di informazione e denuncia delle tematiche riguardo il clima andrebbe fatta anche ai migranti stessi coinvolgendoli in una serie di progetti». L’evidenza dei dati raccolti dal Ministero dell’Interno dimostra che i primi passi fatti verso il riconoscimento dei migranti ambientali è stato necessario, ma non sufficiente. Un vero cambio di rotta potrà dirsi compiuto solo dopo un’audace e diretta azione politica volta ad affrontare prima di tutto il cambiamento climatico. Il nesso tra politica, tutele giuridiche e disastri naturali urge di essere esplicitato con il fine di garantire, a coloro che si muovono per calamità ambientali, la protezione umana che gli spetta da parte dagli stessi Paesi che hanno creato la ragione del loro spostamento.
Articolo di Gina Maria Marano, Giovanni Tucci, Federica Rossi e Aurora Grazioli