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Pesticidi al Lavoro: la favola dei DPI in agricoltura
#PesticidiAlLavoro è un’inchiesta collaborativa sulle conseguenze sanitarie per gli agricoltori che impiegano i pesticidi. L’inchiesta è coordinata da Investigative Reporting Denmark e Le Monde. Partecipano Tygodnik Powszechny (Polonia), Ostro (Croazia e Slovenia), De Groene Amsterdammer (Olanda), Ippen Investigativ (Germania), TV2 (Danimarca), Marcos Garcia Rey (Spagna) e The Midwest Center for Investigative Reporting dagli Stati Uniti. In Italia, Scomodo è in partnership con IrpiMedia. Puoi leggere questo articolo anche in inglese.
Le prime evidenze scientifiche sono emerse circa vent’anni fa: tumori, linfomi e malattie neurodegenerative possono essere provocati dall’esposizione a fungicidi, insetticidi, erbicidi e a tutti gli altri prodotti chimici che si spargono sui terreni agricoli. Per proteggersi dai composti tossici, gli agricoltori devono indossare durante l’utilizzo mascherine, guanti, tute. Non è però semplice capire se riescono sempre a farlo, né se lo fanno nel modo corretto. Una parte della comunità scientifica pensa che non siano nemmeno sufficienti a difenderli dall’insorgere delle malattie.
A fare le spese di questa ambiguità sono milioni di persone. Il settore agricolo produce l’1,3% del Prodotto interno lordo dell’Unione Europea, conta 10 milioni di aziende e 22 milioni di addetti.
L’impatto dei pesticidi, un fenomeno invisibile
Nel 13esimo arrondissement di Parigi, nel sud della città, esiste una zona chiamata “les Olympiades”. I palazzi lì non sono i classici edifici dai tetti blu. Sono delle altissime torri da cui, agli ultimi piani, si vede tutta la città. In una di queste si trova la sede dell’Inserm, l’Istituto nazionale della sanità e della ricerca medica, una delle principali istituzioni pubbliche francesi che si occupa di salute pubblica. Questo è uno dei pochi istituti scientifici in Europa ad aver condotto studi completi sulle conseguenze dei pesticidi sulla salute degli agricoltori.
L’ultima ricerca risale a giugno 2021 e si basa sulla revisione di 5.300 documenti. «Considerando gli studi che riguardano figure professionali che manipolano o sono a contatto frequente con pesticidi» – si legge nel documento – «e che sono a priori i più esposti, gli esperti confermano la forte presunzione di un legame tra esposizione a pesticidi e sei patologie: linfoma non Hodgkin (NHL), mieloma multiplo, cancro alla prostata, morbo di Parkinson, disturbi cognitivi, nonché alcuni disturbi del sistema respiratorio (broncopneumopatia cronica ostruttiva e bronchite cronica)».
In Italia non esistono indagini del genere. Ma anche se non è facile trovare dati chiari sull’utilizzo dei fitofarmaci e sul loro effetto sulla salute degli agricoltori, qualche indizio arriva dai monitoraggi dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) sulle tracce di pesticidi in acqua. «In Italia si usano 114.000 tonnellate l’anno di pesticidi, che rappresentano circa 400 sostanze diverse», si legge in un rapporto presentato al Parlamento a dicembre 2021. Più avanti: «Nel 2019 le concentrazioni misurate di pesticidi hanno superato i limiti previsti dalle normative nel 25% dei siti di monitoraggio per le acque superficiali e nel 5% di quelli per le acque sotterranee». Il dato è ancora più significativo alla luce del fatto che «la contaminazione rilevata è ancora sottostimata, a causa delle difficoltà tecniche e metodologiche, anche se negli anni l’efficacia del monitoraggio sta migliorando in relazione alla copertura territoriale, al numero di campioni analizzati e alle sostanze cercate».
Ispra non è l’unico istituto a sollevare problemi di sottostima dei dati. L’Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro gli Infortuni sul Lavoro (Inail) è l’unico ente europeo che, insieme al corrispettivo francese, ammette patologie come il morbo di Parkinson quali malattie professionali legate all’uso di prodotti chimici in agricoltura. Nonostante questo, l’istituto ha finora raccolto dati molto bassi. Tra il 2016 e il 2020, solamente 20 agricoltori hanno denunciato all’Inail il morbo di Parkinson e patologie simili come possibile malattia professionale. Di questi, solo dieci casi sono stati effettivamente accertati come tali. È evidente che si tratti di numeri irrisori per un Paese in cui i lavoratori agricoli – stagionali e non – oscillano intorno ai 900 mila secondo i dati Eurostat (a questi vanno poi aggiunti i lavoratori in nero, ovviamente non considerati in queste stime). Nelle tabelle dell’Inail il morbo di Parkinson compare addirittura dal 2008, ma a parte un caso nel 2005, gli altri riconoscimenti della malattia occupazionale, per quanto è stato possibile dimostrare, si sono verificati tra il 2014 e il 2015
L’uso di pesticidi in Europa
Raffronto tra la media europea (Ue27), l’Italia e i Paesi membri sull’utilizzo di pesticidi per ettaro su terreno coltivabile dal 1990 al 2019 [Valori in Kg/ha].
L’Inail è consapevole di questa probabile sottostima nei numeri delle denunce. Tra i documenti di un seminario dell’Istituto nel 2016 si trova uno studio condotto sempre dall’Inail sul legame tra Parkinson e lavoratori agricoli. Nella conclusione si legge che «a una ipotizzata prevalenza di sindromi parkinsoniane in soggetti residenti in aree rurali ed agricole, non corrisponde ancora un adeguato andamento di richieste ad Inail di riconoscimento come malattia professionale».
In Francia esiste un’associazione delle vittime di prodotti fitosanitari, fondata nel 2011. Tra il 2012 e il 2020 Phyto-Victimes, questo il nome dell’associazione, ha raccolto richieste di aiuto di oltre 540 lavoratori agricoli che temono di essersi ammalati per l’esposizione ai pesticidi. Si tratta per di più di uomini nati tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta. Inoltre il morbo di Parkinson è stato inserito tra le malattie professionali, come in Italia. Nel 2012 i dati dell’Inrs – il corrispettivo francese dell’Inail – mostrano che tra i 2012 e il 2017 sono stati riconosciuti 221 casi di malattia occupazionali: numeri che, per quanto non altissimi, sono molto più grandi di quelli italiani (al ritmo attuale, l’Inail impiegherebbe 110 anni per arrivare allo stesso numero di casi approvati). Eppure secondo i dati Eurostat, l’Italia ha circa 900 mila lavoratori agricoli mentre la Francia 700 mila. In Olanda, l’associazione nazionale di malati di Parkinson ha aperto una linea telefonica destinata a chi lavora nei campi e ha ricevuto circa 130 segnalazioni in un anno. Anche in Italia il Comitato Italiano Associazioni Parkinson si sta muovendo per colmare il vuoto dei dati, chiedendo informazioni ai suoi iscritti, partendo proprio da un censimento preciso delle persone con Parkinson, tuttora non presente, per poi avanzare lungo la strada di supporto e indennizzo a lavoratori e lavoratrici.
Il Parkinson in agricoltura
Numero di casi di disturbi del sistema nervoso (Morbo di Parkinson e simili) denunciati e accertati in Italia come malattie professionali in agricoltura
I numeri particolarmente bassi dell’Italia però non sono un unicum. A parte le eccezioni già citate, dal resto dei Paesi europei emerge una disattenzione radicata nei confronti di questo fenomeno. In Polonia – dove il comparto agricolo conta 2,3 milioni di addetti – l’ultimo cancro sviluppato sul posto di lavoro, stando ai dati ufficiali, risale a oltre dieci anni fa. Non ci sono mai state intossicazioni da agenti chimici e gli unici infortuni costantemente riconosciuti sono per i morsi delle zecche, che rappresentano l’80% delle compensazioni complessive.
In Germania alcuni documenti governativi ottenuti dai colleghi tedeschi di #PesticidesAtWork dimostrano che l’agenzia che dipende dal ministero del Lavoro e che delibera in materia di malattie occupazionale, discute da oltre dodici anni se inserire o meno il morbo di Parkinson tra le malattie provocate dai pesticidi. Senza questa decisione, per ottenere un indennizzo i lavoratori tedeschi devono andare in tribunale. Dal 2010 sono stati 61 i lavoratori agricoli tedeschi che si sono registrati con SVLFG, un'associazione specializzata che si occupa di assicurazioni, per ottenere il riconoscimento del Parkinson come malattia occupazionale. Nessuno ci è ancora riuscito. In Danimarca il sindacato 3F, specializzato sui lavori agricoli, dichiara di non aver mai sentito di insorgenze di malattie legate all’impiego di pesticidi. In Svezia, dove gli indennizzi riconosciuti per malattie occupazionali nel 2020 sono stati circa 35mila, quelli legati all’impiego dei pesticidi sono stati tre negli ultimi cinque anni. Tutto questo si spiega anche attraverso la normativa che regola uno dei fattori fondamentali nell’utilizzo dei pesticidi: i dispositivi di protezione individuale.
«Ciò sarà anche vero in teoria; in pratica però è falso»
Per mitigare il rischio ambientale e sanitario, sia per chi abita vicino ai campi coltivati, sia per i lavoratori, a livello europeo la normativa prevede regole molto stringenti in merito alle modalità d’impiego dei pesticidi. L’Efsa, l’agenzia europea che si occupa della sicurezza alimentare, rivede insieme alla Commissione e agli Stati membri quali fitosanitari introdurre nel mercato e in quali condizioni. Per i lavoratori che trattano i pesticidi, è obbligatorio impiegare dispositivi di protezione individuale (Dpi): tute, maschere con filtri per la respirazione, guanti, occhiali, stivali, cabine di trattori con speciali sistemi di ventilazione. In teoria, si dovrebbe conseguire un patentino per utilizzarli, si dovrebbero acquistare solo da rivenditori autorizzati, si dovrebbe disporre di una documentazione specifica da esibire in caso di controlli, si dovrebbero disporre gli spargimenti solo in alcune finestre temporali. In pratica, specialmente in Italia, c’è un fiorente mercato nero dove circolano anche prodotti teoricamente vietati. I prodotti si acquistano facilmente online e i controlli, troppo pochi, non riescono a combattere efficacemente l’incuria nella gestione dei materiali, per quanto tossici.
«Il problema fondamentale è l’utilizzo dei dispositivi di protezione» commenta Carlo Antellini, agronomo che si occupa di fare formazione agli agricoltori. Come conferma a Scomodo Tina Balì, Segretaria di Flai Cgil nazionale, all'organizzazione sindacale non risulta che la maggior parte dei lavoratori utilizzino Dpi durante i trattamenti fitosanitari. Al di fuori delle serre, i fitofarmaci vengono sparsi da marzo a ottobre-novembre, un periodo per di più caldo. Quando si indossano certi dispositivi che hanno la caratteristica di essere completamente impermeabili «diventa impossibile starci dentro», ragiona Antellini. Lo confermano gli agricoltori tedeschi, spagnoli, polacchi, francesi, sloveni e croati: i dispositivi di protezione individuale spesso non vengono utilizzati. «Poi molti li riciclano, mentre io puntualizzo e consiglio sempre di farne monouso», aggiunge. In Polonia, se un agricoltore viene scoperto senza Dpi rischia di perdere la pensione. Motivo per cui le denunce nel Paese sono tanto basse: il rischio è che la responsabilità della malattia ricada sullo stesso malato, che però è inadempiente perché non indossa dei presidi sanitari che secondo gli stessi addetti ai lavori spesse volte sono inutilizzabili.
Questo dato di fatto, sottaciuto per anni, è stato corroborato dallo studio Pestexpo – Pesticides exposure. Cominciato vent’anni fa tra la Normandia e la regione di Bordeaux, lo studio si pone l’obiettivo di osservare sul campo, nel corso del tempo, gli effetti dell’uso dei pesticidi sugli agricoltori. È stato il primo studio che ha verificato la reale esposizione ai pesticidi degli agricoltori attraverso un’osservazione delle loro attività, comparandole con i livelli di esposizione ipotizzati dai modelli matematici utilizzati per l’approvazione dei prodotti fitosanitari. Come hanno spiegato ai colleghi che hanno lavorato a questa inchiesta, i ricercatori si sono subito accorti della differenza tra la teoria e la pratica.
Pierre Lebailly, uno dei coordinatori del progetto, ricorda un episodio che l’ha colpito. «Quel tipo aveva una laurea in ingegneria agraria e metteva le mani nude nel serbatoio dei pesticidi» spiega, parlando di un lavoratore agricolo sulla trentina, in Normandia. Al di là del caso singolo, le regole sui Dpi richiedono un livello di attenzione paragonabile solo ai laboratori. Lo sottolinea Isabelle Baldi, anche lei coinvolta nella ricerca. «La gente lavora in pantaloncini e maglietta. Forse non è una "buona pratica agricola", ma è la vita reale» dice Baldi. Secondo lei, le regole prevedono che gli agricoltori si comportino «come i chirurghi che hanno entrambe le mani alzate in modo che qualcuno dietro di loro possa mettere i guanti, e poi soprattutto che non toccano assolutamente nulla. È così che si fa in un'unità chirurgica, quindi deve essere fatto così anche in una fattoria».
Secondo il sociologo francese Jean-Noël Jouzel, ricercatore al Centro nazionale francese per la ricerca scientifica (Cnrs) il concetto di “uso sicuro” dei dispositivi di protezione, tanto caro ai regolatori del settore, è un’invenzione. «In teoria, tutti i pesticidi vengono piazzati sul mercato con l’idea che, se utilizzati secondo le indicazioni scritte sull’etichetta, non causeranno alcun effetto indesiderato» – spiega il ricercatore – «Ma nella realtà le cose non funzionano come è scritto sull’etichetta».
Uscire allo scoperto
Isabelle Baldi e Pierre Garrigou, suo collaboratore nel progetto Pestexpo, nel 2007 hanno pubblicato una “note d’alerte” rivolta a diverse istituzioni francesi. Secondo i risultati dello studio, i viticoltori che indossano le tute protettive durante «le fasi di trattamento e di pulizia», cioè quando preparano e applicano i prodotti fitosanitari e quando puliscono le tute dai residui di pesticidi, «sono complessivamente più esposti alla contaminazione di chi non le indossa» rispettivamente di due e tre volte. Per quanto possa sembrare una conclusione molto controintuitiva, è stata confermata anche da uno studio del 2017 condotto su dei lavoratori agricoli in California. I motivi sono diversi e i primi due sono legati da un lato al riutilizzo di dei Dpi che non sempre è pulito nel modo corretto dalle tracce di agenti chimici, dall’altro al fatto che il getto d’acqua sparato sulla superficie della tuta può defluire verso l’interno, insieme alle tracce di agenti chimici. A questo si aggiunge un terzo elemento: la composizione chimica dei pesticidi permette loro di penetrare qualunque cellula. Il polivinilcloruro (pvc) di cui sono fatti certi grembiuli, per esempio, è perfettamente impermeabile all’acqua, ma non al filtraggio dei pesticidi.
L’Agenzia francese per la sicurezza sanitaria dell’ambiente e del lavoro (Affset) nel gennaio 2010 ha condotto un suo studio per verificare indipendentemente l’efficacia protettiva delle tute. «L’indossare un indumento non garantisce da solo la protezione dei lavoratori», si legge nelle conclusioni. «L’impiego di indumenti protettivi non deve quindi intervenire in sostituzione, ma a completamento di una protezione collettiva e di un’organizzazione del lavoro adeguata», prosegue il rapporto. Da ultimo, il rapporto accenna a quello che ancora non si conosce: «L'adeguatezza (delle performance, ndr) delle tute immesse sul mercato alle sostanze o miscele di sostanze utilizzate in condizioni reali rimane una questione essenziale poiché i prodotti testati sulle tute e indicati sul manuale di istruzioni differiscono dai prodotti utilizzati nel settore, così come poiché le condizioni di laboratorio non riflettono le condizioni reali».
Se in Francia almeno c’è stata una presa di posizione, nel resto d’Europa non è successo nulla. Dopo dieci anni dall’uscita dello studio dell’agenzia ministeriale francese, un gruppo di ricercatori, tra cui Baldi e Garrigou, hanno ripreso i risultati delle loro ricerche sui dispositivi di protezione individuale in un paper dal titolo «Revisione critica del ruolo dei Dpi nella prevenzione della rischi legati all'uso di pesticidi in agricoltura», pubblicato sul giornale scientifico Safety Science nel 2019. «Alcuni prodotti pericolosi – scrivono i ricercatori – hanno ricevuto la licenza (per la commercializzazione, ndr) solo perché si dà per assodato che l’impiego di Dpi limiti considerevolmente l’esposizione». Concludono che «senza questa presupposta protezione, sarebbero vietati». I Dpi allora avrebbero principalmente il ruolo di parafulmine: permettono allo stesso tempo sia ai produttori, sia alle istituzioni, di evitare qualsiasi presa di responsabilità nei confronti della salute dei lavoratori agricoli.
CropLife Europe, lobby che rappresenta a livello europeo i produttori dei fitosanitari e aziende del biotech, ha risposto con una lettera a Le Monde, testata che ha coordinato il progetto #PesticidesAtWork. L’organizzazione ha accusato i ricercatori di aver preso «una posizione emotiva», priva di base scientifica, e di essere «esagerati nella migliore delle ipotesi, fuorvianti nella peggiore». CropLife Europe ha negato l’intervista al giornale ma ha fornito alcune dichiarazioni scritte: «Non abbiamo ritenuto che presentasse una visione equilibrata», si legge. La ricerca «ha esagerato i rischi per la salute per gli operatori e enfatizzato eccessivamente l’importanza assegnata in fase di autorizzazione (dei pesticidi, ndr) ai fattori di protezione».
Lo stesso Istituto Superiore di Sanità italiano però riconosce che l’agricoltura è il settore lavorativo i cui addetti corrono il più alto rischio di sviluppare il morbo di Parkinson. Proprio a causa dell’esposizione ai pesticidi. Se anche quindi si volessero rifiutare i risultati degli studi sul reale grado di protezione fornito dai Dpi, è evidente che le regole imposte sul loro utilizzo da parte dei lavoratori sono molto lontane dalla realtà. Tutto questo permette ai produttori e alle istituzioni di ritenere i lavoratori agricoli responsabili delle proprie malattie sviluppate in ambito professionale. Jean-Noël Jouzel ha detto ai nostri colleghi che «le malattie professionali sono dei crimini senza colpevole». Allo stato attuale, il rischio è che ad essere considerati colpevoli siano le stesse vittime.
- Stéphane Horel (Le Monde)
- Marcos Garcia Rey
- Eva Achinger (BR),
- Daniel Drepper (Ippen Investigativ)
- Katrin Langhans (Ippen Investigativ)
- Staffan Dahllöf
- NIls Mulvad (Investigative reporting Denmark)
- Krzysztof Story (Tygodnik Powszechny)
- Ante Pavić (Oštro Croazia)
- Matej Zwitter (Oštro Slovenia)
- Rasit Elibol (De Groene Amsterdammer)
- Katharine Quarmby
- Gaia Buono, Nicolò Benassi (Scomodo)
- IrpiMedia (Italia)
- Le Monde (Francia)
- Ippen Investigativ (Germania)
- BR (Germania)
- Investigative reporting Denmark (Danimarca)
- Oštro (Slovenia/Croazia)
- Tygodnik Powszechny (Polonia)
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