Superpendolari

04/04/2023

Aveva imparato a riconoscerli col tempo. Di solito era la sfumatura lattea del volto a tradirli. A volte, quando non era al telefono, scorgeva tra i sedili uno sguardo saltellante, mai fisso sullo stesso punto per più di qualche secondo. I suoi occhi venivano rapiti brevemente dal colore cinereo e perlescente delle loro occhiaie, che disegnavano un solco sui loro visi gonfi. Guardandoli, si vedeva riflessa in uno specchio difettoso: come se la stessa faccia fosse stata interpretata da pittori diversi. Le più frequenti erano donne di Kirchner, coi loro menti spigolosi e i capelli lisci e neri tagliati con le forbici da cucina. Sedevano tutte attorcigliate rimboccandosi la sciarpa a righe. Ogni tanto intravedeva da lontano qualche figura hopperiana, che nascondeva il volto appena abbozzato sotto un cappello, o volgeva lo sguardo altrove. Ma i più ricordavano i ritratti di Lucian Freud: facce di cartapesta tenute insieme alla bell’e meglio. Di solito la fissavano intensamente finché lei, imbarazzata, non distoglieva lo sguardo. Non era un esercizio recente, quello di identificare i propri simili sul treno che la portava al lavoro, ma nell’ultimo mese si era fatta più attenta, il suo gioco più investigativo.
A colpirla, quel lunedì, fu una figura baconiana. Non ne capitavano molte di quei tempi. L’uomo indossava un completo elegante color cammello sopra una camicia con un alone giallo sul colletto e, in tutta probabilità, anche sotto le ascelle. La sua attaccatura dei capelli sembrava battere in ritirata dopo una campagna infruttuosa, e l’ampia distesa della sua fronte era interrotta solo da un paio di folte sopracciglia scure, illuminate qua e là da fili argentati. Il collo tozzo sosteneva una struttura facciale indecifrabile, quasi mutevole. Più lo osservava, più perdeva la speranza che il suo volto acquisisse un senso. Lo scrutò a lungo, mentre apriva e richiudeva il giornale, accavallava le gambe, si aggiustava le calze. Quando le sembrò di averlo inquadrato, chiuse gli occhi. Ma i suoi lineamenti sfuggivano ancora alla sua memoria: gli occhi, il naso, la bocca si deformavano e scivolavano via non appena tentava di ricostruire quel volto nella propria mente.

Martedì lo rivide. Tra i pendolari della giornata, era il più interessante anche oggi. Stava guardando fuori dal finestrino mentre picchiettava le dita della mano destra sulla coscia. Non batté ciglio quando lei si sedette sul sedile di fronte a lui, con la scusa di cercare una presa funzionante per caricare il telefono. Come ogni giorno, da un mese a quella parte, lei aprì prima Instagram, poi Facebook, e compose lo stesso nome sulla barra di ricerca. Dai social passò alla sezione notizie di Google, dove ormai da un po’ non comparivano più nuovi articoli sull’argomento. Aveva seguito l’evolversi della vicenda della “bidella pendolare” con passione, ma ora sembrava che l’attenzione degli altri si fosse spostata altrove. La sua no: digitava quel nome quotidianamente, cercava il suo volto dipinto da Gauguin in Stazione Centrale; non l’aveva ancora trovata. Un colpo di tosse la distolse dallo schermo del telefono. Alzò lo sguardo e, per un attimo, le sembrò che il baconiano la stesse squadrando nonostante i suoi occhi rimanessero fissi sul paesaggio nebbioso che scorreva via come al cinema. Chissà da quanto tempo era in quella posizione. Strano, pensò, ieri era irrequieto, oggi invece sembra impassibile: il suo comportamento è ambiguo tanto quanto il suo volto. Al suo fianco c’era una donna elegante dalla chioma grigia, che aveva passato tutto il tragitto a leggere un libro mangiucchiando della frutta secca. Quando il treno si fermò, lei la vide armeggiare con il bagaglio nella cappelliera, visibilmente in difficoltà, e la aiutò a tirarlo giù. L’uomo era rimasto immobile, a gambe accavallate, ignorandole entrambe. La signora non aveva dato segno di curarsene, ma lei abbandonò la carrozza gettandogli un’occhiataccia. Che maleducato.

Il giorno seguente fu lui a sedersi accanto a lei. L’aveva notato, un paio di file più in là, e lui, in un unico movimento fluido – che lasciava intendere che avesse meno anni di quanti ne dimostrava – la raggiunse in un attimo.
«Io la conosco» esordì.
Lei aggrottò le sopracciglia.
«Conosce chi?» chiese, pur intuendo già la risposta.
La domanda rimase sospesa nell’aria. L’uomo sollevò gli angoli della bocca e distese le labbra, in quello che doveva essere un sorriso. I suoi occhi però continuavano a essere concentrati altrove, le iridi azzurro pallido rivolte verso qualcosa di impercettibile, forse troppo piccolo, forse così grande da eludere la vista di tutti gli altri.
«Vorrei incontrarla» disse.
Non voleva farle delle domande, chiederle se qualcuno le avesse offerto una casa a prezzo calmierato o se si stesse ancora districando nel mercato immobiliare meneghino. Le importava solo di vedere in che modo le lettere che componevano il suo nome si trasformassero in due occhi, una bocca, due gambe e due braccia palpabili. Doveva avere la prova che fosse un corpo comune, proprio come il suo, a percorrere 1600 km al giorno, a sedimentarsi sui sedili grigio scuro, a fare dell’alta velocità un’esperienza di atarassia. Solo così poteva continuare a pensare a lei quando suonava la sveglia, alle cinque e mezza, e a farsi forza sapendo che la superpendolare era già in piedi da più di un’ora; solo così poteva continuare ad aggrapparsi alla sua storia per vivere la propria.
Era quasi arrivata a destinazione. Il signore si mosse, cercando di catturare la sua attenzione: «Vedrò cosa posso fare. A domani», sibilò prima di scomparire nella moltitudine di volti pallidi che si riversavano febbrilmente fuori dal vagone.

Il giovedì era il giorno più faticoso. Stava contemplando il momento in cui avrebbe potuto fumare la sua sigaretta mattutina, gli occhi semichiusi, quando l’uomo baconiano le si materializzò accanto. Quel giorno indossava un completo di velluto verde abbinato a una camicia inamidata. Si era messo in tiro. Lei sperò con tutta sé stessa che non si rivelasse l’ennesimo viscido. Lui non aprì le gambe né le allungò una mano sulla coscia, e continuò a non guardarla negli occhi. Doveva essere timido.
«Domani a mezzogiorno», la informò.
«Ma io sono a scuola», replicò lei.
«Domani a mezzogiorno» ripeté l’uomo.
«Lei non deve andare al lavoro?», insisté, senza lasciar intendere se la domanda riguardasse il signore dagli occhi sfuggenti o la superpendolare. Silenzio.
«Va bene» cedette, «Ci vediamo in stazione alle undici?».
L’uomo mosse impercettibilmente la testa – lei lo interpretò come un segno d’assenso. Avrebbe chiamato al lavoro per avvisare che era malata. Era un’occasione che non poteva perdere: per un giorno avrebbe smesso di essere una donna di Kirchner per trasformarsi in un ritratto di Modigliani, il corpo filiforme ma non spigoloso, come una raffinata figura d’altri tempi. Scese dal treno così leggera che si dimenticò di passare dal tabaccaio.

L’orologio di Milano Centrale segnava le 7:21 da quasi mezz’ora. Si trovarono in stazione qualche minuto prima che tutti gli altri orologi battessero le undici e, senza proferire parola, si mossero insieme verso l’uscita. La città era meno affollata di come erano abituati a vederla, le vie sembravano distendersi al loro passaggio, anziché nascondersi e ritrarsi come al solito. Le vetrine cristalline dei negozi rimandavano un’immagine composta, una sorta di creatura ibrida con gli arti doppi. Non si parlavano perché avevano smesso di fingere: si capivano in modo istintivo, come se avessero una connessione che precedeva l’invenzione della parola. Passeggiarono l’uno a fianco all’altra nella distesa verde tenero dei Giardini Indro Montanelli, assorbendo il caldo tiepido del sole invernale. Avevano un sorriso lieve, sereno, i loro piedi non sembravano muoversi sul nastro trasportatore d’asfalto che li accompagnava a destinazione.
Il Duomo si stagliava imponente contro l’azzurro del cielo terso, le guglie allungate pronte a scattare verso l’alto e pugnalare le poche nuvole sovrastanti. Sovrastava la piazza e minacciava il cielo, asserendo l’autorità della città su tutto il resto. L’avrebbero incontrata lì di fronte. Incuranti dei piccioni che, infastiditi, zampettavano via al loro passaggio, accelerarono finché non scorsero una sagoma davanti al portone principale: doveva essere lei. Era perfettamente allineata con la Madonnina, anima dorata della città che, molti metri più in alto, vegliava anche su di loro. Si fecero largo tra la folla e sentirono una folata di vento caldo sulla pelle.
Le mancò il fiato per un attimo, come se la città avesse attinto dalle sue risorse di ossigeno. Cercò la sagoma con lo sguardo: era scomparsa, ma avrebbe giurato di averla vista salire in cielo con la coda dell’occhio. Si ritrovò a fissare la Madonnina, immobile e splendente. Poi si girò verso l’uomo, ma anche il suo corpo era svanito, dissolto nella folla. Tentò di rintracciare quei lineamenti inafferrabili nei volti altrui, nel naso occhialuto di una signora anziana, in un paio di labbra sottili e acerbe, nella stempiatura sulla testa di un uomo di mezza età; rimase a mani vuote. La donna lo sentì: la tela della sua vita si stava squarciando. E questa volta la fenditura non era netta come un taglio di Fontana, ma aveva i margini sfrangiati di una ferita aperta.
Si aggiustò la giacca verde, sospirò e si sedette per terra, in attesa. Le persone attorno a lei continuavano a muoversi, affaccendate, ma Milano non le era mai parsa così priva di vita. Una natura morta.

 

30 giorni
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Articolo di Aminata Sow