Perché legalizzare la cannabis può cambiare il volto dell’America

La legalizzazione della cannabis è una fermata cruciale nel cammino verso l’uguaglianza in USA

04/05/2021

Il 31 Marzo la stampa Usa dichiara ufficialmente legale l’uso della cannabis a scopo ricreativo anche nello stato di New York. Il disegno di legge, approvato dal Senato e dall’assemblea statale newyorkese, prevede la regolamentazione dell’uso di marijuana per i maggiori di 21 anni. La nuova legge depenalizza il possesso di cannabis fino a 85 grammi, o 24 grammi di prodotto concentrato. Sarà inoltre possibile coltivare fino a un massimo di 12 piante per abitazione. L’uso di marijuana diventa legale in tutti i luoghi, pubblici e non, in cui è consentito fumare tabacco.

Se l’uso personale è quindi stato sdoganato, i legislatori sono al lavoro per regolamentare anche le politiche di vendita al dettaglio. Entro il 2022, infatti, a New York potrebbero aprire i primi negozi per la vendita legale della sostanza.

La Marijuana Regulation and Taxation Act (Mrta), la nuova legge approvata, istituisce anche l’Ufficio per la gestione della cannabis (Ocm) e il Consiglio per il controllo della Cannabis, che si occuperanno di regolamentare l’industria della marijuana, inclusa la sua tassazione.

New York diventa così l’ennesimo Stato dell’Unione a percorrere il tracciato degli altri 14 che hanno già’ legalizzato l’uso della marijuana da parte degli adulti. ”This is a historic day.” scrive il governatore Andrew Cuomo sul suo account Twitter, poco dopo aver firmato il disegno di legge che ne sancisce l’entrata in vigore. 

Il rapporto di ”amore e odio” che unisce il territorio americano a questo tipo di droga leggera è lungo e tortuoso, caratterizzato da forti paradossi. Nel 2012 negli stati di Colorado e Washington si è tenuto un referendum per rendere il consumo di marijuana legale anche per scopi ricreativi. 

La decisione di legalizzare la cannabis è da allora ricaduta integralmente nelle mani dei singoli Stati mentre in generale il consumo di marijuana resta illegale a livello federale, creando non pochi inconvenienti.

Sono varie e molteplici le motivazioni che hanno spinto i diversi stati ad abbracciare la tesi antiproibizionista a favore della legalizzazione del consumo di marijuana. Come affermava anche Barack Obama la cannabis non è più pericolosa dell’alcol e, mentre non si ha la certezza che il narcotraffico sia del tutto riducibile tramite la politica di legalizzazione, i risvolti della cultura proibizionista sono di gran lunga peggiori, un esempio è la nascita del fenomeno del gangsterismo dedicato al contrabbando di sostanze vietate dallo Stato per la vendita e il consumo.

Si è visto come in America il processo di legalizzazione stia creando risorse, accrescendo il fatturato di circa 12 miliardi di dollari, oltre alla nascita di nuovi posti di lavoro. Le tasse che derivano dalla crescita del tasso di lavoro e dell’occupazione vengono devoluti in progetti sociali per i cittadini, nella scuola pubblica e per fare prevenzione contro l’uso di sostanze stupefacenti. 

Oltre ai citati vantaggi, stati come il Colorado stanziano ogni anno milioni di dollari di quelli che arrivano dalle tasse della cannabis per combattere il mercato nero. Lo smercio illegale rappresenta un rischio per la sicurezza e la salute pubblica e minano le operazioni lecite del mercato regolamentato. 

Secondo dati della polizia di frontiera americana citati da il Post già nel 2016, la legalizzazione ha avuto un impatto benefico sulle importazioni illegali di stupefacenti dal Messico, registrando i valori più bassi degli ultimi dieci anni.

Ovviamente i cartelli della droga si stanno adattando alla nuova realtà: i dati sui sequestri sembrerebbero indicare che con il calo dei profitti derivanti da marijuana i cartelli stiano convertendo la produzione su eroina e metanfetamine.

L’effetto ritenibile maggiormente benefico è che, come emerge da un rapporto del luglio 2013 della ‘’Open Society Foundations – Global Drug Policy Program’’, con la legalizzazione crolla per prima cosa il numero di arresti per reati minori legati alla droga. Nel 2005 ci sono stati 269 arresti per possesso di marijuana ogni 100.000 cittadini negli Usa, 206 nel Regno Unito, 225 in Francia e appena 19 nei Paesi Bassi.

I motivi politici e razziali dietro alla  “War on Drugs” e alla Mass Incarceration

È infatti l’incarcerazione a rappresentare l’aspetto più problematico della penalizzazione della droga leggera.

Sarà utile, per comprenderne la portata, gettare uno sguardo all’interno del sistema carcerario americano. La prigione, seguendo Michel Foucault, è lo specchio delle contraddizioni che permeano la struttura di una società, è allora lì che la nostra attenzione deve volgersi. 

L’America è il paese con il tasso di incarcerazione più elevato del mondo. Rappresentando meno del 5% della popolazione globale, le sue prigioni ospitano il 25% dei detenuti in tutto il mondo.

Secondo un recente rapporto delle Nazioni Unite, 1 prigioniero su 5 è dentro per reati legati alla droga, la maggior parte dei quali consistono nel semplice possesso. Ogni anno la polizia americana conta un totale di 1 milione di arresti sempre a causa di uso o spaccio di stupefacenti. Un problema impellente che tuttavia non è che l’anticamera di uno ancor più radicato. Tra le pullulanti mura carcerarie americani, infatti, emerge un’abissale sproporzione razziale, tale da rendere palese la stretta relazione che lega tale questione alla penalizzazione delle droghe. 

La popolazione nera negli Stati Uniti è pari al 13% dell’intera popolazione civile, all’interno delle carceri però la percentuale di neri detenuti per crimini di droga raggiunge il 40%. Lo stesso vale per i latini che rappresentano il 17% della popolazione complessiva, ma il 37% di quella carceraria. Secondo il Bureau Center of Statistics, la popolazione bianca in America è pari al 62% di quella complessiva, ma i rispettivi detenuti raggiungono il 30%, contro il restante composto da neri e latini. 

Dei dati che non reggono alla mera motivazione di un maggior utilizzo di stupefacenti, dal momento che si stima, come ha osservato uno studio del Human Rights Watch, che le persone di colore ne facciano uso in misura uguale, se non in alcuni casi minore, delle persone appartenenti ad altre etnie. 

Quali sono i motivi di un accanimento tanto evidente? Torniamo agli anni ‘70. 

Siamo negli anni che hanno visto l’emergere di fortissimi movimenti sociali e culturali di critica istituzionale. I giovani scendevano in piazza a protestare contro la carneficina civile e ambientale in atto in Vietnam. Solo cinque anni prima gli afroamericani, dopo anni di lotte, con il Civil Rights Act e il Voting Rights Act avevano finalmente conquistato i diritti civili e il diritto di voto, negatogli da quattro secoli di schiavismo e feroce discriminazione. La società americana, che avanzava durante la guerra fredda come simbolo della democrazia e della libertà, stava mostrando le sue lacerazioni più profonde. 

È in questo panorama che si inserisce la figura del presidente repubblicano Richard Nixon, che con il suo conservatorismo, avanzava sulla scena politica con la promessa di acquietare il marasma in cui versava il paese. Gli obiettivi critici della sua campagna finirono per essere inevitabilmente gli “hippies” e i neri, considerati causa del disordine sociale. Si trattava però ora di trovare uno strumento che fosse efficace a livello pratico, ma nascosto nella sua invettiva mirata: la “war on drugs”. 

I suoi ordini prevedevano l’immediata incarcerazione di chiunque avesse fatto uso o fosse stato trovato in possesso di stupefacenti. 

I risultati furono immediati. Dal successivo governo Reagan la popolazione carceraria raddoppiò in 8 anni. A parità di reati il numero di neri imprigionati era 4 volte quello dei bianchi. Così la war on drugs si profilava, a scapito del suo intento proclamato, come un efficientissimo strumento di controllo razziale e sociale, oltre che come l’inizio di quella che viene non a caso definita “Incarcerazione di massa”. Una realtà confermata dalle parole dello stesso ex consigliere di Nixon in politica interna, quando ha ammesso che la strategia era quella di associare gli hippies e i neri alla marijuana o alla cocaina, così da facilitarne la progressiva esclusione sociale. 

A 50 anni dalla sua proclamazione, la guerra alle droghe ha prodotto  2,2 milioni di detenuti, circa metà dei quali sono dentro per uso o spaccio di droghe leggere, creando un sistema punitivo dagli effetti sproporzionati rispetto ai motivi dell’incarcerazione. Come conferma l’associazione americana, Brennan Center for justice, la war on drugs ha fallito su tutti i fronti, scavando nella già abissale disuguaglianza sociale ed economica, reduce da un passato schiavistico senza pari. Dopo l’incarcerazione infatti, sempre secondo il Brennan Center, si assiste a una diminuzione del 52% del proprio stipendio annuo, allo stesso modo ai pregiudizi ai cui già un nero deve far fronte si aggiunge il peso di una fedina penale irrimediabilmente compromessa. 

Se etnia e povertà sono gli obiettivi privilegiati del tentacolo della giustizia penale, l’incarcerazione non fa che rendere ancora più drastica la situazione precedente, finendo per essere più una fonte di immobilismo sociale, che una soluzione a problemi reali. Aumentando così l’emarginazione della comunità nera, a fronte di un tasso di incarcerazione sproporzionato rispetto a quello dei bianchi, se ne vedono diminuiti ancora più sensibilmente gli orizzonti di vita percorribili. In molti casi è la strada del crimine e dell’illegalità quella privilegiata. 

Non fa che perpetuarsi così un girone infernale, le cui possibilità di uscita rasentano l’impossibile. In questo senso la legalizzazione della cannabis ne offre una prima apertura. Molti senatori democratici, a tal proposito, si sono espressi in modo deciso alla legalizzazione della sostanza, per permettere la fine di una guerra che più che alle droghe è stata una guerra alle persone, soprattutto di colore. 

L’impatto della “War on Drugs” sul diritto di voto

Le devastanti conseguenze di una penalizzazione così capillare delle droghe leggere rappresentano un temibile nemico di uno dei cardini di ogni sistema democratico, il diritto di voto. L’incarcerazione di massa viene infatti considerata una modalità di voter suppression negli Stati Uniti per il fatto che la persona perde il proprio diritto di voto durante (e a volte anche dopo) il carcere. Questo fenomeno prende il nome di disenfranchisement.

Solo due (piccoli) stati, ossia il Maine e il Vermont (lo stato di Bernie Sanders), permettono ai condannati di votare anche mentre scontano la sentenza, in prigione o in libertà vigilata. Gli altri stati tolgono il diritto di voto a tutti i carcerati, ma se un gruppo (in cui troviamo la California, New York, l’Ohio e altri 17 stati) restituisce questo diritto una volta che il condannato esce di prigione, anche se è ancora in libertà vigilata, un altro gruppo (di cui fanno parte Georgia, Texas, Louisiana, e altri 16 stati) non glielo rende fino a che l’intera pena non è stata scontata, impedendo di votare anche chi è agli arresti domiciliari o in libertà vigilata. 

Ogni stato ha una legislazione diversa: ad esempio, il Kentucky richiede che sia il singolo ad attivarsi e a richiedere le pratiche per riguadagnare il proprio diritto, così da diventare idoneo per il processo di registrazione al voto che tutti i cittadini statunitensi devono seguire ogni volta che vogliono votare. Nello stato della Virginia, prima del 16 Marzo 2021, si perdeva permanentemente il diritto di voto se si era condannati per un reato. Quest’anno, un ordine esecutivo del governatore democratico Ralph Northam ha cambiato la legge in modo che il diritto venga riacquistato dal condannato una volta uscito di prigione. Questo ordine è stato un grande passo avanti per la Virginia, poiché i numeri delle persone impossibilitate a votare era particolarmente alto: nel 2018, il governatore Terry McAuliffe, usò il suo potere esecutivo per ripristinare il diritto di voto di circa 140.000 persone con precedenti penali nello stato.

Il problema del disenfranchisement è molto legato alle disparità razziali nel paese: secondo l’organizzazione The Sentencing Problem, che dal 1986 lavora per scarcerare e ridurre il ricorso all’incarcerazione e per affrontare le disparità razziali nel sistema di giustizia penale, tale politica attualmente preclude a uno su sei uomini afroamericani la possibilità di registrarsi per votare.

A tutto questo si aggiunge anche il fatto che, nel 2019, erano 612.000 (di cui circa 120.000 per reati di droga) le persone che si trovavano in prigione in attesa di processo (su un totale di circa 2.3 milioni). Queste persone, per la maggior parte, rimangono nelle carceri locali perché non hanno i soldi per pagare la cauzione, e 7 su 10 appartengono alla minoranza nera o ispanica. Chiunque si trovi in prigione in attesa di processo, nonostante sia innocente fino a prova contraria (e il 76% alla fine lo è), non può di fatto registrarsi per votare, né andare a votare se è viene arrestato dopo la registrazione. 

La depenalizzazione, o la legalizzazione tout court, dell’utilizzo della cannabis non rappresenta quindi solo la de-stigmatizzazione di un atto che, specialmente negli USA, è stato criminalizzato per motivazioni politico-razziali e rappresenta oggi uno dei principali motivi di incarcerazione, ma è una sentenza che contribuisce in modo sostanziale al progresso economico, politico e sociale degli Stati Uniti. Questa decisione non rappresenta quindi solo un primo passo per la risoluzione della delicata questione carceraria americana, ma anche un forte strumento di riequilibrio sociale e razziale. Si tratta di una sentenza che aprirebbe le porte al raggiungimento sostanziale delle libertà democratiche ad una parte di popolazione che da quei diritti è stata sistematicamente esclusa e con cui la società americana si trova ora costretta a fare i conti. 

Articolo di Lucrezia Santa Maria, Ginevra Falciani e Elena Capezzone