Ep.7 – Flaminia (ristorante)

di Costanza Chirdo

07/05/2022

Guardo la figura di Lia scomparire dietro la porta del ristorante. Manfredi sta facendo lo stesso, aspetta che la porta si chiuda dietro di lei, poi si gira a guardarmi.

«Si è fatto carino?»

Pronuncia quelle parole quasi con disprezzo.

«Che c’è? Sei geloso?» lo stuzzico. Lui sbuffa, batte una mano sul tavolo e inclina la testa chiudendo gli occhi.

«Tu proprio non ci arrivi, Flamì».

Il suo tono è cambiato in modo inaspettato.

«Di quello che è successo tu non hai la minima idea proprio» continua. Mi guarda negli occhi. Non so che dire. Scoppia a ridere. Guardo il bicchiere di vino semivuoto nella sua mano, il liquido rosso ondeggiare tempestosamente all’interno.

«E’ incredibile» sbiascica. È sbronzo.

«Cosa?» chiedo sorridendo. È sempre buffo Manfredi quando è sbronzo.

« Cosa?» mi fa il verso lui, continuando a ridere. Beve un altro sorso di vino.

«Dai, cosa?» insisto divertita, dandogli una lieve spinta sul braccio. Manfredi deglutisce il vino, poggia il calice sul tavolo con forza, facendo rumore. Non stacca la mano dal bicchiere, né lo sguardo.

«E’ incredibile» borbotta tra sè.

«Cos-»

«Dio mi aiuti a mantenere la calma se me lo chiedi un’altra volta!»

Nel ristorante è calato il silenzio. Noto con la coda dell’occhio i volti delle persone girarsi nella nostra direzione. Manfredi mi guarda.

«Forse dovremmo essere tutti un po’ più come te, eh Flamì?» continua, il tono di voce sempre alto. Mi ritraggo sulla mia sedia mentre lui butta giù un altro sorso di vino.

«La vita è più facile quando non si capisce un cazzo, eh?»

«Che succede?» Lia è rientrata, seguita da Franco. La mano sullo schienale della sua sedia, guarda Manfredi con espressione preoccupata.

«Che succede, che succede?» cantilena lui, sbottonandosi il primo bottone della camicia.

«Perché non lo chiediamo a Flaminia che succede?» continua, alzando di nuovo la voce. «Anzi perché non le chiediamo cosa è successo quella sera a casa tua, eh Lia?»

«Manfre-»

«Manfredi un cazzo!» la interrompe lui, urlando stavolta, alzandosi in piedi «ma siamo qui a prenderci in giro?! O siamo qui a prendere in giro lei?» mi indica senza guardarmi.

«Vogliamo parlare dell’argomento proibito? E allora parliamone cazzo. Ma parliamone tutti insieme».

«Datti una calmata-»

«Dattela te una calmata Franco» lo aggredisce Manfredi. Gli dà uno spintone. Franco abbassa lo sguardo un secondo, prima di guardarlo dritto negli occhi, sollevando il mento leggermente. Non dice niente. Si fissano, in silenzio. Ho le mani informicolate.

«Come ti pare» dice poi Manfredi, abbassando lo sguardo, tornando a sedersi sulla sedia.

«Ma visto che sei tanto buono e onesto io ci penserei a dare una svegliata a quella lì» mi indica con un cenno della testa, senza guardarmi «o il prossimo cazzo in culo senza consenso sarà lei a prenderselo, se non se l’è già preso».

Eh?

Cerco lo sguardo di Lia, ma la trovo che fissa il pavimento. Franco si irrigidisce, inspira senza distogliere lo sguardo da Manfredi. Nessuno mi guarda. Mi sento come se non fossi presente.

«Magari non se ne accorgerebbe neanche» aggiunge poi Manfredi, guardandomi in un modo in cui non mi ha mai guardata prima. Nessuno dice nulla. Sento un peso, un peso inaspettato, un peso non so di cosa, iniziare a gravarmi addosso. Il peso di quello sguardo? Di quelle parole? O di qualcos’altro?

«Alla tua Flamì» Manfredi alza il calice di vino nella mia direzione «alla bellezza del non capire un cazzo-»

«Adesso basta, Manfredi» si intromette Lia.

«Alle droghe, all’alcol, ai riti del cazzo» continua lui «alla capacità che ti danno di alienarti dalla realtà al punto di non realizzare nemmeno quello che ti succede davanti, neanche dopo dieci anni».

Sto respirando veloce. Inspira, espira, inspira espira inspira espira. Vedo Lia parlare, dire qualcosa in direzione di Manfredi, e vedo lui rispondere, gesticolare, ridere, ma non sento niente. I suoni si ovattano. …o il prossimo cazzo in culo senza consenso sarà lei a prenderlo. Manfredi mi guarda. Le sue parole mi rimbombano nella testa. Se non se l’è già preso.

Fisso il mio calice ancora pieno di vino, l’impronta del mio rossetto sul bordo del bicchiere. Ho un vuoto allo stomaco. Il calice inizia a vibrare, come se emanasse onde nella mia direzione, onde magnetiche che mi attraggono come una calamita. Si avvicina a me. Non si muove ma si avvicina a me, l’impronta del mio rossetto sempre più vicina, così che distinguo le venature delle mie labbra, sempre più vicine, sempre più distinte. Sento il sangue pulsarmi nelle orecchie, assordarmi, non sento niente, vedo e basta, solo l’impronta di quelle labbra, sempre più vicine, troppo vicine, troppo vicine…

Ho 18 anni. Sono in bagno, sbronza, rido da sola. Rido guardandomi allo specchio. Mi siedo a terra. Rido, rido, non penso a niente. Calici. Ci sono due calici di vino bianco. Un calice di vino, l’ho appena poggiato di fronte allo specchio. C’è l’impronta del mio rossetto sopra. Gioele. Gioele ha 18 anni. È magro, mingherlino, ha un calice di vino in mano. Lo sorseggia, ride, guarda Ludovico, in piedi accanto a lui con un altro calice di vino in mano.

«Tutto bene, signora?»

Il suono di quella voce mi riporta al presente. Gioele, 28 anni, alto, più robusto, anche se sempre magro, sta prendendo il piatto vuoto di fronte a me. Lo guardo. Lo fisso, senza rispondere, fino a che lui non incrocia il mio sguardo. Si ferma. Sento il piatto che aveva in mano fracassarsi a terra, il suono di un milione di pezzi che si spargono sul pavimento. Poi silenzio. Vedo altri due camerieri approcciarci, uno inizia a raccogliere i cocci del piatto, l’altro parla, urla in faccia a Gioele che rimane fermo, impassibile. Un fischio assordante, sempre più forte, copre ogni suono. Attorno a me succedono cose, le vedo succedere ma non le sento, non sento niente, come se fossi in una bolla.

Il prossimo cazzo in culo senza consenso sarà lei a prenderlo.

Sono nella stanza proibita, Gioele è sdraiato sul divano. È sbronzo, non riesce neanche a parlarmi. Comunica a gesti. Sto scendendo le scale, incrocio Ludovico che sale, lo vedo entrare nella stanza.

Alla bellezza del non capire un cazzo

Sono al piano di sotto, fatta di coca con Manfredi. Lia e Franco sono in cucina seduti al tavolo, a parlare. Mi giro varie volte verso di loro, controllo quando Gioele e Ludovico riscenderanno. Non riscendono.

Neanche dopo dieci anni

Mi alzo dalla sedia. Lo faccio lentamente, sento il corpo così pesante che credo mi si possa spezzare qualche arto se mi muovo troppo velocemente. Lo faccio senza farmi notare dagli altri. Gioele è sparito, non so in che momento se n’è andato. Manfredi sta ancora parlando, ride con disprezzo, sputando vino rosso, batte il palmo della mano sul tavolo. Lia parla a voce bassa, il suo corpo è percorso da fremiti che cerca di controllare tenendo le braccia incrociate, strette al petto, come per tenersi tutta insieme. Franco non sta parlando, guarda Lia in silenzio, si passa una mano dietro la testa. Sento di nuovo un vuoto allo stomaco. Chi sono queste persone?

Spingo la porta del ristorante con entrambe le mani, con tutto il peso del mio corpo. Esco. Ho il respiro ancora affannato. Inspira, espira. Dopo dieci anni. Non mi hanno detto nulla? Nessuno mi ha detto nulla? Per questo Gioele non mi ha più parlato? Gioele non mi ha più parlato. Ogni volta che gli ho scritto, che sono passata vicino a casa sua, che ho provato a salutarlo, quando magari lo incontravo per caso, ha reagito sempre nello stesso modo: mi ha ignorata. Perchè? mi chiedevo. Eravamo amici. Inspira, riempi d’aria i polmoni. Rivedo Ludovico entrare nella stanza proibita, la porta chiudersi alle sue spalle. Rivedo Gioele sdraiato sul divano, sbronzo, quasi incapace di muoversi. Inspira, espira. Devo calmarmi. Inizio a contare, arrivo fino a otto e poi ricomincio. Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto.

Il prossimo cazzo in culo senza consenso sarà lei a prenderlo

Uno, due, tre, quattro…

Alla bellezza del non capire un cazzo

Cinque, sei, sette, otto…

Neanche dopo dieci anni

Urlo. Un urlo forte e lungo. Una coppia si gira a guardarmi. Una madre e un padre, che prendono la loro bambina per la mano mentre si allontanano velocemente. Sta piovendo. Mi rendo conto di essere completamente fradicia. Mi passo le mani sul viso. Non può essere vero. Inizio a camminare su e giù di fronte la porta del ristorante, non riesco a fermarmi. Come può essere vero? Non mi sono accorta di niente. Sento una stretta alla gola, forte, come due mani che cercano di strozzarmi. Non mi sono accorta di niente. Continuo a respirare. Inspiro, espiro, inspiro di nuovo. Chiudo gli occhi e trattengo il fiato. Conto fino a otto. Espiro. Rivedo Gioele sdraiato sul divano, ubriaco, che si muove a malapena. Rivedo quella scena ancora e ancora, e poi rivedo Ludovico entrare nella stanza, la porta chiudersi alle sue spalle.

«Oddio» sussurro a me stessa. Trattengo il respiro di nuovo. Ho i pensieri confusi e le mani ancora informicolate. Espiro. Sento le gocce di pioggia sulle braccia, sulle mani, sul viso. Le sento scorrermi addosso. Inspiro di nuovo.

«Stai a prendere l’acqua, Flamì?»

Spalanco gli occhi.

«Tutto a posto?» Ludovico mi guarda dall’alto in basso, un sorriso gentile dipinto sul viso. Sposta lo sguardo dietro di me, scruta l’interno del ristorante.

«Gli altri stanno ancora dentro, spero» butta per terra il mozzicone di sigaretta che stava fumando, lo schiaccia con un piede. Mi accorgo che tiene un ombrello in mano, mi sta riparando dalla pioggia.

«Stai avendo uno dei momenti tuoi eh?» Si passa una mano tra i capelli, si aggiusta la giacca.

«Mi dispiace non essere riuscito ad arrivare prima» continua, lo sguardo sempre rivolto oltre me, all’interno del ristorante. Mentre mi parla osservo il suo viso, i suoi lineamenti completamente rilassati, la sua espressione serena. Guardo le sue labbra muoversi, la sua bocca aprirsi e chiudersi, poi distendersi in un altro sorriso.

«Tutto bene Flamì?» Passano uno, due, tre secondi. Mi rendo conto di non riuscire a rispondergli, nemmeno con un’espressione del viso. Quindi annuisco, senza dire niente, continuando a guardarlo negli occhi.

«Dai, ci si vede dentro allora». Mi tocca la spalla con una mano mentre mi sorpassa. Sento la porta del ristorante chiudersi alle mie spalle. Mi accorgo che stavo trattenendo il fiato. Espiro.

Articolo di Costanza Chirdo