La privacy è il nuovo oro digitale per le big tech

La privacy non è mai stata una priorità per le Big Tech. Qualcosa sta cambiando, ma non tutti ne sono entusiasti

22/06/2021

«Stiamo creando un mondo dove chiunque ovunque possa esprimere le proprie opinioni, non importa quanto singolari, senza paura di venire costretto al silenzio o al conformismo. I vostri concetti legali di proprietà, espressione, identità, movimento e contesto non si applicano a noi.» Recita così la Dichiarazione di Indipendenza del Cyberspazio, redatta nel 1996 al World Economic Forum di Davos da John Perry Barlow, saggista e attivista, nonché fondatore della Electronic Frontier Foundation (EFF), un’organizzazione internazionale no-profit rivolta alla tutela dei diritti digitali e della libertà di parola nell’era digitale. Rileggendola anche in minima parte, nemmeno trent’anni dopo la sua stesura, si può comprendere da subito come l’ambizioso progetto del World Wide Web si sia poi sviluppato in maniera totalmente differente da come si era immaginato. Ciò che all’epoca era stata concepita come una piattaforma libera e indipendente, oggi costituisce un mezzo pubblicitario (e non solo, come andremo ad analizzare) assai redditizio.

 

Dal culto alla colonizzazione della rete

Negli ultimi decenni il mito del cyberspazio è svanito rapidamente con la centralizzazione dell’architettura di internet e il predominio delle cosiddette “Big Tech” nel mercato digitale. Un mondo dove “ognuno, ovunque” può esprimere le proprie opinioni è mutato in una realtà nella quale, nonostante il notevole potenziale di espressione individuale e sociale, la sfera pubblica è costantemente minacciata dalla disinformazione, dal rischio di isolamento e dalla potenziale violazione della privacy e dei dati personali. 

La “Net Delusion” che Evgeny Morozov – sociologo e giornalista bielorusso noto per le sue pubblicazioni fortemente critiche nei confronti del “cyber-utopismo” – aveva descritto nel suo primo libro si è oggi concretizzata nella maggior parte degli utenti, i quali hanno abbandonato quell’ingenuità che contraddistingue il suddetto fenomeno, figlio delle premesse vivamente visionarie e altrettanto utopiche della Dichiarazione di Indipendenza, in favore di una sempre crescente consapevolezza dei rischi della rete come luogo di sorveglianza quasi totale, commercializzazione e sfruttamento della privacy degli utenti. 

Lo scandalo di Cambridge Analytica ha sicuramente contribuito a esporre delle importanti falle nell’odierna economia dei dati, dimostrando inoltre quanto siano interconnesse le sfere commerciali e politiche delle principali piattaforme digitali e i loro modelli di business. Eppure questo, come tanti altri casi simili e meno celebri appaiono così difformi da un altro passo della Dichiarazione, la quale sentenzia: «Autorità del mondo industrializzato […] chiedo a voi del passato di lasciarci in pace. Non siete i benvenuti fra noi. Non avete sovranità nel luogo in cui ci raduniamo. […] Non avete alcun diritto morale a governarci, né avete strumenti per imporci le vostre leggi che vi sia ragione di temere.»

Oggi non solo esiste una vera e propria industria digitale, ma questa costituisce di fatto uno dei settori più proficui e in crescita del secolo. Basti pensare ai contratti miliardari che stanno alla base delle Big Tech, uno fra tutti l’accordo tra Google e Apple affinché il primo sia il motore di ricerca predefinito sul browser Safari. Secondo l’ampia indagine sul mercato delle piattaforme online realizzata da Politico, analizzando i report della Federal Trade Commission (FTC) statunitense e della Competition and Markets Authority britannica, si evidenzia come Google sia disposta a versare ogni anno una somma di denaro pari a circa un miliardo e mezzo di dollari nelle casse di Apple per assicurarsi una posizione predominante sul mercato. L’accordo fra i due colossi è stato talmente oneroso da essere finito nel mirino dell’antitrust che, nella relazione del Regolatore, sostiene che questa pratica costituisca una significativa barriera all’ingresso e allo sviluppo del mercato per la concorrenza (anche se, bisogna ammetterlo, ormai sembrerebbe già tardi per un discorso simile). Finora la decisione della Ftc di lasciare Google fuori dai guai ha riflettuto un’era in cui l’amministrazione Obama aveva uno stretto rapporto con la Silicon Valley e il popolo statunitense aveva opinioni ampiamente positive nei confronti dei giganti tecnologici emergenti, un atteggiamento che i sostenitori dell’anti-monopolio stanno ora mettendo in dubbio, mentre il Congresso considera cambiamenti radicali alle leggi antitrust. Grazie ad episodi come questo, negli Stati Uniti e soprattutto in Unione Europea le autorità stanno intensificando la pressione legislativa sulle aziende della Silicon Valley per evitare che grandi società, come Google e Apple, possano mettere a rischio il carattere competitivo dell’economia di mercato, oltre che gestire i dati in modo totalmente arbitrario.

 

Privacy come nuovo paradigma di profitto

Durante ogni ricerca sul web o in un’applicazione, l’attività dell’utente è monitorata e influenzata dalla presenza di tracciatori – categoria che include i cookies, vocabolo tanto popolare quanto vuoto semanticamente per gli internauti. I tracciatori non sono altro che informazioni (riguardanti il dispositivo, il server, le abitudini dell’utente), alcuni necessari per un miglior servizio, mentre altri, come ad esempio i cookies di profilazione, sono facoltativi ma contemporaneamente centro nevralgico del profitto online. Sono esattamente questi ultimi, in particolare i tracciatori di terze parti, che l’aggiornamento del 26 aprile di Apple – iOS 14.5 – ha pregiudicato, obbligando gli sviluppatori a richiedere all’utente l’autorizzazione per condividere a terzi i dati raccolti sulle attività durante la navigazione nella propria app.

Il nuovo strumento fornito agli utenti da Apple è definito “App Tracking Transparency” (ATT), e richiede esplicitamente di accettare il tracciamento o di rifiutarlo all’apertura di una nuova applicazione. Prima dell’aggiornamento rifiutare la profilazione e tracciamento era molto più complesso, mentre ora, se l’utente rifiuta, Apple proibisce all’applicazione l’utilizzo dell’”Apple device identifier”, ossia una stringa alfanumerica univoca associata al dispositivo, usata per il tracciamento delle attività e per eseguire pubblicità mirata su altre piattaforme (social media, siti web).

L’aggiornamento non ha solo la funzione di rendere conscio l’utente della possibilità di scegliere le sorti del tracciamento, ma lo induce, per di più, a una probabile sensibilizzazione ai problemi di privacy che da anni attanagliano i due continenti che si affacciano sull’Atlantico settentrionale, nonostante i loro tentativi – blandi o meno – di arginare la deriva del diritto alla privacy. Mossa peraltro lodata anche da Electronic Frontier Foundation, che ha definito ATT come «un altro passo nella giusta direzione». Tim Cook, amministratore delegato di Apple, ha commentato l’aggiornamento dicendo: «Noi semplicemente crediamo che gli utenti dovrebbero avere la possibilità di scegliere i dati che vengono raccolti su di loro e come vengono utilizzati». Parole apprezzabili che sono da inquadrare, però, in un contesto più ampio, dove l’azienda, in dieci anni (2010-20), ha decuplicato il fatturato proveniente dai servizi – Apple Care, iCloud, Apple Music, Apple Pay, pagamenti in-app con trattenuta – e con l’ultimo aggiornamento diviene ancora più verosimile l’idea di un futuro servizio, previo abbonamento, che permetta  all’utente di proteggere maggiormente la privacy.

Anche Google, competitor e pari di Apple, segue la rivoluzione “pro-privacy” della multinazionale californiana e sperimenta una nuova modalità con cui sostituire il monitoraggio individuale. Finora, i tracciatori di Google hanno profilato gli utenti in base ad attività e spesso informazioni personali, ma ora l’azienda intende trovare un equilibrio tra la posizione di Apple e altre completamente orientate alle inserzioni personalizzate, mantenendo comunque un sistema di tracciamento per i pubblicitari. La nuova proposta è denominata Federal learning of Cohorts (FLoC), e consente di dividere gli utenti in gruppi di interesse (e non secondo altre informazioni più sensibili). Presto tale aggiornamento dovrebbe arrivare su Google Chrome, mentre il rinnovamento dell’intera suite di servizi dovrebbe essere concluso all’inizio del prossimo anno, quando l’inserzionista potrà, quindi, profilare solamente l’intero gruppo, ma non frazionare ulteriormente la “folla”. Il nuovo sistema è definito da Google come “privacy-first” e secondo le sue stime e i suoi test, i rivenditori, usando il FLoc, convertiranno i loro messaggi commerciali in vendite nel 95% dei casi, ottenendo risultati identici alle modalità di tracciamento precedenti. L’ecosistema di Google è principalmente basato sulla pubblicità – nel 2019 l’85% dei ricavi è derivato da essa – e molte aziende, rivali e non, hanno esposto dubbi riguardo al FLoC: i browser Firefox e Opera disapprovano FLoC, definendolo inadeguato per il miglioramento della privacy; altre aziende ad-tech ritengono che tale mossa non faccia altro che rafforzare la posizione – già dominante – di Google nel mercato pubblicitario, privilegiata dalla dipendenza dall’azienda per gran parte degli utenti, vista la vastità di servizi che è in grado di offrire. Nonostante le incertezze sul futuro, due sono i riscontri avuti finora: Google e Apple sono in grado di regolare la privacy con molta più agilità delle istituzioni; Facebook, protagonista indirettamente minacciato, è molto infastidito. 

 

Visioni opposte

Più di dieci anni fa, quando Facebook non aveva ancora miliardi di utenti, era considerato da Apple come un papabile alleato per osteggiare l’avanzata di Google nel mercato degli smartphone con Android. Con l’evoluzione digitale, i due diventano sempre più dipendenti: Facebook necessita di uno smartphone affinché i suoi servizi siano fruibili (ad oggi l’88% delle persone accede a Facebook da dispositivo mobile) e molti clienti acquistano l’Iphone proprio per accedere ai servizi di Facebook (incluso Whatsapp, Messenger, Instagram). L’interdipendenza non ha mai fatto scoccare la scintilla definitiva e il rapporto imposto dalle esigenze di mercato ha di fatto scoperchiato un approccio al digitale differente da parte delle due aziende. Le divergenze tra Zuckerberg e Cook sono divenute ai più evidenti dopo lo scandalo di Cambridge Analytica, quando il CEO di Apple colse l’occasione per cavalcare le ostilità contro Facebook, affermando che l’azienda avrebbe dovuto eliminare qualsiasi informazione sugli utenti – classificando implicitamente l’ecosistema di Facebook, fondamentalmente basato sulla pubblicità, come insostenibile.

In tempi più recenti, il nuovo orientamento di Apple ha indotto reazioni piuttosto adirate di Facebook: l’azienda – per tutta risposta – ha promosso annunci su tv e giornali, criticando la nuova strategia di Apple perché dannosa per le piccole imprese, le quali si affidano notevolmente alle piattaforme pubblicitarie di Facebook. Riducendo la raccolta dati per la pubblicità mirata – sostiene Facebook – i piccoli business raggiungeranno più difficilmente le nicchie a cui si rivolgono, e di conseguenza avranno un calo di introiti. Affermazione altruista che, comunque, manca di sottolineare come, secondo le stime della Bank of America, le entrate di Facebook potrebbero diminuire del 3%, mentre “The Information” riporta di un calo di poco più del 4% sui ricavi pubblicitari (nel 2020, ottantaquattro su ottantacinque  milioni di dollari di ricavi totali di Facebook provengono da pubblicità). In secondo luogo, Facebook accusa Apple di voler ostacolare le fonti di guadagno degli avversari tech e contemporaneamente di ordire una nuova attività di marketing a proprio favore. È utile considerare che l’indice ARPU (Average Revenue Per User) di Facebook è di 7,89$, primo classificato con distacco rispetto al secondo: Twitter si ferma a 4,30$; ma con l’espansione globale dell’azienda, il bacino di nuovi utenti diminuirà progressivamente. Pertanto, i guadagni a lungo termine per Facebook non dovranno più risiedere nei nuovi utenti, ma in quelli già presenti sulla piattaforma, attraverso servizi ausiliari e trasversali tra le app di sua proprietà: ad esempio inserendo annunci sui social che dirottino l’utente su Whatsapp o Messenger, così che sia in diretto contatto con l’azienda venditrice. Novità di questo genere, richiedono inserzioni mirate per essere più efficaci, ma considerata l’attuale opposizione di Apple, seguita da Google, gli utenti potrebbero mal giudicare i nuovi progetti in casa Facebook, come di recente avvenuto per l’aggiornamento dei termini di Whatsapp. Non a caso, come ulteriore risposta all’aggiornamento iOS 14.5, Instagram ha mostrato ad alcuni utenti un avviso nel quale spiega perché l’impresa necessiti delle informazioni provenienti da altri siti e app: personalizzazione degli annunci; supportare i business che si affidano alla piattaforma; mantenere Facebook gratuito.

Alla base delle diatribe tra i due, in conclusione, non vi è che una visione differente – se non opposta – del digitale, ormai sorpassata l’utopia di internet decolonizzato. Facebook supporta una visione aperta, globale e senza limitazioni; in questo a caso a pagare le spese sarebbe, come avviene attualmente, la pubblicità, o meglio la privacy degli utenti. Al contrario, Apple è portavoce di un futuro digitale basato su servizi a pagamento, dove internet è un luogo sicuro solo se abbonati. 

 

Dati di tutti o privacy per pochi

Quanto possa essere ritenuta etica, o addirittura lecita, una prospettiva simile, è tutto da vedere. Internet è diventato essenziale nelle nostre vite ed è ormai incalcolabile il numero di tracce che vi lasciamo ogni giorno, sotto forma di dati più o meno personali, ma in quanto tale necessita di una legislazione stringente al pari di qualsiasi altro ambito della quotidianità. I governi e le organizzazioni di tutto il mondo ci stanno provando ormai da anni, come nel caso dell’Unione Europea e il suo General Data Protection Regulation (GDPR). La domanda che sorge spontanea, in conclusione, è la seguente: a cosa serve un regolamento sulla privacy nel momento in cui colossi digitali come Apple arrivano a strumentalizzarne le direttive? Da una parte abbiamo un minimo legale di rispetto per le normative del Gdpr, ma dall’altra un’azienda che potrebbe proporre un servizio di protezione dei dati aggiuntivo al pari di un abbonamento, trattando la privacy come moneta di scambio tramite l’ennesima policy dalle sembianze iper-capitaliste.

In un contesto sempre più “cyber-scettico” come quello in cui stiamo vivendo, una campagna di questo tipo avrà probabilmente un ampio riscontro, ma non sarebbe alla portata di tutti. Rientrando così, ancora una volta, nell’ambito di quel privilegio che non ha, contrariamente alla sua definizione, alcuna condizione, qualità, dote o merito speciale senonché quella di un cospicuo conto in banca.

 

Questo articolo è un adattamento dell’approfondimento Oro digitale che potete trovare sul numero 42 di Scomodo abbonandovi qui.
Articolo di Nicolò Benassi e Caterina Cammilleri