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Cosa resterà del cemento armato?
La tragica storia del crollo e della ricostruzione del ponte sul Polcevera nascondono una storia fondamentale per il futuro delle infrastrutture italiane: quella del materiale più utilizzato per la loro costruzione
Il 20 aprile si è tenuta la cerimonia in occasione del posizionamento dell’ultima campata del nuovo ponte sul Polcevera a Genova, alla presenza del presidente Conte. Il tutto ha avuto luogo un paio di settimane dopo la notizia del crollo di un ponte tra La Spezia e Massa Carrara, che per fortuna non ha causato morti, ma solo feriti non gravi.
Il completamento della nuova imponente opera, avvenuto in tempi notevoli, e il nuovo crollo hanno riportato alla ribalta le considerazioni riguardo allo stato in cui versano le infrastrutture italiane, trovando spazio anche tra gli aggiornamenti inerenti alla pandemia. Al centro del dibattito restano le terribili condizioni di ponti e viadotti italiani, spesso risultato della scarsa manutenzione: basti pensare alla quantità di fotografie scattate a pilastri di viadotti o ponti erosi a tal punto da mostrare la gabbia di ferro interno al cemento. E proprio il cemento armato, il materiale con cui queste opere sono state costruite, e la sua durabilità risultano centrali in questo discorso. Dopo il crollo del ponte Morandi nel 2018, si è molto discusso sull’utilizzo di tale materiale e sulla sua “data di scadenza”. Per utilizzare termini più tecnici, si parla di durabilità del cemento armato, ovvero l’arco temporale durante il quale il materiale si mantiene in una condizione tale da permettergli di svolgere la sua funzione adeguatamente.
Profilo tecnico
Per comprendere meglio la questione, è utile dare qualche coordinata tecnica riguardo al cemento armato: si tratta di un materiale composto da due elementi, ovvero una gabbia in acciaio (detta “armatura”), interna, e il calcestruzzo, una miscela di acqua, cemento e ghiaia o sabbia (i cosiddetti “inerti”). L’insieme dei due elementi rende il cemento armato particolarmente adatto per la costruzione di grandi opere, come ponti e gallerie, in quanto capace di sopportare sia forze di reazione che di trazione, ma il suo utilizzo in Italia è andato ben oltre.
L’invenzione del cemento armato risale a metà Ottocento e la sua versatilità ne ha favorito la diffusione, fino a renderlo il materiale simbolo dell’urbanizzazione del ventesimo secolo.
In Italia comincia ad essere utilizzato nei primi anni del Novecento, ma la sua affermazione si ha con gli stili architettonici che caratterizzarono gli anni tra i due conflitti mondiali: il razionalismo e il purismo, trasposizione anche delle idee politiche e sociali di quei decenni, trovano nel cemento armato il loro perfetto mezzo di espressione. Il punto di massimo, e spesso sregolato, utilizzo viene però raggiunto tra gli anni ’50 e ’60 per la costruzione di case, edifici, ponti e viadotti. Sono gli anni del grande boom edilizio in cui anche la rete autostradale vede il suo maggiore sviluppo e a cui risale anche il ponte Morandi (1957), il cui crollo fa sorgere inevitabili dubbi sull’effettiva durabilità di tutte le opere coetanee.
Dal punto di vista tecnico, la durabilità di un materiale dipende in parte dalla durabilità endogena degli elementi che lo compongono e in parte da fattori esterni e circostanze ambientali (“elementi esogeni”) che ne possono compromettere l’integrità. Nel caso del cemento armato l’elemento cruciale è il calcestruzzo e in particolare la sua composizione: negli anni si è prestata sempre più attenzione al rapporto acqua/cemento, fino a definire un dato fisso, e alla scelta degli inerti più appropriati da utilizzare, al fine di limitare quanto più possibile il fenomeno dello sfarinamento, ovvero la progressiva erosione del calcestruzzo e la conseguente esposizione dell’armatura interna in acciaio. Questo avviene con tempistiche diverse non solo in base alla composizione del materiale, ma anche all’ambiente in cui si trova la costruzione, visto che gli agenti atmosferici sono determinanti: ad esempio, un ponte in cemento armato costruito vicino al mare sarà più soggetto a sfarinamento a causa del sale presente nell’acqua marina.
Lo stato attuale
La rete autostradale italiana presenta moltissimi esempi di questo fenomeno, come testimoniamo tutte le foto apparse sui giornali ed online in seguito alla disgrazia di Genova e che ritraggono piloni e strutture con armature di ferro a vista. Tra queste opere, alcune risalgono agli anni ‘30, ma la maggior parte sono riconducibili al periodo del boom edilizio, appunto tra gli anni ‘50 e ’60. Allora gli studi sulla durabilità del calcestruzzo erano ancora limitati e la relativa novità di impiego del materiale non permetteva di avere sufficiente evidenza storica per studiare i suoi comportamenti.
I primi studi per migliorarne la prestazione hanno avuto inizio solo intorno al 1960: fino ad allora, la tecnica con cui veniva realizzato era ancora pressoché la stessa utilizzata negli anni ‘20. Tuttavia, mentre il materiale da costruzione non era cambiato, l’innovazione correva su altri fronti e nel frattempo si era diffuso l’utilizzo di agenti chimici in moltissimi contesti. Basti pensare allo spargimento su strade e autostrade di reagenti per evitare la formazione del ghiaccio, che oltre a svolgere la loro funzione aggrediscono inevitabilmente il calcestruzzo. Il risultato fu che negli anni ‘80 si resero necessarie importanti opere di manutenzione in seguito a “grandi sfarinamenti” (ovvero situazioni di considerevole erosione) di molte opere in cemento armato, riproponendo ancora una volta la tematica della durabilità dei materiali utilizzati.
Le grandi innovazioni tecniche in questo campo arrivarono negli anni ‘80 e furono poi rispecchiate a livello legislativo dalla norma tecnica europea EN 206 del 2001 che per la prima volta introdusse il requisito della durabilità per le grandi opere. Per una costruzione come il Ponte Morandi ad oggi sarebbe richiesta una vita minima di 100 anni. Questi sono tuttavia i requisiti in vigore dal 2001 e raggiungibili grazie agli sviluppi tecnici realizzati in gran parte dagli anni 80 ad oggi. Considerando che la nostra rete autostradale è stata in gran parte costruita diversi anni prima di tali innovazioni, stimare la sua durabilità complessiva o per lo meno la sua vita residua risulta piuttosto complicato. Prendendo sempre d’esempio il ponte Morandi, la cui costruzione si è conclusa nel 1957, esso avrebbe avuto sessant’ anni nel 2017. Sebbene il suo crollo non sia dovuto allo stato di erosione del cemento armato, ma al deterioramento di uno dei cavi in acciaio, è inevitabile chiedersi quanti anni sarebbe potuto ancora durare; considerando la durabilità del cemento armato di oggi, sarebbe stato al 60% della sua vita utile, mentre è estremamente difficile stabilire quanto ammonta tale percentuale in riferimento alla durabilità dei materiali utilizzati negli anni ‘80.
Consapevolezza ed attenzione
Per la costruzione del nuovo ponte sul Polcevera è stato impiegato ancora una volta il cemento armato, sebbene le innovazioni tecnologiche lo rendano un materiale molto diverso da quello utilizzato per il ponte originario. Ed oltre ai reagenti chimici che vengono utilizzati nel calcestruzzo per ridurne il deterioramento, sono stati introdotti molti controlli aggiunti per testare e monitorare la durabilità delle nuove opere. La struttura del nuovo ponte a Genova è costituita da pezzi prefabbricati, ovvero fatti in fabbrica e assemblati poi sul posto: questa modalità di costruzione ha il vantaggio di rispettare standard di qualità della materia più alti e di essere in teoria più duratura. Ma ha ancora senso affidarsi ad un materiale che sappiamo avere una scadenza ben precisa?
Purtroppo, le alternative sono limitate e variano a seconda del contesto; per quanto riguarda ponti e infrastrutture, il ferro resta l’altra opzione principale, scelta soprattutto in Francia, ma anche in questo caso è richiesta una manutenzione continua per evitare il precoce deterioramento della materia. Per alcuni utilizzi, inoltre, il cemento armato ha delle specifiche tecniche che lo rendono difficilmente sostituibile. Basti pensare ai ponti su cui corrono i treni dell’alta velocità o ai tetti delle gallerie della metropolitana. In entrambi i casi le proprietà isolanti del cemento sono fondamentali per garantire il passaggio dell’elettricità senza creare problemi (che invece si verificherebbero ad esempio con ponti in ferro).
L’innegabile stato di degrado di ponti, case ed edifici costruiti con la tecnica del cemento armato e risalenti per di più agli anni ‘50 e ‘60 del ventesimo secolo sono per lo più da imputare alla sregolata speculazione edilizia, che ha permesso la costruzione di intere parti di città senza un piano regolatore e senza regole precise che ne garantissero la sicurezza. A questo elemento si è aggiunta una scarsa manutenzione, che dovrebbe invece essere prevista per garantire il corretto funzionamento delle opere e la sicurezza dei loro utilizzatori. L’insieme delle due cose ha portato in molti casi a situazioni di emergenza o a vere e proprie tragedie, per le quali è difficile incolpare le tecniche costruttive di sessant’anni fa ma è anche necessario riconoscerne i limiti. La consapevolezza che un materiale non sia eterno deve evidenziare la necessità di costante manutenzione delle opere già esistenti e un’attenta pianificazione del suo utilizzo e quindi dello sviluppo urbano, evitando la speculazione edilizia, che non danneggia soltanto il territorio ma alla lunga può avere un impatto molto più diretto anche sulla vita delle persone.
Articolo di Chiara Lettieri