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Alcuni utenti sono più uguali degli altri
Anche i capi di stato devono sottostare alle regole dei social se vogliono continuare a fare politica online
Con l’inizio del 2021 si è aperta una nuova fase nel dibattito sull'(ab)uso dei social media da parte di personaggi politici e sulla necessità di una regolamentazione e moderazione dei contenuti e dei profili presenti su queste piattaforme. A catalizzare la discussione sono stati due episodi molto significativi, avvenuti a distanza di pochi giorni e in contesti diametralmente opposti: il caso dell’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump e quello del presidente/dittatore ugandese Yoweri Museveni. Il ban a tempo indeterminato dell’ex presidente americano da tutti i social media, in seguito ad alcuni suoi tweets che legittimavano e incoraggiavano i disordini avvenuti il 6 gennaio a Capitol Hill, ha riscosso una forte attenzione mediatica in tutto il mondo. Nonostante l’uso sconsiderato che Trump aveva fatto in passato di Twitter, lanciando messaggi altrettanto violenti e pericolosi di quelli del 6 gennaio, le aziende della Silicon Valley non erano mai arrivate a prendere provvedimenti così drastici, creando un precedente problematico.
Illibertà digitale
Per quanto riguarda il contesto ugandese invece, il 9 gennaio Facebook aveva rimosso alcuni fake accounts pro-Museveni legati alla sua campagna elettorale, con l’accusa di manipolare il dibattito pubblico in vista delle elezioni. È stato il presidente tuttavia ad avere l’ultima parola vietando Facebook all’interno del paese a tempo indeterminato dopo averlo accusato di “arroganza” e imparzialità. In Uganda, la repressione dell’opposizione politica e i tentativi di censura dei social media non sono una novità per il regime di Museveni. Le personalità problematiche di Trump e Museveni hanno contribuito a generare confusione fra l’opinione pubblica circa la legittimità delle azioni intraprese contro di loro da parte delle aziende, riportando l’attenzione internazionale su un tema controverso: è giusto che i Capi di Governo abbiano la possibilità di comunicare direttamente col loro elettorato sulle piattaforme social? Un uso imprudente di questi canali d’informazione può mettere in pericolo i principi democratici di uno stato? In che modo l’uso massiccio di queste piattaforme, soprattutto nelle campagne elettorali, influenza le scelte degli elettori?
L’uso dei social media da parte delle istituzioni ha sicuramente cambiato in maniera radicale l’approccio comunicativo fra politici ed elettori: i canali di divulgazione sono diventati più diretti ed economici; i politici possono condividere in tempo reale sui loro profili personali punti della loro agenda politica, ma anche attimi di quotidianità, mostrandosi nel loro lato più umano e aumentando così l’empatia e la connessione con i propri elettori. Se da un lato questo avvicinamento, l’accessibilità, la rapidità di diffusione delle notizie e l’abbattimento dei costi legati alle campagne elettorali portano con sé un grande potenziale democratico per la politica del futuro, è stato notato come questi cambiamenti comportino anche degli aspetti negativi. In un saggio di Ronald Deibert (The Road to Digital Unfreedom: Three Painful Truths about Social Media) sul Journal of Democracy, viene analizzato il ruolo dei social media nell’ avvantaggiare le strategie di comunicazione delle fazioni più estremiste ed autoritarie e nel minacciare in generale i sistemi democratici. I social media stanno sempre più diventando canali d’informazione, ma la qualità e l’attendibilità delle informazioni condivise viene spesso messa in discussione.
Secondo Zack Beauchamp (in Social media is rotting democracy from within), l’uso che i politici fanno dei social media si può dividere in uso e abuso: mentre il primo costituisce una semplice estensione online di una campagna elettorale e politica, l’abuso rappresenta un pericolo per i sistemi democratici e consiste nella consapevole distribuzione di disinformazione e nell’uso di un linguaggio aggressivo e spesso offensivo, un approccio che le fazioni più moderate sono meno propense a utilizzare. Alcuni leader dell’estrema destra di tutto il mondo, come il presidente filippino Rodrigo Duterte e quello brasiliano Jair Bolsonaro, solo per citarne un paio, hanno fatto loro la strategia di sfruttare le potenzialità delle piattaforme social per diffondere deliberatamente fake news, difficili da controllare o smentire una volta messe in circolazione, messaggi violenti e insulti contro gli avversari politici. Durante la sua campagna elettorale nel 2018, Bolsonaro si era servito soprattutto di Whatsapp come social per creare centinaia di gruppi in cui condivideva materiale razzista, sessista e discriminatorio, sfruttando e acutizzando le divisioni sociali e l’odio razziale nei confronti di alcune minoranze etniche a proprio vantaggio.
Questo è solo uno degli esempi della tanto discussa possibile dannosità dell’utilizzo dei social, di cui Trump è stato il focus mediatico dell’ultimo quinquennio. Su questo tema si sono espressi, tra gli altri, il giornalista americano Farhad Manjioo in un articolo sul New York Times e alcuni esponenti politici come la cancelliera Angela Merkel e il politico dell’opposizione russa Alexei Navalny, tutti in diretta conseguenza della sospensione del profilo Twitter di Trump il 6 gennaio 2021 e con una visione abbastanza contrastante delle possibili soluzioni a questo problema.
Possiamo fare a meno dei politici?
Durante i quattro anni della presidenza di Donald Trump, plurime sono state le violazioni alla “netiquette”, termine che fonde il termine inglese “network” (rete) e quello francese “étiquette” (buona educazione) e che indica le regole informali che gli utenti sono tenuti a seguire sul web. Quello che però accade a un qualsiasi utente privato che trasgredisce a queste “regole non scritte” è completamente diverso da quello che accade solitamente a un esponente politico, soprattutto quando il suo elettorato medio è complottista e anti-sistema. Le fake news, ad esempio, invece di generare disapprovazione da parte degli altri utenti della Rete, creano una cerchia di persone convinte (ed esortate a convincersi) di essere gli unici detentori della reale verità delle cose. La conseguenza non è quindi l’isolamento dell’utente-truffatore, ma la sua idolatria.
È per questa, e altre ragioni, che il redattore del NYT Manjoo ha sostenuto l’idea secondo cui «I capi di stato non dovrebbero essere autorizzati a twittare» e che «La persona più potente nel contesto più influente del mondo non dovrebbe pubblicare brandelli di pensiero istintivo da 280 caratteri scritti sul momento, senza una revisione, su una piattaforma privata». L’idea del giornalista americano è che il social, in quanto le sue caratteristiche costitutive non lo consentono, non può essere uno strumento di comunicazione valido per un capo di stato. Partendo dalla sua riflessione, possiamo trovare motivazioni valide che rendono problematico l’uso dei social per questi soggetti: mancanza di una revisione dello scritto, ambiguità sulla possibilità di considerare un tweet una comunicazione ufficiale oppure no, mancanza di un pubblico competente in grado di confrontarsi sulla veridicità o meno di ciò che è appena stato detto. O il semplice fatto che gli interessati dispongono di efficienti apparati di comunicazione e uffici stampa e non hanno la necessità di usare Twitter o Facebook come mezzo di comunicazione. Nonostante queste criticità, negare la possibilità a un esponente politico di comunicare attraverso i social significa tagliare una grossa fetta di mezzi di comunicazione per scopi politici. In Italia, ad esempio, ISTAT ha pubblicato i dati secondo cui nel 2019 quasi il 20% delle persone che si informano di politica tramite Internet lo fa attraverso i social, con un calo di -10% per la stampa online dal 2014. Oltre il 65% degli adulti con più di 44 anni usa i canali tradizionali dell’informazione politica anche sul web mentre più del 70% dei giovani di 14-24 anni sceglie social network e blog per la propria informazione. Lavorare affinché capi di stato o politici non possano sfruttare i social come mezzi di comunicazione, significherebbe tagliare fuori dalla fruizione dell’informazione una grande fetta di popolazione.
Distante quindi dalla tesi sostenuta dal redattore del NYT, si è espressa la cancelliera Angela Merkel, il cui portavoce ha dichiarato che la politica considera il ban del profilo di Trump «problematico», aggiungendo che «Il diritto alla libertà di opinione è di fondamentale importanza». Zimmermann, membro della commissione per l’agenda digitale del parlamento tedesco, ha affermato che è un problema quando l’amministratore delegato di un’azienda, impedisce a un leader statale di raggiungere milioni di persone. È quindi proprio la libertà di espressione politica che viene menzionata anche dal dissidente politico russo Alexei Navalny, il quale pensa che l’azione di Twitter sia stato un «atto di censura inaccettabile» e che «abbiamo visto molti esempi, in Russia e in Cina, di società private che diventano le migliori amiche dello Stato e le facilitatrici quando si parla di censura». L’intervento di Twitter sembra quindi essere violento, e rischioso per la libertà di espressione. Gli account dei capi di stato svolgono un ruolo sociale completamente differente da un account di un singolo individuo senza valenza politica, e questo cambia anche le regole con cui l’azienda dovrebbe intervenire sulle sue parole.
Il giornalista e vicedirettore del Post, Francesco Costa, sostiene che se una società privata ha il diritto, o per alcuni il dovere, di censurare pensieri che un capo di stato esprime attraverso una piattaforma social, ha conseguentemente il diritto, o il dovere, di decidere su quello che arriverà all’orecchio dell’elettore. Per il giornalista, come per alcuni politici di stati democratici come la Germania, è molto rischioso tarpare le parole di un capo di stato facendo in modo che queste non rientrino nel dibattito pubblico diventando in questo modo oggetto di consenso o disprezzo del politico stesso. Qualsiasi cosa un capo di stato dica o scriva, a prescindere che questo contrasti con i termini e le condizioni di un’azienda privata, è di interesse pubblico ed è doveroso che un elettore possa accedervi liberamente.
I capi di stato dovranno quindi fare i conti, e già li stanno facendo, con la limitazione della loro libertà di espressione anche su piattaforme come Twitter e Facebook, che fino a questo momento sembravano essere grandi piazze con forti megafoni e poche regole.
Articolo di Cecilia Pellizzari e Federica Tosi