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Perché leggere i classici. No, non è l’ennesimo articolo su Calvino, tranquilli.
Pistolotto onanistico semiserio sulla produzione culturale con un retrogusto di verità
Ok ho mentito, lo ammetto. Calvino c’è, ma non adesso e non per troppo, giuro!
In effetti quella su Calvino non è l’unica menzogna, ma se avrò fatto il mio dovere forse riuscirò a convincervi che non c’è niente di male nel mentire, almeno in ambito culturale. Attenzione però ad avvalersi di questa attenuante, perché per farlo vi toccherebbe poi capire cosa sia questo ambito culturale e, più in generale, la cultura e in quel caso beh… buona fortuna. Ad oggi personalmente mi sono imbattuto in una sola definizione che restituisce un po’ il senso di questa “parolaccia” ed è di un certo Umberto Eco, almeno credo, ma in fondo non è importante: “cultura è sapere dove andare a cercare un’informazione quell’unica volta nella vita che ci servirà, e in due minuti”. Sto divagando, ma non troppo, visto che una delle due “menzogne” del titolo (4 parole, 2 false) riguarda un altro termine estremamente vago e mutevole: i classici. Infatti, con buona pace delle 14 definizioni di Calvino di cui non parleremo adesso, è ancora troppo presto, l’aggettivo “classico” è oltremodo vago, scivoloso, connotato, per poter essere usato serenamente in riferimento alle opere in oggetto. Ecco smascherata l’ultima bugia, che tuttavia è poco più di un’imprecisione, ho detto opere e non libri poiché non tutta la produzione culturale a cui faremo riferimento si può propriamente leggere.
Ai primi di marzo, ormai quasi due mesi fa, durante la prima riunione telematica della sezione di cultura di Scomodo, di cui ho l’onore e l’onere di essere responsabile assieme a Jacopo Andrea Panno, un redattore fa una proposta che era evidentemente nell’aria: “visto quello che sta succedendo perché non facciamo un confronto con La Peste di Camus?” – “Bello” – “Bellissimo” – “però secondo me anche Saramago…” – “Perché Manzoni?!” – il tutto ovviamente con il disagio di un gruppo che ha imparato a usare una conference room digitale venti minuti prima. Prevedibile quando metti insieme un gruppo di ragazzi in età da liceo e università con la perversione di scrivere di cultura. Troppi redattori, troppo vasto l’argomento, tutti concordi nel rimandare al mese successivo, magari dedicandogli l’intera sezione e nel frattempo tutti a recuperare imprescindibili sul tema, i loro “classici”. All’appuntamento successivo è cambiato qualcosa però, il tempo ha portato consapevolezza, riflessioni e soprattutto dubbi: “ok abbiamo un sacco di roba, ma che ci facciamo?”.
Ed eccoci, finalmente, arrivati al nocciolo del problema, che senso ha parlare di opere realizzate da persone ormai morte (non tutte in realtà) che parlano di un evento sì simile ma diverso? Ma soprattutto, in caso come farlo senza sembrare l’ennesimo elenchino accattivante di cose a tema COVID-19 che invadono la rete?
Innanzitutto è interessante notare come l’istinto ci abbia portato a reagire in controtendenza rispetto alla percezione diffusa, che presenta questa pandemia come un accadimento nuovo, inimmaginabile, senza precedenti, individuando immediatamente decine di quei precedenti negati. Sorta di risposta immunitaria della mente a quell’opacità dell’immediato di cui parlava Althusser, in cui, in assenza di un discorso, si cade vittime della retorica paralizzante del “mai visto niente di simile”. Questo discorso altro non è che la Storia, che grazie al tempo ci permette di posizionarci a una distanza dall’evento tale da poterlo esaminare. Già Aristotele aveva individuato nella Storia la capacità di organizzare gli accadimenti in un discorso intelligibile, tuttavia nella Poetica, in opposizione a Platone, attribuiva questa potenzialità a tutte le storie eliminando la distinzione tra la “vera storia” e le “storie di finzione”. Infatti queste ultime sono da intendersi come un gioco di sapere che si esercita in un spazio-tempo determinato: fingere non significa produrre illusioni, bensì elaborare strutture di intelligibilità. L’estrema conseguenza di questo ragionamento è che il reale stesso, per essere raccontato, debba essere reso finzione.
“L’immaginazione al potere!” gridavano quei sessantottini che adesso, se gli è andata bene,si stanno godendo la pensione, se gli è andata male fanno gli opinionisti a TikiTaka.
Tuttavia le obiezioni e i dubbi successivi sull’utilità e l’impiego della finzione sono figli proprio di questa necessaria distanza,una sensazione perfettamente sintetizzata da Lowenthal: “La storia è un Paese straniero, un luogo da visitare sapendo quanto è diverso dal nostro”.
Una sintesi tra questi due visioni può venire da quella che il filosofo francese Jacques Rancière, un altro sessantottino, ma questo invecchiato decisamente meglio, chiama in un suo celebre testo: Le Partage du sensible (La Partizione del sensibile).
Chiamo partizione (partage) del sensibile quel sistema di evidenze sensibili che rendono contemporaneamente visibile l’esistenza di qualcosa di comune e le divisioni che, su tale comune, definiscono dei posti e delle rispettive parti. Una partizione del sensibile fissa dunque allo stesso tempo un comune condiviso e delle parti esclusive.
In quest’ottica il nostro approccio all’epidemia – questo articolo si sarebbe dovuto chiamare proprio Le Partage de l’ épidémie, ma onestamente non lo avrei cliccato nemmeno io un titolo del genere – tiene conto sia dell’unicità che della comunità di questo topos.
Ok, diciamo quindi che vi ho convinto che abbia senso usare storie vecchie, spesso inventate, per parlare di attualità, ma come farlo? Qual è il sistema di intelligibilità che le racchiude, la particolare storia di queste storie, che la redazione di Scomodo ha deciso di raccontare? Ovviamente la nostra.
Ci siamo rivolti a pensatori e artisti, come spesso facciamo quando siamo in difficoltà, a loro chiediamo un aiuto per orientarci nelle temperie che affrontiamo. Ma per far sì che questo supporto fosse più proficuo dell’aprire a caso il grande libro delle risposte di Gigi Marzullo, o andare alla pagina dell’oroscopo e arrivati al proprio segno pensare: “cavolo, sono proprio io”, ci siamo dovuti porre delle domande più specifiche. Ci siamo interrogati su quali tematiche ci sentissimo più insicuri e quali al tempo stesso, pur sembrando “normali”, ci suscitavano come un prurito, una strana sensazione di irrequietezza…
“Un rabbino ha detto che il COVID-19 è la punizione per i gay”(notizia poi rivelatasi falsa) – “Trump dà la colpa ai cinesi” – “Tutti accusano tutti, ma perché deve essere colpa di qualcuno?” – Bingo! Ecco la nostra prima area tematica: la Colpa.
“Avete visto il Papa sotto la pioggia?” – “Alle 18 tutti a seguire il bollettino” – “Salvini prega dalla D’Urso” – ma che è sta roba? Liturgia.
“Facciamo in fretta che dopo ho un aperitivo su Skype” – “Ao, sto a scapoccià” – “Mi manca la mia ragazza” – Intimità.
“Un amico mio l’hanno licenziato il giorno dopo il decreto” – “La Germania non ci dà le mascherine” – “La sanità è al collasso” – “Tutta colpa del capitalismo” – La società è la malattia.
“Siamo in guerra” – “Niente sarà più come prima” – “Ma dopo che facciamo?” – Rovine.
Cinque sezioni, cinque spazi in cui far confrontare i nostri classici, senza un ordine, una gerarchia, una cronologia. Sì, è un po’ una furbata “postmoderna”, altro termine che fa il paio con cultura e classico, ma se c’è una cosa che ci piace in questa postmodernità è l’assenza di arroganza, queste opere non danno risposte, tantomeno ne vogliamo dare noi. Vogliamo dubbi, spunti riflessioni che ognuno possa rubare, formando la propria visione, la propria storia, da questo mosaico paratattico. Insomma, vorrete fare qualcosa pure voi!
14. “È classico ciò che persiste come rumore di fondo anche là dove l’attualità più incompatibile fa da padrona”.
E alla fine arriva Italo. La quattordicesima è l’ultima definizione che Calvino dà di cosa sia un classico, citarla all’inizio mi avrebbe facilitato di gran lunga il compito, una frase per dire quello per cui a me ne sono servite centinaia (Leggerezza, Rapidità, Esattezza, non a caso sono tre delle sue Lezioni americane) però uno dovrà pure provare a emanciparsi ogni tanto.
Insomma quello che segue è l’elenco del nostro rumore di fondo, sistemato in una libreria con 5 scaffali, 20+1 opere attraverso le quali 17 redattori della sezione di cultura di Scomodo hanno voluto affrontare il topos dell’epidemia:
Colpa
- Bibbia
- Edipo re – Sofocle
- Trionfo della morte – Brugel
- San Rocco risana gli appestati – Tintoretto
-
De rerum naturae – Lucrezio - La peste – Camus
Liturgia
- Salus populi romani
- Todo modo – Petri
- V per Vendetta – Moore
- Ubik – Dick
Intimità
- Morte a Venezia – Mann
- La fanciulla malata – Munch
- Ma gli androidi sognano pecore elettriche? – Dick
- Diceria dell’untore – Bufalino
- La peste – Camus
- Settimo sigillo – Bergman
La società è la malattia
- Storie – Tucidide
- Cecità – Saramago
- Todo modo – Petri
- Untitled(Hujar Dead) – Wojnarowicz
- The Crazies/La città verrà distrutta all’alba – Romero
- Decameron – Boccaccio
Rovine
- I promessi Sposi
- Tutti gli altri
I vecchi titoli sono stati decimati ma i nuovi sono moltiplicati proliferando in tutte le letterature e le culture moderne. Non resta che inventarci ognuno una biblioteca ideale dei nostri classici.
Articolo di Luca Giordani