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Perché in India si continua a protestare contro le leggi di Modi
Il governo ha arrestato due giornalisti colpevoli di aver denunciato l’attacco ai manifestanti da parte di partiti di estrema destra.
È da cinque mesi ormai che i contadini indiani stanno protestando contro le nuove leggi del governo Modi. Le manifestazioni sono iniziate a settembre nello stato del Punjab, una delle regioni più fertili al mondo, in cui vivono i Sikh, comunità religiosa dotata anche di un apparato politico-militare. Il 26 novembre è iniziata la marcia di massa verso Nuova Delhi, che ha visto partecipi uomini e donne provenienti dal Punjab e da altre regioni, uniti da un unico grido “Dilli Chalo!” (“Andiamo a Delhi!”). Prince Singh Bassi è un giovane studente di farmacia a Pavia originario del Punjab. In questi giorni è partito per Nuova Delhi per protestare accanto a parenti e amici. Intervistato dalla redazione, ha permesso di ricostruire alcuni aspetti delle manifestazioni altrimenti particolarmente difficili da notare. “Per molti è diventata una questione di resistenza e rifiuto a piegarsi tradendo i propri valori”, con queste parole Prince spiega cosa spinge i manifestanti a resistere dopo 5 mesi: i loro sforzi non possono essere vanificati. Essi sono infatti animati da un fine comune: contestare le nuovi leggi del governo Modi sulla liberalizzazione del mercato agricolo.
Queste leggi pongono in condizioni di svantaggio più della metà della popolazione del Paese, cioè i 650 milioni di contadini che già in molti casi vivono nella miseria e nella precarietà. Favorendo l’entrata delle multinazionali, le leggi di Modi rappresentano il colpo finale a quella fascia di popolazione già colpita da 12mila suicidi l’anno.
“They talked about peace, about keeping the fight on” scrive sul suo profilo instagram l’attivista indiano Akshay Kapoor che presente alle proteste ne testimonia la natura pacifica e sociale. Anche le donne hanno un ruolo attivo nelle manifestazioni, Prince ha raccontato che “ci sono interi cortei rosa che manifestano il proprio dissenso, e tra le tante librerie presenti sul luogo ci sono saggi e libri di stampo femminista in abbondanza”. La mutualità è forte, e in molti offrono ciò che possono, come ci testimonia Prince: “Anche i cittadini di Nuova Delhi aiutano fornendo beni essenziali, medicinali, libri, giornali e manutenzione di qualsiasi tipo per i trattori e i carri su cui dormono i manifestanti”.
Purtroppo però, nonostante la natura pacifica delle manifestazioni, la polizia è intervenuta con la violenza tentando di interrompere i sit-in, e costringendo così i contadini a costruire delle barricate per proteggersi da un governo che li etichetta come terroristi. Prince parla di cannoni ad acqua, gas lacrimogeni e di fosse scavate lungo il tragitto per Nuova Delhi per ostacolare i manifestanti.
Il freddo e la pioggia di questi giorni hanno lacerato le tende ma non gli spiriti dei manifestanti, che attendono una presa di posizione del governo innanzi alla loro richieste. Una presa di posizione, a dire il vero, c’è stata e ce l’ha raccontata Prince, ma è ben lontana dall’essere positiva: “La Corte Suprema ha sospeso l’entrata in vigore delle nuove riforme agrarie, ma per gestire il negoziato è stato formato un comitato di persone che avevano già rilasciato dichiarazioni a favore di queste norme neoliberiste”. Nonostante tutto, si continua a cucinare e ad offrire cibo tutto il giorno tutti i giorni. Sono 900 i kg di kheer che vengono preparati e offerti quotidianamente: “I think that is the spirit of the farmers’ protest. No one will be hungry as farmers are the ones who feed us” scrive sul suo profilo instagram l’attivista indiana Manisha. Prince ci ha spiegato che questa mensa si chiama langar e che già dal XV sec. “era un modo per accomunare diversi ceti e classi dando a loro il pasto alla fine della preghiera e riunendoli tutti nella stessa mensa”.
Se in India una gran parte della popolazione sostiene Modi e le riforme, in diverse parti del mondo in molti hanno aderito alla causa dei contadini, e lo dimostrano quelle persone che come Prince hanno preso un aereo per andare a sostenere per giorni la propria terra.
I Sikh e il granaio dell’India
Non è un caso che ad opporsi alla riforma agraria di Modi sono stati innanzitutto i Sikh, la vastissima comunità originaria del Punjab, la “terra dei cinque fiumi” (da “punj”, cinque e “aab”, acqua) situata nell’India nordoccidentale. Di stampo monoteista, il sikhismo nasce nel XV secolo, si sviluppa come alternativa ai dogmi del tempo e prevede il culto di un eterno e onnipresente creatore, teso a indirizzare l’umanità verso la saggezza e l’uguaglianza. Uguaglianza che si estende anche alle donne, considerate un vero perno della comunità. Ma la storia di questo grande popolo – parliamo di circa 25 milioni di persone oggi sparse nel mondo – oltre alla fede e alla filosofia è inscindibilmente legata alla sua posizione geografica: stato di agricoltori e braccianti la cui economia ruota in larga parte sulla coltivazione del frumento, industrie tessili e casearie e sulla straordinaria fertilità della terra.
Fu proprio grazie alle sue caratteristiche morfologiche che il Punjab, sotto la presidenza di Indira Gandhi nel 1966, si rese teatro della storica “Green revolution”, un approccio innovativo alla produzione agricola che portò all’abbandono dei metodi tradizionali di coltivazione e all’utilizzo delle tecniche americane: semi ad alto rendimento, pesticidi e fertilizzanti chimici. La rivoluzione contribuì a rendere l’India autosufficiente entro la fine degli anni ’70 e il Punjab uno degli stati più ricchi del paese, considerato oggi “il granaio dell’India”. Il rovescio della medaglia, tuttavia, fu il costo sempre più elevato della coltivazione intensiva, l’indebitamento degli agricoltori e la decomposizione progressiva del suolo.
Dal punto di vista del tessuto sociale, invece, i Sikh – rappresentando pur sempre una ‘minoranza’ (il 2% della popolazione totale dell’India) e essendo già per questo soggetti a discriminazioni – non furono mai pienamente accolti dalle altre comunità etniche indiane, e così come i problemi di convivenza divennero una costante, così lo divennero anche le tensioni con il governo centrale. Oggi come allora, il settore agricolo ricopre un ruolo essenziale nella regione del Punjab, patria per circa 16 milioni di Sikh: motivo per il quale il 26 novembre 2020 ha avuto inizio la sopracitata protesta “Dilli chalo”. Gli agricoltori, che si sono organizzati allestendo campi e munendosi di rifornimenti sufficienti per almeno sei mesi, sono determinati a restare accampati nelle strade della capitale fino a quando il governo Modi non abrogherà le nuove leggi.
Il langar non si limita a nutrire solo i contadini accampati, ma tutti: siano essi agricoltori forestieri o gente del posto, nonché gli stessi agenti della polizia che hanno accolto bruscamente i manifestanti.
Sono ormai passati circa quattro mesi dall’inizio delle proteste in Punjab contro la riforma agraria voluta dal governo, ma sin dall’inizio i media nazionali non hanno prestato molta attenzione a ciò che stava accadendo nelle piazze. Quando le principali testate giornalistiche hanno iniziato a parlarne, hanno però etichettato i protestanti come antinazionalisti, sostenitori del Khalistan. Su Zee News, ad esempio, il conduttore Sudhir Chaudhary ha chiesto ai suoi spettatori di riflettere sul perché solo gli agricoltori del Punjab si siano mobilitati, considerato che le nuove leggi verrebbero applicate in tutto il paese: il conduttore ha presupposto, infine, un intento terroristico. Per questo motivo, i media sono stati definiti con il termine di “godi media”: si tratta di un tipo di informazione che ha preso forma negli ultimi anni e che è volta a seguire la sola ed arbitraria linea del governo. Motivo per il quale, a causa dell’assenza di una corretta e veritiera divulgazione delle notizie, gli agricoltori nella capitale stanno mobilitando i social media, preferendo rivolgersi ad attivisti indipendenti, fotografi, youtuber e instagrammer per esprimere le loro preoccupazioni, senza pregiudizi o interpretazioni errate delle loro intenzioni.
L’economia e la riforma agraria
L’India è una delle nazioni con i tassi di crescita più alti al mondo, dal 2013 il governo Modi porta avanti un piano di riforme di vasto respiro denominato ‘Make in India’ e dal 2005 i tassi di povertà nel paese sono calati dal 55% al 28% nel 2016. Nel 2008 ha preso vita un progetto per costruire un corridoio commerciale che connetta la capitale, Delhi, al centro finanziario del paese, Mumbai, abbracciando ben cinque regioni. Per il governo Modi si tratta di 3 milioni di posti di lavoro creati ed un aumento del PIL previsto al 25% nel 2025. I lavori sono già stati avviati con il completamento dell’autostrada atteso per il 2023.
A seguito dello scoppiare delle guerre commerciali sino-americane dello scorso anno, l’India scommette tutto sul suo emergente settore tech (dal valore di 150 miliardi di dollari) e punta al dominio del mercato degli smartphone, assieme a delle leggi che obbligano i produttori ad acquistare almeno il 33% dei componenti nel paese.
In questo contesto, il governo Modi ha ben poco interesse a resuscitare un settore agricolo che ormai, nonostante provveda al sostentamento a più di metà della popolazione, è responsabile solo per meno del 9% del PIL. Di fatto, la riforma rende inutili molte delle reti di sicurezza che il governo aveva garantito agli agricoltori fino a questo momento. Il testo della manovra (Farm Bill 2020) è composto da tre parti: la prima, il “Farmers (empowerment and protection) agreement for farmers on price assurance and farm services” rimuove diversi requisiti minimi imposti dal governo ai contratti di vendita tra agricoltori e grandi intermediari della distribuzione. Il Farming Produce Trade and Commerce (Promotion and Facilitation) liberalizza la vendita dei prodotti all’esterno dei tradizionali mercati agricoli, i Mandi, come anche dai ‘cortili’ approvati dalla APMC (Agricoltural Produce Market Committee). In questi mercati il governo acquista grandi porzioni del prodotto nazionale garantendo un prezzo minimo (MSP) su molti prodotti. Nonostante la riforma non comporti l’abolizione di questa protezione, molti esperti prevedono che la concorrenza proveniente dall’esterno la renderà pressoché inutile mettendo a rischio immediato i piccoli agricoltori e nel lungo periodo anche quelli più grandi che potrebbero soccombere alla competizione del settore privato. Infine l’Essential Commodities (Amendment) rimuove dalla lista di beni essenziali il cui prezzo è protetto dal governo molti prodotti agricoli, liberalizzando inoltre i limiti di stoccaggio che fino a questo momento erano stati imposti ad essi per evitare che il loro prezzo venisse manipolato dalle grandi corporazioni.
L’effetto che la riforma potrebbe avere è difficile da calcolare ma in molti sono del parere che il governo Modi stia essenzialmente abbandonando il settore agricolo a sé stesso con ampie liberalizzazioni che non possono che mettere in ginocchio la struttura di sostegno e la proprietà di molti agricoltori, indicando come esempio di ciò che potrebbe succedere lo stato del Bihar dove leggi locali hanno rimosso i mercati regolamentati nel 2006 e dove oggi gli agricoltori sono i più poveri di tutta la nazione. Già adesso più del 40% del commercio si sta spostando in spazi senza regolamentazione. Il governo vuole uscire dal settore agricolo e liberarsi dell’onere di proteggere i suoi soggetti più deboli a favore di politiche che li incoraggerebbero ad abbandonare le loro terre.
Nelle ultime settimane
La situazione è degenerata, come si temeva, a partire dal 26 gennaio, giorno della Festa della Repubblica Indiana: la partecipazione dei manifestanti alla parata annuale era prevista entro certi limiti, ma i confini prestabiliti non sono stati rispettati, infatti gruppi di manifestanti si sono distaccati e hanno preso d’assalto il Forte Rosso, simbolo della Repubblica, entrandoci e issando la loro bandiera di protesta. Durante tutta la giornata si sono registrati scontri violenti con lanci di pietre e tanti i feriti, momenti fuori controllo, con vandalismo e distruzione di transenne.
A causa di questi scontri, il ministro degli Interni ha ordinato di bloccare internet in alcuni distretti del paese, giustificando la decisione con la necessità di “mantenere la pubblica sicurezza ed evitare situazione di emergenza”, ovvero impedire ai manifestanti di comunicare tra di loro.
Un’altra storia è quella avvenuta nei pressi di Singhu border, in cui un gruppo tra le 100 e le 200 persone, che dichiarava di essere un gruppo di locali, ha intimato i contadini ad andarsene dal sito e ha cominciato a lanciare loro delle pietre. Secondo il The Wire e i manifestanti, gli artefici di questo attacco sono membri di partiti di destra e estrema destra, come il BJP, RSS (paramilitare) e Hindu Sena. La situazione è diventata in poco tempo violenta. Mandeep Punia e Dharmender Singh, rispettivamente giornalista del Caravan e giornalista dell’Online News India, sono stati arrestati dopo aver denunciato sia i partiti di destra, sia la polizia, per non aver impedito a questi di agire. Basand Kumar, giornalista del Newslaundry, ha scritto in un tweet che Singh è stato rilasciato dopo aver firmato che non avrebbe più fatto azioni di questo tipo in futuro. Cosa si intenda per “azioni di questo tipo” è sconosciuto. Il giorno dopo l’attacco Punia aveva pubblicato sui social un video riguardo Singhu border, testimoniando, anche attraverso foto, che la polizia non aveva neanche provato a fermare gli aggressori. Ha accusato una delle principali testate indiane (Dainik Jagran) di aver manipolato le notizie sull’accaduto e modificato le foto che mostravano gli atteggiamenti passivi della polizia. Punia ha raccontato come gli aggressori lanciassero bombe a benzina contro i contadini e tentassero anche di incendiare le tende delle donne: in più, grazie alle foto, ha provato l’appartenenza dei riottosi ai gruppi nazionalisti di destra.
La tesi portata avanti da Punia nel suo video-denuncia è che i militanti di estrema destra si fossero accordati con la polizia per attaccare. Lo scopo sarebbe creare caos e violenze per far travisare agli indiani la natura delle manifestazioni, facendola passare, ancora una volta attraverso i media nazionali, come una protesta di terroristi.
Dall’altro canto, diverse personalità internazionali si sono manifestate a sostegno degli agricoltori, tra cui la cantante Rihanna, l’attivista per il cambiamento climatico Greta Thunberg e infine l’avvocato e attivista statunitense Meena Harris – nipote del vicepresidente Kamala Harris – che ha denunciato sul suo canale Twitter l’arresto di un attivista per i diritti dei lavoratori – Nodeep Kaur – sottoposta a violenze, inclusa un’aggressione mentre era in custodia della polizia.
#FreeNodeepKaur NOW https://t.co/s2cPLBXtOC
— Meena Harris (@meenaharris) February 10, 2021
In risposta al sostegno globale agli agricoltori sui social media, il ministero degli Affari esteri indiano ha rilasciato una dichiarazione definendo le proteste una questione interna dell’India, inoltre la polizia di Delhi ha presentato un (FIR) “First Information Report”, l’avviso di garanzia che in India prelude all’avvio di un’indagine, sostenendo una cospirazione internazionale per diffamare l’India.