Per accessibilità si intende la capacità di fornire informazioni fruibili a tutti, inclusi coloro che a causa di disabilità necessitano di tecnologie assistive o configurazioni particolari. Abbattere le barriere alla fruizione dei contenuti è il primo passo per permettere a più persone di partecipare e contribuire al cambiamento.
Per questo noi di Scomodo stiamo cercando di inserire strumenti che favoriscano la lettura e la navigazione del nostro sito a quanti più utenti possibile.
Cosa stiamo facendo? Stiamo cercando di migliorare sempre di più l’accessibilità delle informazioni e delle interazioni anche per chi ha necessità particolari: come ad esempio chi può navigare solo con la tastiera, oppure chi ha difetti della vista o disturbi del neurosviluppo che riguardano la capacità di leggere.
Un menu laterale, sempre visibile, ti permette di modificare la visualizzazione della pagina in modo da facilitare la navigazione a seconda delle tue esigenze:
Hai trovato difficoltà? Puoi scrivere a tancredi@leggiscomodo.com.
Il tuo aiuto ci fornirà ulteriori spunti per migliorare l’accessibilità del nostro sito.
Chiudi
Ponte Morandi: tutti sapevano
L’inchiesta della procura di Genova fa emergere nuovi preoccupanti dettagli e il destino della revoca della concessione è sempre più incerto
Percorrere la carreggiata di un ponte o di un viadotto è un’azione normalissima, che centinaia e centinaia di persone compiono tutti i giorni. Quando il 14 agosto di tre anni fa il Ponte Morandi di Genova crollò improvvisamente, portandosi via 43 vite, tutta l’Italia si fermò, travolta dal dolore e dalle domande. Oltre 500 persone furono costrette ad abbandonare le loro case, un’intera comunità si trovò sconvolta senza nessuno a cui dare la colpa. Il viadotto Polcevera scavalcava i quartieri di Sampierdarena e Cornigliano di Genova, collegando il tratto autostradale che dalla Liguria arriva in Francia meridionale. Costruito alla fine degli anni ’60 su progetto dell’ingegnere Riccardo Morandi, il collasso della pila 9 che causò il crollo dell’intera struttura sollevò non pochi interrogativi da parte dell’opinione pubblica. Il ministro delle infrastrutture del governo Conte I, Danilo Toninelli, identificò come priorità la sua ricostruzione. In un suo intervento alla Camera, il 4 settembre 2018, Toninelli escludeva la possibilità di lasciare ad Autostrade per l’Italia la ricostruzione del ponte, la società concessionaria responsabile della manutenzione e dei controlli, posizione condivisa da tutto il Governo. Mossi dalla volontà di stabilizzare il prima possibile la precaria situazione in cui versavano gli sfollati, a metà novembre venne approvato in senato il Decreto Genova, che prevedeva lo stanziamento di un totale di 650 milioni di euro, la nomina di un commissario per l’emergenza, il sindaco di Genova Marco Bucci (i cui compiti concernevano la rimozione e smaltimento dei detriti e la gestione della ricostruzione), e la partecipazione esclusivamente monetaria di ASPI alla ricostruzione. Dei 25 progetti valutati, fu selezionato quello di Renzo Piano, che richiedeva 202 milioni per la realizzazione del nuovo ponte e 19 milioni per la demolizione del precedente, e venne formato il gruppo Per Genova, composto da Fincantieri, ItalFerr e Salini Impregilo (attuale WeBuild). Autostrade pagò l’intera cifra richiesta, che comprendeva indennizzi agli sfollati, demolizione e ricostruzione. Il 28 giugno venne ultimata la demolizione, e, a tempi di record, a ottobre 2019 il ponte progettato da Renzo Piano venne completato. Nonostante le polemiche che accompagnarono inevitabilmente la ricostruzione del ponte e la sua messa a norma, il viadotto venne ricostruito, e vennero pagati gli indennizzi a più di 260 famiglie sfollate, 60 affittuari e 200 proprietari residenti.
Controlli e manutenzione trascurati hanno causato il crollo
Nonostante la pandemia da Covid-19 abbia preso il sopravvento nelle questioni politiche, le inchieste sulle possibili cause del crollo non si sono fermate, poiché ancora alimentate dal fuoco di giustizia che dal 2018 tiene accesa una luce su Genova e i suoi abitanti. Venne quindi iniziata un’inchiesta da parte della procura di Genova, che vedeva indagate più di 70 persone e le due società direttamente coinvolte, Autostrade per l’Italia e Spea (società del gruppo Atlantia che effettuava i controlli). L’inchiesta prevedeva due incidenti probatori: il primo, iniziato ad ottobre 2018, serviva a determinare le condizioni del ponte prima del crollo, con la perizia di tre esperti. Tiranti corrosi, riduzione delle sezioni resistenti almeno del 75%, impalcato con diverse fessurazioni; queste le condizioni del ponte Morandi prima del crollo riportate nella relazione dei tre periti. Inoltre, nel report viene sottolineato come gli ultimi interventi di manutenzione fossero stati effettuati non meno di venticinque anni prima. ASPI, riferendosi ad analisi condotte dall’Università di Pisa e da un laboratorio di Zurigo, risponde che la percentuale di riduzione degli stralli era tale da garantire comunque la tenuta complessiva del ponte. I vertici di Autostrade associarono infatti le cause del crollo al peso del tir che, al momento del collasso, si trovava a percorrere il ponte. Ma è il secondo incidente probatorio, richiesto dal gip di Genova Angela Nutini, iniziato solo il primo febbraio scorso, a far emergere dettagli ancora più gravi. La relazione, curata da quattro ingegneri, è di quasi 500 pagine, densa di dettagli sullo stato di degrado e abbandono del ponte in tutte le sue parti. Già negli anni ’80, danni al calcestruzzo, distacchi a causa dell’ossidazione del metallo e infiltrazioni di umidità, avevano costretto ad eseguire degli interventi di manutenzione, conclusi nel 1993. Paradossale il fatto che gli stessi danni siano stati riscontrati quasi in modo analogo, durante il primo incidente probatorio. Infatti, i periti aggiungono, se i lavori deliberati nel 2017 per risolvere queste problematiche fossero stati eseguiti correttamente, il ponte avrebbe avuto meno probabilità di crollare. Per rendere la situazione di completo abbandono del ponte attraverso i numeri, il report ha posto l’attenzione sui 464 trefoli, ovvero i cavi di sostegno che componevano il ponte, di cui solo 5 non erano corrosi.
Con la chiusura delle indagini, sappiamo che la stessa ASPI aveva inserito il ponte nel catalogo rischi 2013, dichiarando: “rischio di crollo del viadotto Polcevera per ritardati interventi di manutenzione.”
Le intercettazioni che incastrano i vertici di ASPI
È quindi più che certo che a causare il collasso del pilone 9 sia stata la corrosione dei cavi dello strallo, associato a decenni di incurie. Le analisi distruggono senza ombra di dubbio la tesi di Aspi, che cercava di nascondersi dietro un tir eccessivamente pesante.La responsabilità del disastro ricade inevitabilmente su Autostrade, anche grazie alle intercettazioni della Guardia di Finanza. In un servizio del TG La7, vengono mostrate le trascrizioni di telefonate tra i vertici di Aspi che riportano frasi a dir poco inquietanti. In una telefonata fra Paolo Berti, ex direttore centrale operazioni di ASPI, e Michele Donferri Mitelli, ex capo nazionale della manutenzione di Autostrade, avvenuta alla vigilia di Natale del 2018, Berti ammette ridendo che i viadotti autostradali venivano controllati una volta l’anno. Continua a ridere, mentre dice a Donferri Mitelli che sa benissimo della legge la quale prevede quattro controlli l’anno sui viadotti autostradali, e aggiunge:
Berti: “c’è una legge che li prevede quattro volte […] ma abbiamo iniziato ad applicarla dopo il (crollo del) ponte”
Ed è sempre Paolo Berti a dire di essere perfettamente consapevole delle lesioni visibili ad occhio nudo sui tiranti del ponte, tanto da esclamare:
B: “Ma io non so… cosa mandavano… io ripeto, per me mandavano i ciechi! Mandavano i ciechi a fare ispezioni questi! I ciechi!”
Tuttavia, anche gli addetti ai lavori hanno fornito preziose testimonianze sulle metodologie di lavoro, dato che erano costretti ad effettuare lavori di manutenzione sui viadotti e sui ponti della nostra penisola in piena notte, per non fermare la circolazione di giorno, ma ciò causava grandi difficoltà nell’esecuzione dei controlli, come si capisce dalle parole di un tecnico durante una telefonata con un altro collega:
A: “[…] Noi abbiamo sempre lavorato come c’han sempre detto di lavorare… ovvero alla cazzo, perché se vai a vedere un ponte di giorno… […] ci sei andato di giorno? Eh, ci siam mai andati di giorno?! No… perché non han chiuso prima?! Per il traffico… e beh?! Chiudi! Tre ore chiudi e ci vai… […] Cioè vai a vedere un ponte di notte?! Perché di notte?! Chiudi e lo vai a vedere di giorno! E deve servire quello che deve servire il tempo… non vai di notte con le lampade. […]”
Spea svolgeva le attività di ispezione con modalità non conformi alla normativa, come le ispezioni visive, effettuate dal basso con cannocchiali e binocoli.
Depositato agli atti della procura di Genova, c’è anche un video girato all’1:20 di notte del 21 ottobre 2015 dalle telecamere dei tecnici di Spea, la società del gruppo Atlantia incaricata di svolgere i controlli sulle strade italiane. Il video, trasmesso in esclusiva su la7 e su Rai1, mostra il carotaggio della pila 9, proprio quella responsabile del collasso del Morandi, ed è lampante lo stato in cui versano i trefoli interni: completamente marci e divorati dalla ruggine, ed è lo stesso manager della famiglia Benetton Gianni Mion a confessare il motivo di tale degrado, durante una telefonata intercettata dalla Guardia di Finanza:
Mion: “Si ma però poi il vero grande problema è che le manutenzioni le abbiamo fatte in calare, più passava il tempo, meno facevamo…”
Lo stesso Mion dice, tra le righe, che tutto questo è causato da un calo considerevole delle spese per la manutenzione che, dopo la chiusura dell’inchiesta, sappiamo essere scesi del 98%.
Per complicare ulteriormente la posizione di Autostrade, le intercettazioni spostano l’attenzione su un altro imbarazzante capitolo della vicenda Benetton: la falsificazione dei report, che vede protagonisti Michele Donferri Mitelli e Gianni Marrone, direttore dell’VIII tronco di Bari. Donferri spinge, infatti, a far abbassare i voti nei report dei lavori (il cui massimo è 70, valore che obbliga alla chiusura del tratto autostradale)
Donferri: “Ma che sono tutti questi 50? Me li dovette toglie tutti. Adesso li riscrivete e fate Pescara a 40…perché ti ho detto il danno d’immagine è un problema di governance.”
Marrone: “La realtà dei voti la so…che è sottostimata…la so, ma non lo so da adesso, la so da parecchio.”
Queste sono solo alcune delle testimonianze agli atti della procura che il 22 aprile ha posto la parole fine all’inchiesta durata quasi tre anni, con un atto d’accusa di quasi 2000 pagine. Tra i 69 indagati, l’ex amministratore delegato Giovanni Castellucci, Paolo Berti e Michele Donferri Mitelli. Grava sulle loro spalle l’accusa di immobilismo e indifferenza, a fronte dei ripetuti segnali d’allarme che descrivevano il ponte a rischio crollo con assoluta certezza.
Il problema della revoca della concessione
Già ad ottobre 2018 comparivano sul settimanale L’Espresso i nomi di altri due ponti crollati nello stesso periodo del Morandi, in Sardegna e in Calabria, denunciando la sempre crescente pericolosità di mettersi in viaggio sulle strade italiane. Lo stesso segnale arriva da un’inchiesta del Corriere della Sera di Milena Gabanelli e Ferruccio Pinotti, stilando un elenco di incidenti avvenuti nelle più variegate situazioni, causate non sempre da pure casualità. Il crollo del ponte Morandi nel 2018 fu l’ultimo di una lunga serie di crolli, sotto gli occhi dell’indifferenza. Come ha confermato lo stesso Paolo Berti, i controlli e i lavori di manutenzione sulle strade e autostrade del Bel Paese, sono stati indetti da Autostrade solo dopo il crollo del Morandi, e tutt’ora non è raro sentire di tratti autostradali interrotti per importanti lavori di manutenzione, bloccando la circolazione del traffico per lungo periodo su ponti e viadotti contemporaneamente, in molte provincie della penisola come Palermo e Roma. Sorge spontanea una domanda: era necessario aspettare che una tragedia come quella del Ponte Morandi uccidesse 43 persone per iniziare a effettuare la manutenzione delle nostre strade? La tragedia che scosse la città di Genova e l’intera penisola nel 2018 provocò non poche reazioni da parte della politica, tanto un mese dopo, l’allora presidente del consiglio Giuseppe Conte annunciò davanti ai volti disorientanti e affranti dei cittadini di Genova, la volontà di revocare la concessione autostradale al gruppo Atlantia, la holding di proprietà della famiglia Benetton. La maggioranza del primo governo Conte si trovò divisa su questo fronte, il Movimento 5 Stelle fece della revoca un suo cavallo di battaglia, Italia Viva spingeva per un acquisizione societaria da parte dello stato, il Pd non escludeva di far rimanere la concessione nelle mani dei Benetton, con alcune condizioni come il pagamento di un indennizzo allo stato, la Lega, dopo un lungo silenzio, si allineò all’asse dei pro revoca. Il sistema delle concessioni autostradali affonda le sue radici negli anni ’50 del secolo scorso quando l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) istituiva la Società Autostrade Concessioni e Costruzioni, con l’obiettivo di ricostruire l’Italia dopo la guerra. Gran parte della rete autostradale italiana fu creata tra gli anni Sessanta e Settanta, e le concessionarie erano pubbliche, questo significava che manutenzione, piano tariffario e controlli di sorta erano nelle mani dello Stato. Nel 1993 iniziò un processo di privatizzazione del sistema autostradale, che portò l’Iri a privatizzare una serie di asset: la proprietà della rete rimase nelle mani dello Stato, ma la manutenzione, la gestione e le tariffe vengono affidate a società private. Il 1999 è l’anno in cui avviene la completa privatizzazione delle autostrade e nel 2003 subentrano a pieno titolo i Benetton con il Gruppo Aspi controllata al 100% da Atlantia.Tuttavia, nonostante le promesse del ministero riguardo alla revoca, questa è tuttora rimasta lettera morta. Con il successivo cambio di governo, alle preesistenti indecisioni interne rimaste pressoché invariate, si aggiunse un’ulteriore sfida. In un incontro tenutosi a luglio 2020, la cancelliera tedesca Angela Merkel avrebbe riferito al premier Conte la preoccupazione diffusa degli industriali tedeschi e di Allianz riguardo al futuro della compagnia autostradale di cui sono soci. A muovere non tanto velate pressioni contro la revoca, si aggiunge anche la Cina, la quale possiede la società Silk Road, anch’essa socia azionaria in ASPI. Quando la pandemia si impossessò prepotentemente delle nostre vite, il caso di Autostrade passò inevitabilmente in secondo piano. La lunga e sofferta trattativa con ASPI, appesantita dagli azionari cinesi e tedeschi, sembrò arrivare ad una svolta il 15 luglio 2020, quando un compromesso tra il Governo e i Benetton, prevedeva solo il 10% delle quote nelle tasche di Autostrade. Movimento 5 Stelle, Italia Viva e Partito Democratico ritengono l’accordo una valida alternativa alla revoca, mentre Lega e Fratelli d’Italia si dicono estremamente delusi dalla mancata revoca della concessione. Sorge spontaneo pensare che la Germania e la Cina in pressing contro la revoca hanno in qualche modo influenzato la decisione del Governo che è stata quindi, volente o nolente, indirizzata verso un’alternativa meno radicale di quella progettata dal primo governo Conte, e sperata dai cittadini genovesi che ancora chiedono giustizia. Ma, con il neonato governo Draghi, il dossier Autostrade che destino avrà?