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Ep.1 – Cecilia (ristorante)
di Giulia Della Cioppa
Ci siamo dati appuntamento per le nove, come ogni anno, sebbene io sappia anche quest’anno che non saranno mai le nove. Nei nostri appuntamenti rimane tacito un accordo di puntualità piuttosto personale, dunque ci affidiamo all’idea del “venite un po’ quando vi pare”. L’importante è saperlo, così nessuno si offende o si risente. Era peggio quando i primi anni ci caricavamo d’aspettative, che poi non desideravamo chissà che, solo sederci e ordinare insieme, per esempio, e invece siamo sempre stati un gruppo d’amici da parti trigemellari; c’era più probabilità che cadesse un aereo che arrivassimo tutti insieme. Non li biasimo, anche io ho uno strano rapporto con la puntualità, non saprei dove collocarmi, non tra quelli poco puntuali, né tra gli altri.
Franco sarà lì alle otto e quaranta a fumare all’entrata del locale la sua ventiquattresima, forse venticinquesima, sigaretta della giornata, con una camicia a maniche corte, che se proprio volessimo dire non è manco una camicia, quelle con le maniche lunghe non le indossa, non le ha mai indossate. Manfredi arriverà per le nove e un quarto – quei quindici minuti sono sacri per rendersi desiderabile- non accetterebbe di essere il primo, non saprebbe come si aspetta, come si inganna il tempo, dove mettersi a sedere, se già al tavolo o se aspettare in macchina.
In ogni caso prima che arrivi Flaminia facciamo in tempo a morire e a rinascere. Ho letto che Ludovico arriverà solo per il dolce. “Ho un evento di beneficenza a cui non posso mancare” ha scritto e io l’ho letto una volta e poi l’ho riletto borbottando e facendogli il verso. Che animo nobile, gli avrà detto la madre quando l’ha chiamato per la dodicesima volta nella stessa giornata e lui si sarà chiesto che mondo sprecato sarebbe stato senza di lui. Anch’io ho creduto per molto tempo che la mia vita fosse inutile, senza di lui. Ho pensato a Ludovico quando una mia paziente, l’altro giorno, mi ha ripetuto un po’ di volte che vorrebbe pensare come pensa un uomo bianco, etero, mediamente ricco, non disabile, quindi l’equivalente di mediocre e indolente, e io le ho risposto che l’empatia proiettata genera spirito critico e che per questa differenza doveva ritenersi fortunata. La sua esistenza non sarebbe stata certo monotona, vuota -forse più faticosa, ma questo l’ho omesso- al contrario dell’uomo bianco, etero e via dicendo. «Sarà, dottoressa… ma a me sembra di conviverci col vuoto,» ha risposto sorridendo lentamente e facendomi un poco di tenerezza.
Prima ancora di elaborare un commento rassicurante per la mia paziente, però, Ludovico si era già materializzato nella mia testa alle parole bianco, ricco, immobile e non ho potuto fare altro che pensare a lui e a me a diciotto anni, con la mia mano nella sua, il giorno della maturità. La premura che aveva nello spostarmi i capelli dietro alle orecchie e tracciarmi il perimetro del viso con le dita, per non perdersi nessun ciuffo, liberarmi la faccia da alghe scure, come fossi un lago, credo sia stato uno dei motivi per cui mi sono perdutamente innamorata di lui, senza misura, né contegno, né riserva.
Avrei voluto dire a lei “tutte noi siamo state vittime, almeno una volta, di uomini affetti da sordo privilegio e immobilismo” per rincuorarla, per rincuorare me, ma le ho solo stretto la mano e l’ho accompagnata alla porta.
Stasera abbiamo prenotato in un posto nuovo perché quello in cui andiamo di solito è tutto pieno. Il proprietario, il vecchio baffuto con le finestrelle sui denti, ci ha detto fischiettando e con tono punitivo: «È dieci anni che prenotate il giorno prima, non ve poteva andà sempre bene». A questo punto mi auguro non sia stato Manfredi a occuparsi di trovare un altro ristorante. In questi anni ha passato così tanto tempo a lamentarsi del vino scadente e del posto da “zecche” che avrei paura se volesse rifarsi degli anni di insoddisfazione. È vero pure che se non gli piaceva avrebbe potuto rimanersene a casa sua. Non direi che Manfredi è uno che si fa scrupoli nel dire no agli appuntamenti, anzi, è uno di quelli che come giustificazione ad un eventuale diniego sceglie imprevisti e finte scuse con poca cura, senza fregarsene che sembrino esattamente finte scuse e improbabili imprevisti.
«Neanche questo è l’anno buono?» dico a Franco appena lo vedo, prima ancora di baciarlo per bene e farmi stringere. Lui ha già capito cosa voglio dire e risponde: «Ormai non smetto più», con gli occhi di chi non ha pretese e come uno a cui un poco piace farsi vincere. Si porta alla bocca la sigaretta velocemente e le dita hanno i contorni neri, di grasso e motori, conservano qualcosa di antico, l’attaccamento alla terra. Non mi hanno mai dato fastidio le mani di Franco nere e ruvide, neanche quando mi accarezza il volto proprio adesso e mi dice che mi trova bene.
«Tu sei sempre bello» gli dico e lo penso, ma lo vedo stanco. Franco è stanco da una vita. Il tavolo sta nella punta di un triangolo che dà su un giardino pieno di fiori di campo. Sembra un posto di campagna, pure se è in città, e mi accorgo, ben presto, che la scelta non l’ha fatta Manfredi. Al centro della tavola, tra i bicchieri, c’è un segnaposto con su scritto VD e quando lo vedo dico: «Mi mette un po’ d’ansia questo numerone… quintadì,» e mi siedo, come se lo facessi al mio banco, per un attimo, accanto a Flaminia, che ancora non c’è.
«Páthei Máthos,» dice Franco, afferrando l’intuizione.
«Mi viene da piangere, se lo ripeti,» dico stringendomi nelle mani.
«Ci ha abbastanza logorati, quella stronza della Cafiero, eh?»
«Ci ha logorati? Mi ha fatto venire un disturbo da stress post traumatico!»
«Eh… a me una cosa che si avvicina alla sociopatia».
«Non sei mai stato un sociopatico» dico convinta.
«Un introverso sì, però».
«Solo con quelli che non ti piacevano».
Fa un ghigno e poi aggiunge: «Quindi con chiunque, salvo rare eccezioni».
Hanno attorcigliato dei tovaglioli in un filo di paglia e sotto ai piatti ci hanno messo dei canovacci stropicciati, come appena usciti dalla lavatrice e mai stirati. Ho il dubbio, per un attimo, che sia un errore commesso al nostro tavolo e poi mi accorgo che no, sono tutti così. Franco mi guarda e fa un cenno con la testa come a dire dove ti siedi? e io gli punto il dito contro, per rilanciargli la responsabilità.
«Solo te potevi prenotare in un posto così,» ci interrompe Manfredi da lontano, facendo sbattere i suoi tacchi rumorosi a passo spedito. Viene verso di noi con un completo gessato, in un sorriso smagliante che lo irrigidisce fino a farlo sembrare bloccato in una paralisi facciale. «Manco se mi pagano ci vengo un’altra volta,» aggiunge poi, prima di dire ciao, cambiando espressione. Quindi si tiene la giacca e si siede sulla prima sedia che trova.
«Dici così da dieci anni e poi mai una volta che te ne stai a casa,» risponde Franco, senza scomporsi, a voce bassa.
Manfredi si guarda intorno, non per guardare veramente, ma per controllare che lo guardino e poi si gira verso di me e mi dice: «Ma dove c’ha portato, questo?» riferendosi a Franco. Mi guarda dritta negli occhi e ne strizza uno, come a voler giocare sui sottintesi, quali? mi chiedo; forse sta solo ammiccando… ci conosciamo da quasi vent’anni e non posso immaginare che abbia ancora slanci ormonali in sospeso, piuttosto è un bias, un comportamento appreso: l’uomo esperto vuole rassicurare. E mi viene un po’ di tenerezza, perché non lo vedo né sicuro, né rassicurante. Si scrocchia le dita come quando lo tenevano alla cattedra e cercava di placare l’agitazione. Sono tentata di consigliargli una terapia, ma poi gli mando solo un bacio con la mano. Incitarlo all’analisi sarebbe come insinuare che ne ha bisogno e lo ferirei nell’orgoglio incrinando la sua immagine sociale, almeno quella di stasera, perché ci penserebbe a quello che gli dico. Fingerebbe di no, ma sarebbe sì. Ci penserebbe più degli altri, perché non sopporterebbe una “diagnosi” pubblica. Per un uomo come lui sarebbe come sentirsi dire che ce l’ha così piccolo che –Ahi- non si sente niente. Morirebbe, e io non voglio giocare sporco.
«Questo posto è peggio di quello del vecchio sdentato, e ce ne vuole…» continua lui, con la paternale odiosa/insidiosa.
«Pane e risentimento hai mangiato a colazione?» chiede Franco, mettendosi in bocca un pezzo di pane, senza dargli la soddisfazione di guardarlo negli occhi.
«Risentimento, senti che parole. Aggiusti sempre le macchine Franco? O sei diventato un letterario?»
«Sì, letterario. Un libro sono diventato».
Non trattengo la risata, ma poi mi castigo e me la faccio passare subito. Dico solo: «Basta, siamo qui da dieci minuti e vi state scannando». Manfredi dissente come a dire che la colpa non è la sua. Ha le pupille tanto dilatate che mi chiedo se non si sia appena fatto di cocaina. Con un rumore più forte di una porta che si chiude, si apre la porta del ristorante e prima che ci accorgiamo che sia lei, Flaminia ha già raggiunto il tavolo, energica.
«Meno male che ti conosciamo, perché altri t’avrebbero già lasciata a piedi,» dice Manfredi sbuffando. Flaminia perde il sorriso e ingrugnisce il volto, armeggia con la giacca per togliersela e sedersi, vuole fare presto ma si incastra e tenta di non dare nell’occhio, per non cadere nell’impaccio.
«Scusate ragazzi! Un cliente mi ha trattenuta dopo la lezione, non sapevo come mollarlo». Riesce a mettere la giacca intorno alla sedia e si gira su sé stessa, come a fare mente locale.
«Cosa cerchi?» le chiede Franco.
«Un bagno».
Ha le braccia tanto toniche che è bello stare solo a guardarle muoversi. Poi si ferma su di noi e distende le linee del viso, come avesse visto sguardi indulgenti, innocenti e si fosse finalmente fermata, come avesse preso respiro «Siete proprio belli, amici miei, da quanto tempo!».
«Da un anno,» dice Manfredi.
«Lia, amore, non invecchi mai. Hai fatto mica un patto col diavolo?»
Allora l’abbraccio e le sorrido. Forse vuole farmi felice, farmi sorridere, farmi bene, forse non la pensa- la storia del patto col diavolo- ed è sincera la sua intenzione. Sento profumo di deodorante sportivo e i suoi muscoli forti contrarsi. È sempre stata un nervo, la prima ad arrivare alle feste, l’ultima ad andare via. La più piccola e la più vitale. Ho sempre pensato avesse un demone incatenato da qualche parte nella pancia e che l’unica chance che aveva per non farsi divorare, sarebbe stata assecondarlo.
«Stai sempre meglio tu, eh?» le dice Manfredi.
«Io me la cavo dai, Manfre. Me la cavo. Anche a te, ti vedo bene… monello!» Poi gli strizza l’occhio, come a dire ci siamo capiti e va in bagno.
Franco sfila il tovagliolo e lo appoggia sulle gambe lentamente e Manfredi ha preso a parlare dello studio legale. «Io e Ludovico prendiamo ormai solo civile, nell’assicurativo si fanno bei soldi».
«Continuate ad essere soci?» chiedo io, perché un po’ ne sono sorpresa. Per quel che ne so entrambi bramano il potere e non mi aspetto sappiano gestire a sangue freddo desiderio di gloria e frustrazione. È vero pure che gli uomini fanno squadra in questo modo stranamente vincente che non riesco ancora bene a spiegarmi. «Non potrei avere socio che non sia lui» dice lui. Poi non riesco bene a deglutire, a mandare giù la saliva e a respirare bene. È un’impressione o sono gli studi legali che mi mettono le mani alla gola, forse anche le regole del diritto, o i diritti degli uomini e solo degli uomini, forse pensare a me adolescente, o a me sola, spacciata. Metto le mani sul tavolo e aprendo le dita apro pure i polmoni. Franco mi tocca la mano, solo il mignolo, me lo sfiora con la sua e io credo che abbia già capito. Lui certamente avrebbe dovuto fare il terapeuta, forse solo il mio? Io ci sarei andata da uno come lui. Ci sono persone, al mondo, che tranquillizzano, fanno l’effetto di una canna, o dello xanax, ma meno tossico. Ora basta, mi dico, e torno da loro.
Ci portano un’entrée di tonno come benvenuto, che non abbiamo ordinato, e anche dei totanelli con un sugo rosso, di cui Franco tenta di scoprire gli ingredienti, come se fosse più concentrato a svelarne la composizione, che a godersi la portata. Allora ne fa un elenco e ci chiede se li sentiamo pure noi. Flaminia gli dà corda, così sfila una penna dalla sua borsa sulla quale c’è stampato un grande logo che dice Dimensione Danza e segna su un pezzo di carta i sapori, le spezie e gli ingredienti. Flaminia è capace di giocare così seriamente che sarebbe in grado di dare a tutte le cose la stessa importanza; si ostina come fa un insetto che sbatte sempre contro lo stesso vetro. Lei si ostinava pure con gli amori, di ossessioni e malattie, ma poi con la stessa facilità se ne liberava. A posteriori non sono sicura scegliesse davvero, ma quanti scelgono a diciotto anni?
Quando ci portano i menù, ci troviamo a fare pace con i ricordi comuni, i racconti degli anni di scuola, la frustrazione dei nostri voti mediocri, post maturità, come ogni anno. Questo evento diventa nostalgico al punto che mi sembra ci manchi, anche solo per un attimo, essere adolescenti. «Tu eri raccomandata,» dice Manfredi a un certo punto e io puntualmente sono costretta a rispondere che se fossi stata raccomandata non avrei mai preso 75.
«Settantacinque non è un voto da raccomandati,» mi difende Flaminia.
«Fai un lavoro che non è neanche un lavoro,» ribatte lui, perché non sa incassare, ma neanch’io incasso con piacere e mi viene voglia di non capire più nessuno e metterlo al tappeto toccando nei punti in cui so che gli fa male, ma non voglio farlo.
«Credo invece che potrebbe farti bene chiacchierare con un terapeuta, sai?» invece lo faccio.
«Credo anch’io,» mi dà man forte Franco.
«Io non ho bisogno di farmi spillare soldi da uno psicologo».
Flaminia fa spallucce come a dire non so, la questione è complessa e poi si gira, simultaneamente, in direzione di chi parla.
«E neanche di farmi prendere in giro da finti intellettuali. Voi volete i soldi esattamente come tutti gli altri». Allora mi metto meglio seduta sulla sedia e gli chiedo: «Noi chi?»
«La vostra categoria».
«Nessuno ha mai negato che per vivere servano soldi».
«Ah no? Ma non vivete d’aria?» Scuote la testa da una parte e dall’altra e aggiunge «Borghese lo sei sempre stata. Per stare con Ludovico poi…».
«Avevo diciotto anni e poco senso d’orientamento» rispondo con un’aria risentita e rimetto le mani sul tavolo e apro le dita per aprire i polmoni.
Flaminia e Franco ci ascoltano senza intromettersi. Ascoltano come se i nostri fossero conti importanti da saldare, almeno questa mi sembra la modalità di Franco, che si pulisce la bocca portandosi il fazzoletto sui baffi e sorride compiaciuto, accorgendosi di potersi divertire ancora. Non so se Flaminia reputi importante la lizza, sembra che pensi che le cose per cui arrabbiarsi non siano queste, che invece dovremmo godere di questo tempo insieme. Io le ho sempre invidiato la capacità di guardare le cose con distacco e la lontananza dal risentimento, la capacità di prendere, impacchettare il dolore e lanciarlo molto lontano. Ecco, io non lo so se lo abbia mai fatto consapevolmente, ma sa lasciar andare e io che non riesco a fare meglio che dar da mangiare al mio risentimento, rimanendo attaccata alle ferite, ammiro e invidio chi vive momento per momento. Comunque dico a Manfredi che non c’è necessità di attaccare, se si sente minacciato e quando lui sta per dire qualcosa Flaminia sbatte le mani come a dire dai fate la pace.
Mi sono chiesta più volte come ci siamo riusciti a portare avanti questo patto di continuità. Cosa ci abbia spinto a non tirarci mai indietro è difficile da dire. Certo è evidente che non saremmo amici se non fossimo stati compagni di classe e si sa che la vita è così frenetica da trascinare in vortici sempre più stretti e profondi. Mentre Manfredi chiama il cameriere per ordinare il vino, Franco mi fa un cenno con la mano per catturare la mia attenzione. Indica un mobile, un tavolo, una finestra, o un uomo di spalle.
«Cosa?» gli chiedo.
«Quello, non è il tuo amico?» mi chiede senza dubitarne troppo. Assottiglio la vista per mettere a fuoco, ma non vedo niente di familiare. È alto e magro e cammina in un modo strano: si appoggia sulle anche. Se lo conoscessi, e soprattutto se fosse mio amico, questo sarebbe certamente un parametro utile.
«Francone, mi sa che ti confondi».
«Lia, è lui!» ribatte convinto.
Lo tengo d’occhio e quando si volta e si muove con due portate nelle mani, lo riconosco, malgrado non distingua ancora bene i tratti. È vero, è lui. Una scarica elettrica mi ovatta il cervello e d’istinto cerco con le mani i braccioli sottili della sedia, li trovo. È Gioele.
Articolo di Giulia Della Cioppa