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Il gioco dei grandi
Esistono giochi fatti per i grandi. La pubblicità sul web è uno di questi. Non perché sia un’attività ad appannaggio degli adulti ma perchè a giocare sono le grandi aziende. Le aziende di altre dimensioni, medie e piccole, rimangono tagliate fuori. Le implicazioni ambientali di questa dinamica sono enormi. Una dinamica di cui gli enti statali entrano a far parte in maniera fortemente contraddittoria.
Le protagoniste della transizione
È ormai noto e consolidato il profondo squilibrio che caratterizza l’assetto economico europeo, compreso quello italiano, in termini di dimensioni delle unità aziendali operanti sul territorio. L’Unione Europea, nella Raccomandazione 2003/361/CE, definisce le piccole-medie imprese (PMI) sulla base del numero di lavoratori coinvolti, che deve essere inferiore o uguale a 250, e del fatturato annuo, che non può superare i 50 milioni di euro. A questa categoria, secondo i dati dei Censimenti Permanenti Istat del 2018, appartengono il 99,6% delle aziende italiane, la maggior parte delle quali rientra addirittura nella fascia della micro impresa, con meno di dieci dipendenti. Dall’altra parte le grandi imprese rappresentano solo lo 0,3% ed occupano il 28,3% dei lavoratori. I numeri nazionali sono sostanzialmente in linea con quelli comunitari, anche per quanto riguarda l’impatto ambientale di queste aziende, nel quale si evidenzia un altro forte disequilibrio: le grandi imprese sono responsabili di circa il 40% dell’inquinamento industriale in Europa, secondo un documento dell’OECD (Organization for Economic Co-operation and Development) del 2018.
È importante sottolineare che piccola o media impresa non significa necessariamente meno inquinante. Tuttavia queste hanno grande importanza nella transizione verso una produzione industriale più sostenibile: secondo un Issue Paper pubblicato dall’OECD nel 2018, intitolato SMEs: key drivers of Green and Inclusive Growth, le PMI rivestono un ruolo strategico nel processo verso la green economy. Al contrario, è piuttosto evidente come le grandi industrie rappresentino i soggetti trainanti di uno stile di vita legato al sovraconsumo: non tanto per quanto riguarda la loro sostenibilità ambientale, che varia molto da azienda ad azienda, ma soprattutto a livello di influenza sull’immaginario collettivo, in quanto si tratta spesso di multinazionali in grado di operare in ambiti e zone geografiche molto diversi fra loro, con una potenza tale da riuscire in alcuni casi a influire sulle politiche economiche locali. Non è un caso che negli ultimi anni molte di queste abbiano intrapreso – non sempre legittimamente – campagne di comunicazione per ripulire la propria immagine, così da riuscire a far fronte una platea di consumatori sempre più attenti (vedi Panni sporchi, coscienza pulita).
Il paper, coerentemente con molte altre ricerche, identifica le PMI come principale motore della necessaria ed urgente transizione verde, sia per il peso che esse hanno nell’economia europea, sia per alcune loro caratteristiche e peculiarità. Lo studio distingue tre tipologie di PMI, a seconda del loro contributo al cambiamento: eco-innovator, eco-adoption e eco-entrepreneurship. Le prime sono caratterizzate dall’essere fortemente innovative. Implementano nuovi prodotti o processi produttivi per migliorare la propria efficienza, riducendo l’impatto ambientale anche non intenzionalmente. Le seconde invece pongono la tutela ambientale come uno dei principali obiettivi d’impresa, identificando in essa un’opportunità, come quella di attirare una fascia di consumatori sensibili alla tematica. Le terze, infine, si limitano ad adeguarsi alla regolamentazione in vigore, apportando le modifiche necessarie alla loro attività per rientrare nei parametri richiesti. Ad ogni modo, il loro contributo potrebbe risultare essenziale per guidare l’economia verso questi obiettivi. Al di là poi del loro ruolo in una prospettiva di transizione ecologica, il ruolo delle PMI è stato riconosciuto come di vitale importanza anche a livello sociale e culturale all’interno del tessuto produttivo italiano. Questo aspetto (riferito in particolare alle piccole imprese) è stato sottolineato in maniera particolare da Giulio Sapelli, professore universitario della Statale di Milano, nel suo libro Elogio della piccola impresa. Sapelli infatti spiega come questo genere di attività economiche siano paragonabili più ad “una comunità che una società organica”, una “unità economica e biologica insieme”. Le parole di Sapelli riguardano le piccole imprese. Ammesso che ciò non si possa estendere anche a quelle di medie dimensioni, si tratta in ogni caso della stragrande maggioranze del tessuto produttivo italiano e con ogni probabilità di quella porzione che più rimane tagliata fuori dalla pubblicità online.
Se alle piccole e medie imprese sono riconosciuti da una parte questo potere e questo potenziale ruolo guida per una crescita economica sostenibile, dall’altra esse soffrono da sempre di svantaggi strutturali che ne ostacolano il pieno sviluppo. Tra questi, oltre alla cronica difficoltà ad accedere a finanziamenti – problema a cui negli ultimi anni la legislazione nazionale ed internazionale ha cercato di supplire – si è ormai affermato un fattore che permette alle grandi aziende di scavalcare le PMI sul mercato: il digital advertising. Premesso che la pubblicità svolge un ruolo cruciale per il rafforzamento della posizione di mercato di un’impresa e che le grandi società hanno a disposizione molte più risorse per questo tipo di investimenti, la pubblicità online ha complicato ulteriormente la vita delle PMI. Si tratta di un settore che si sta sviluppando sempre più velocemente negli ultimi anni, parallelamente all’ inarrestabile diffusione dei social, che la fanno da padroni in questo contesto. Come riportano i dati dell’Osservatorio Internet Media del Politecnico di Milano, nel 2019 il web marketing costituiva già il 37% del comparto pubblicitario italiano, con un tasso di crescita del 13% rispetto all’anno precedente.
Per poter usufruire di questo potentissimo strumento di amplificazione, che permette di raggiungere migliaia di consumatori con un click, sono necessarie non solo molte risorse economiche, ma anche competenze tecniche e la consulenza di manager specializzati che sappiano districarsi fra le complesse dinamiche del web. Ad oggi, tutto questo finisce inevitabilmente per avvantaggiare molto le aziende di grosse dimensioni rispetto alle piccole e medie imprese, aggiungendosi ai già numerosi fattori che ostacolano una transizione verso un’economia sostenibile. Processo in cui, come si è già dimostrato, le PMI hanno un ruolo chiave.
Nani e giganti
Le PMI nella loro attività di internet advertising si trovano a dover gestire concorrenti di dimensioni assai maggiori, spesso disposti a spendere cifre esorbitanti in pubblicità e con staff più esperto nella gestione del web.
Uno studio del 2016 condotto da due ricercatori dell’Università svizzera di Chur, capitale del piccolo cantone dei Grigioni, dimostra le enormi difficoltà che le PMI si trovano ad affrontare, competendo sui social media con aziende di grandi dimensioni. Questo studio è di particolare interesse se si considera la somiglianza che il tessuto produttivo svizzero ha con quello italiano. In Svizzera infatti, esattamente come in Italia, le micro, le piccole e le medie imprese rappresentano il 99% delle aziende diffuse sul territorio nazionale. Analizzando le principali differenze di strategia pubblicitaria tra le PMI e le grandi aziende, si osserva che le prime si basano su una comunicazione portata avanti di giorno in giorno, quotidianamente ma senza alcun tipo di pianificazione e senza potersi affidare ad un personale specializzato. Non è quindi difficile comprendere perché, tra le principali motivazioni che spingono una piccola o media impresa a non condurre attività pubblicitaria sui social, ci sia “l’attesa di un basso ritorno dell’investimento”, almeno secondo i dati raccolti dai due ricercatori.
Questa motivazione giustifica appieno la diversa percezione dell’investimento pubblicitario online per le PMI rispetto alle aziende di maggiori dimensioni. Se infatti per le piccole e medie imprese investire in pubblicità online può sembrare una scommessa perdente, nelle grandi aziende questo stesso investimento acquista una rilevanza notevole. Basta osservare qualche cifra per rendersene conto. Considerando il bilancio dello scorso anno di Renault Italia , sotto la voce “pubblicità” si presentano circa 61 milioni di euro di spesa. Il numero in sé non dice nulla: il fatto che alcune imprese possano investire grandi somme in pubblicità è naturale. Diventa indicativo se rapportato all’utile annuo della stessa azienda: 61 milioni investiti in pubblicità contro i 25 di utile, una cifra di tre volte inferiore rispetto all’investimento. In questo senso è interessante osservare anche qualche dato dalla libreria di inserzioni consultabili su Facebook. Recentemente, Volkswagen Italia ha speso più di €4500 per pubblicizzare uno spot di poco più di un minuto sul social network, per tre giorni. Indipendentemente dal numero di profili raggiunto, la campagna ha più di un milione di impression in tutta Italia con un focus particolare su Campania e Lombardia. E’ ipotizzabile che ci fosse anche un sistema di targeting mirato sugli utenti che più possono essere interessati da una simile pubblicità, ma su questo Facebook non fornisce informazioni. Considerando anche che il video non era di lancio per una nuova vettura, ma un riepilogo di una fiera in cui venivano presentati i contraddittori futuri piani green dell’azienda, ci si può fare un’idea di quanto queste società abbiano a disposizione per l’advertising e il marketing. E che soprattutto, al contrario di quanto pensano molti gestori di PMI, l’attività pubblicitaria online è un buon investimento – almeno per le grandi aziende, che come vedremo possono contare anche su ben altri strumenti.
Un altro esempio piuttosto chiaro fa riferimento a quei settori in cui le piccole imprese si sono trovate, soprattutto negli ultimi anni, a doversi contendere con le multinazionali i propri servizi. Le piattaforme digitali basate sulla premessa di estrarre valore e mercato dalle PMI sono infatti proliferate in tutto il mondo soprattutto negli ultimi 5 anni. Aziende come Deliveroo, Ubereats e Just Eat hanno aperto un mercato in un settore che fino a poco prima era esclusivo dei gestori dei locali che proponevano un servizio di consegna a domicilio indipendente. In poco tempo tuttavia queste app, spinte dalla popolarità tra i consumatori, hanno creato modelli di attività basati su un sistema di sfruttamento dei propri dipendenti e su pesanti commissioni (la maggior parte delle piattaforme di delivery non rilascia dati ufficiali sulla percentuale di commissioni, che varia da ristoratore a ristoratore; le stime comunque si aggirano tra il 20-35%). Di conseguenza queste realtà, divorando un’ampia fetta del mercato per le PMI del settore, le hanno costrette, da un giorno all’altro, a spartirsi il guadagno con questi colossi. Motivo centrale della diffusione di questi servizi è la pubblicità. Se, infatti, il gestore di un piccolo ristorante di una via periferica di una grande città decidesse di pubblicizzare la propria attività, il modo in cui il suo locale può vendere più prodotti e quindi fare utili maggiori, sarebbe con ogni probabilità creare un’inserzione su Facebook targettizzata in maniera sommaria e buttarci un po’ di soldi, o creare dei volantini da distribuire nelle caselle delle lettere delle case limitrofe. Una soluzione ben diversa l’hanno invece adottata le aziende sopracitate. Solo su Facebook, infatti, questa estate Ubereats ha speso più di 12.000 euro in due settimane per pubblicizzare un video di 10 secondi, che stando ai dati del social ha fruttato più di un milione e mezzo di impression. Diverse piattaforme di food delivery sono state inoltre accusate di gestire in maniera opaca e invasiva la raccolta di dati sugli utenti (vedi Buchi nella rete).
E’ chiaro che un sistema di questo tipo non può essere sostenibile per le PMI, che si vedono sempre più tagliate fuori dalla competizione, bloccate in un meccanismo ingiusto che avvantaggia enormemente chi ha maggiori disponibilità di pagare inserzioni sui social network. Ciò risulta ancor più vero se si analizza non soltanto la differenza quantitativa che c’è tra l’attività pubblicitaria delle PMI e quella delle grandi aziende, ma anche la differenza qualitativa degli strumenti su cui le due tipologie di società possono contare.
Gli esperti del settore
Circa tre anni fa, nel 2017, c’è stato un periodo in cui sui social non si parlava d’altro che di un particolare spot pubblicitario. Era quello della merendina Buondì della Motta, in cui una famiglia viene decimata da una pioggia di asteroidi a causa di frasi del tipo “mi possa colpire un asteroide se esiste una colazione leggera e invitante che possa coniugare leggerezza e golosità”. Lo spot in questione fu al centro di vari dibattiti, più o meno seri, per diverse settimane e ne furono girate anche alcune parodie. Lo spot è opera del distaccamento italiano dell’agenzia pubblicitaria internazionale Phd Media. Sul loro sito si possono leggere dati che, anche se probabilmente ingigantiti (non vengono citate le fonti), mostrano risultati impressionanti: “17,5 milioni di utenti unici, 12% engagement rate, 8,5 milioni di view complete del video, 90.000 conversazioni da parte degli utenti nei primi 10 giorni di campagna, oltre 360.000 interazioni e 135.000 citazioni sui social”. E dopo un’altra serie di numeri c’è il dato più indicativo di tutti: “il 74% degli italiani ha parlato della campagna, compresi coloro che non l’avevano vista”.
Questo episodio permette di mettere a fuoco una delle maggiori differenze tra le grandi aziende e le PMI per quanto riguarda l’attività pubblicitaria. Le prime infatti si possono affidare ad alcune tra le migliori agenzie di comunicazione del mondo, che hanno ovviamente gli strumenti più adatti a pianificare campagne a lungo termine, creare video virali o semplicemente misurare precisamente la performance delle varie pubblicità. Sono infatti le più grandi agenzie pubblicitarie a utilizzare al meglio elementi tecnici e specifici sui diversi aspetti del digital marketing. Basti pensare allo sfruttamento di conoscenze psicologiche nell’attività pubblicitaria, documentate da un’ampia letteratura fin dagli anni ‘30 (almeno negli USA), oggi ancora più accurate. O anche all’utilizzo di conoscenze prese dall’antropologia, dalla sociologia e dalle scienze comportamentali per individuare il proprio target di clientela. Tutti questi elementi, sempre più accurati man mano che le informazioni riguardo ai potenziali consumatori aumentano, permettono ai soggetti che si appoggiano ad agenzie di comunicazione di migliorare enormemente la propria attività pubblicitaria. Rimanendo sull’esempio della sezione italiana di Phd Media, guardare il portfolio dei clienti può dare un’idea sulle dimensioni delle aziende che si affidano all’agenzia. Tra i nomi figurano imprese dei settori più disparati, dall’automotive con Audi, Volkswagen, Porsche e Bentley, all’alimentare con Aia, Motta, Bauli, Eataly, alle compagnie aeree come Qatar airways. L’elemento in comune in questo caso è piuttosto evidente: una grande disponibilità di capitale da investire in pubblicità. Investimenti la cui entità può essere suggerita dal flusso di denaro passato per l’agenzia: come dimostrano alcune cifre del bilancio della Phd, al 31 dicembre del 2019 il fatturato era di quasi 252 milioni di euro.
A questo punto però è legittimo chiedersi se queste agenzie pubblicitarie – di cui la Phd Media Italia è solo un esempio rappresentativo – abbiano solamente clienti di grandi dimensioni o se invece anche le piccole e medie imprese possono in qualche modo sfruttare la loro attività. Dopotutto, non è difficile ipotizzare che sui loro stessi siti le agenzie di comunicazione mostrino solamente i nomi dei clienti più grossi e importanti per impressionare altri potenziali clienti.
Una risposta piuttosto evidente si trova in un paper accademico, intitolato Investment in online advertising and return on sales: Does it pay to outsource the services to an advertising agency?, scritto da due ricercatori dell’Università di Brasilia e pubblicato nel maggio 2018 sulla rivista “Journal of Marketing Communications”. Secondo i due ricercatori infatti “più è alto l’investimento in pubblicità, più l’affidamento esterno dell’attività pubblicitaria a un’agenzia di marketing ripaga in termini di profitti marginali. Con un basso investimento, l’affidamento esterno non ripaga”. Ma anche chi decidesse di gestire internamente la propria attività di marketing non riuscirebbe ad avere buoni ritorni sugli investimenti. Nello studio infatti si legge che gli addetti interni alle PMI porterebbero avanti solo programmi molto basilari e che la loro scarsa abilità tecnica non solo non gli permetterebbe di creare grandi profitti, ma non gli permetterebbe nemmeno di misurare con precisione l’influenza dell’attività pubblicitaria sulle vendite.
E’ chiaro che non si può assumere con certezza che la stessa cosa valga anche in Italia, essendo questo uno studio condotto su aziende dall’altro lato dell’Oceano. Ma, osservando alcuni dati sull’attività di marketing delle imprese italiane, si può facilmente immaginare che la dinamica sia abbastanza simile. Delle indicazioni utili in questo senso arrivano da un report di quest’anno dell’agenzia di marketing Jellyfish, in cui vengono analizzati i trend del digital marketing in Italia. Qui si dimostra come la tendenza più comune sia quella di voler gestire internamente la propria attività di marketing online, senza affidarsi a partners o agenzie esterne. Viene infatti scritto che “in Europa il 62% delle aziende è pronto a gestire interamente il proprio media buying entro il 2022”, precisando che in Italia è solo il 24% delle aziende ad aver affidato la propria attività pubblicitaria a soggetti esterni, mentre la maggior parte gestisce tutto in-house o attraverso servizi di consulenza. Secondo il quadro qui tracciato, quindi, il risultato è quello di poche e grandi aziende che, potendo permettersi ingenti investimenti in pubblicità, possono sfruttare i servizi di poche e altrettanto grandi aziende pubblicitarie. Le PMI, al contrario, rischierebbero di vedere buttato il proprio investimento se si affidassero alle agenzie di advertising. Il risultato è un divario ancora più ampio tra l’efficacia di advertising delle PMI e quella delle aziende più grandi.
Stato pubblicitario
La pervasività e la potenza effettiva del web advertising delle maggiori aziende risultano particolarmente evidenti analizzando il rapporto tra gli enti statali e le campagne pubblicitarie delle aziende in Italia (per i meccanismi legali di regolazione del tracciamento degli utenti a fini commerciali, vedi Buchi nella rete). In particolare, risulta interessante osservare come questo rapporto muti in base alla dimensione delle imprese in questione. Questo ci da l’opportunità di notare la reale differenza che intercorre tra qualsiasi campagna pubblicitaria di una piccola e media impresa e quella di una di grandi dimensioni.
Per quanto riguarda il rapporto tra le istituzioni statali e l’attività di advertising delle PMI, il ruolo dello Stato è principalmente di incoraggiamento. Nel clima di una quarta rivoluzione industriale si è infatti resa vitale una collaborazione fra istituzioni e imprenditoria per rendere accessibile a quest’ultima il mondo del digitale e sostenerne la transizione verso il nuovo modello di “Smart factory”. Una via che va necessariamente percorsa per garantire maggiore innovazione e competitività. Il Piano 4.0, come piano nazionale di misure e agevolazioni, del valore di 7 miliardi solo per il 2020, ha proprio questo scopo (proprio in questi giorni, con la nuova legge di bilancio, il piano è stato potenziato e ha assunto la denominazione di Transizione 4.0). Fra gli investimenti innovativi incentivati, rientrano anche quelli per “lo sviluppo di tecnologie abilitanti dell’Impresa 4.0”. Come spiega un rapporto della multinazionale di consulenza McKinsey, questi comprendono anche mezzi per “l’utilizzo di dati”, facendo riferimento a big data, open data, internet of things, machine-to-machine e cloud computing. Tutte queste risorse rappresentano un motore per l’interpretazione di grandi quantità di dati, essenziale nel processo di marketing e advertising delle imprese.
E’ infatti noto che esiste una diretta correlazione fra la quantità di dati, vitale per una loro analisi significativa, le risorse con cui vengono portate avanti queste analisi e l’efficacia di marketing e advertising stessi.
Attraverso misure e agevolazioni mirate quindi, le istituzioni propongono un modello di supporto alle imprese fondato su iper e super ammortamento (meccanismi che permettono di ridurre le tasse) per favorirne la digitalizzazione e con essa il web advertising.
Se quindi da un lato la politica italiana incoraggia in maniera esplicita la digitalizzazione e l’attività di marketing online delle PMI, dall’altro il rapporto tra enti statali e campagne pubblicitarie è molto diverso. La dinamica si esplica principalmente in due modi: in un primo caso l’advertising delle grandi aziende si traduce in vera e propria attività di lobbying sulle istituzioni; in un secondo, invece, sono gli stessi enti statali che finiscono per incoraggiare – per disattenzione o intenzionalmente – le loro campagne pubblicitarie. Per i casi che seguono si potrà obiettare che la maggior parte dell’attività pubblicitaria non si svolge esclusivamente sui social, ma anche su altri mezzi, principalmente testate giornalistiche. La realtà però è che la stragrande maggioranza degli annunci sulle testate online sfrutta i servizi di Google Ads, software appartenente all’omonimo gruppo Google: una delle aziende più invasive in termini di tracking e utilizzo dei cookies. Di conseguenza, anche questo caso rientra nella dinamica di allargamento del divario tra PMI e grandi aziende nell’ambito dell’advertising.
Il primo caso di dinamica sopracitato si può esemplificare attraverso un episodio molto recente. Il 23 ottobre l’Europarlamento sulla Politica agricola comune (PAC), storico programma di sussidi agli agricoltori che copre quasi un terzo del budget europeo, ha votato contro la richiesta di vietare l’utilizzo di definizioni legate al consumo di carne, come “bistecca” o “hamburger”, per prodotti alimentari a base vegetale.
La lobby europea della carne ha fortemente incoraggiato la richiesta, avviando una campagna multimediale a favore dell’emendamento. La manifestazione più eclatante è stata il tappezzamento di Bruxelles con cartelli che riprendevano la frase del celebre dipinto di René Magritte Ceci n’est pas une pipe (Questa non è una pipa), sostituendola con lo slogan “Ceci n’est pas un burger” (Questo non è un burger) accompagnato dall’immagine di un hamburger vegano. In Italia la campagna è stata guidata da Uniceb e Assocarni. Entrambe sono associazioni nazionali che rappresentano molte imprese nel mercato della carne ed entrambe vedono ai loro vertici esponenti delle più grandi aziende del settore. Per quanto riguarda Assocarni infatti l’attuale presidente è Luigi Pio Scordamaglia, amministratore delegato di Inalca S.p.a., una delle maggiori società nell’industria della carne. Secondo i numerosi curriculum vitae dello stesso Scordamaglia che si trovano online, Inalca S.p.a. ha più di 4000 dipendenti e circa 1,3 miliardi di euro di fatturato. Prima di lui alla presidenza dell’associazione c’era Luigi Cremonini, fondatore del gruppo Cremonini, di cui la stessa Inalca fa parte assieme a un’altra decina di aziende. Il consiglio di presidenza di Uniceb invece vede tra i membri della sua presidenza in grande maggioranza – tre su quattro – dirigenti di imprese che per fatturato o numero di dipendenti sono assimilabili alle grandi imprese, almeno secondo quanto si legge sui loro bilanci ufficiali. La campagna italiana è stata condotta sulle principali testate giornalistiche e sul web, attraverso anche video informativi di vario genere.
L’emendamento non è passato. Ma il grado di pervasività della campagna pubblicitaria è piuttosto evidente se si considera che questo dibattito, in teoria marginale all’interno di una discussione fondamentale come la PAC europea, è riuscito ad occupare un posto centrale su tutte le testate e sui social. Gli effetti collaterali sono altrettanto chiari, come spiegano i movimenti ambientalisti: Marco Contiero, direttore della politica agricola dell’UE di Greenpeace, ha dichiarato ad alcune testate giornalistiche che “stanno confondendo il dibattito sulla riforma dell’agricoltura con un inutile voto sui nomi dei prodotti alimentari”. La stessa posizione, ancora più dura, è stata espressa da Greta Thunberg in un post su Twitter in cui si legge che “mentre i media parlavano dei nomi di hot dog vegani, il Parlamento europeo ha firmato per 387 miliardi di euro per una nuova politica agricola che è in pratica una resa su clima e ambiente”.
Pubblicità regresso
La seconda tipologia di rapporto, in cui le attività pubblicitarie di grandi aziende incontrano la collaborazione stessa delle istituzioni, viene perfettamente rappresentata da una serie di episodi avvenuti tra il 2018 ed oggi.
Proprio al 2018 risale infatti l’appoggio dello Stato italiano per il lancio de “La Stellina della carne bovina”, portale di approfondimento di una campagna di informazione lanciata da Assocarni, in collaborazione con la Rai, sul consumo consapevole della carne bovina italiana. Si tratta della prima campagna pubblicitaria finanziata dal MIPAAF (Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali), il cui obiettivo è evidenziare i valori nutrizionali e l’importanza delle proteine animali nella dieta mediterranea, oltre al contributo della zootecnia alla tutela del territorio. Tale promozione, a sostegno di una filiera dal valore di 10 miliardi di euro per l’industria agroalimentare e 6,4 miliardi per il settore primario di riferimento, è andata in onda per due settimane con prodotti audiovisivi ideati per i canali Rai (TV, web, radio e cinema del circuito di Rai Pubblicità) con il format “Lezioni di etichetta”. I diversi spot rimandano al sito della campagna, dove si trovano dati e informazioni che fanno apparire l’industria della carne come un settore particolarmente sostenibile. Diverse sono state le critiche, rivolte soprattutto alla faziosità delle informazioni trasmesse. Per fare un esempio, sul sito si dice che la produzione zootecnica (carne, latte e uova) è responsabile solo del 14% delle emissioni totali di gas serra. Ciò è vero ma non vengono dati termini di paragone, quindi non viene detto che quella cifra è uguale alle emissioni dell’intero settore dei trasporti – non a caso sia l’alimentazione sia i mezzi di trasporto sono entrambi aspetti fondamentali su cui intervenire per uno stile di vita sostenibile, come spiega un report dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) intitolato Global warming of 1.5°C.
Rimanendo sul tema, sempre nel 2018 Assocarni ha ricevuto 169.000 euro dall’Unione Europea a sostegno di una campagna multimediale dal valore di 5,9 milioni di euro per incentivare il consumo di carne di vitello in Italia, Francia e Belgio (dove viene impiegato quasi il 70% della carne di vitello in Europa). La campagna si è svolta (e si continua a svolgere) per gli anni 2019, 2020, 2021. Uno dei suoi elementi principali è il sito internet “Viva il vitello” disponibile in italiano, francese e olandese, in cui vengono elencate le qualità del vitello e viene data una rappresentazione idilliaca degli allevamenti con frasi del tipo “L’allevatore osserva molto i suoi animali: ogni mattina fa il giro dell’allevamento e controlla i vitelli uno per uno, in questo modo si assicura che stiano bene, mangino bene…”. Ciò sembra andare in contrasto con i dati del rapporto Feeding the problem the dangerous intensification of animal farming in Europe di Greenpeace del febbraio dell’anno scorso, in cui si legge che già nel 2013 tre quarti delle unità di bestiame (72,2%) nei 28 Paesi Ue sono stati allevati in aziende agricole di grandi dimensioni e allo stesso tempo stavano diminuendo sempre di più le aziende agricole di minori dimensioni.
Accanto a casi eclatanti di collaborazione attiva tra le istituzioni italiane e europee con l’attività pubblicitaria delle grandi aziende, esistono anche casi in cui le stesse grandi aziende riescono a sfruttare incentivi alle pubblicità pensati per aziende minori. Il decreto della presidenza del Consiglio dei Ministri del 18 marzo 2020 ha approvato la lista dei beneficiari del credito d’imposta per gli investimenti pubblicitari incrementali su testate registrate (comprese quelle online) e sulle emittenti televisive e radiofoniche locali, relativo all’anno 2019. In pratica, un’azienda che aumenta il proprio investimento in pubblicità su testate registrate ha uno sconto sulle tasse. Per ogni soggetto ammesso alla fruizione è destinato un tetto massimo di 200.000 euro, con eccezioni specificamente indicate per i settori dell’autotrasporto, agricolo, della pesca e dell’acquacoltura. Proprio l’esistenza di questo tetto massimo rivolge l’incentivo in maniera evidente alle PMI. Infatti, nella maggior parte dei casi, le aziende più grandi pagano diverse decine di milioni di euro di imposte (nel bilancio del 2019 di Renault Italia le imposte arrivano a 22 milioni di euro). Ciò riduce anche il tetto massimo a una quantità irrisoria: 200.000 euro su 22 milioni sono meno dell’1%. Se si prende invece un’azienda che nella lista dei beneficiari dell’incentivo risulta a metà – Zoomarine, con circa 20.000 euro di credito d’imposta – si può notare come in questo caso i 20.000 euro si applichino su una cifra di imposte da pagare di 400.000 euro: si tratta già di un’influenza cinque volte maggiore ed è probabile che vada ad aumentare man mano che si prendono in esame imprese più piccole. Nonostante questo, non sono poche le aziende di grandissime dimensioni che hanno ottenuto il massimo di incentivo. Tra queste figurano anche industrie di settori direttamente inquinanti – e della cui attività pubblicitaria abbiamo già parlato – come quello automobilistico. Opel Italia, Citroen Italia, Peugeot Italia hanno infatti ricevuto 200.000 euro di credito d’imposta. Tutte e tre le società peraltro fanno parte dello stesso gruppo industriale, Groupe PSA, che secondo le notizie più recenti è in via di fusione con un altro colosso del settore, FCA. Il risultato quindi è un incentivo all’attività pubblicitaria il cui beneficio è di gran lunga maggiore se rivolto alle PMI, sia in termini di impatto economico sia in linea di principio, visto che come si è dimostrato le aziende più grandi non hanno difficoltà a portare avanti la propria attività pubblicitaria. Ma che viene comunque dominato da colossi di diversi settori, alcuni anche altamente inquinanti, andando a sottrarre risorse al fondo messo a disposizione per l’incentivazione della pubblicità. A danno delle PMI.
Tirare le somme
Ad oggi il mercato pubblicitario online è dominato dalle grandi aziende. Le piccole e medie imprese hanno diverse difficoltà nell’organizzare campagne pubblicitarie a lungo termine e con obiettivi precisi, con il risultato che la stessa attività di online advertising diventa meno redditizia se non addirittura un investimento in perdita. In alternativa, per riuscire a raggiungere un numero adeguato di persone, le PMI si devono affidare a piattaforme di giganti del settore come quelle del food delivery anche a costo di commissioni particolarmente pesanti.
Gli enti statali, che pure incoraggiano la pubblicità e la digitalizzazione delle PMI, finiscono per incentivare l’attività promozionale delle grandi aziende sia involontariamente che volontariamente, legittimando la diffusione di informazioni ingannevoli e parziali. In alcuni casi più eclatanti l’attività di advertising delle grandi aziende finisce invece ad influenzare gli stessi enti statali e il dibattito politico. Il risultato è un circolo vizioso che rende molto difficile l’affermarsi delle PMI nelle attività di advertising. Con la conseguenza che qualsiasi reale possibilità di transizione verso un’economia sostenibile si allontana sempre di più, insieme a un forte danno ai soggetti portatori di un importante valore sociale e culturale del tessuto produttivo italiano.
Articolo di Chiara Di Tommaso, Matilde Marcozzi, Francesca Maria Lorenzini, Luca Pagani e Francesco Paolo Savatteri