Ep. 8 – Franco (flashback)

di Andrea Vargiu

13/05/2022

«Che fai, ti guardi i piedi?» mi chiede Flaminia.

Questa notte la luna è in quella fase in cui appare piena ma senza dare la soddisfazione di esserlo veramente, manca un impercettibile spicchio. Il suo riflesso si allunga e si affila sulle onde calme fino ad arrivare alla riva. La luce pallida illumina timidamente la spiaggia. Il mare ci bagna i piedi, guardo giù e vedo i peli sulle caviglie appesantiti dall’acqua appiccicati alla pelle, è strano vederli così.

«Pensavo». Ritorna con lo sguardo verso il nulla. Vede qualcosa che io non riesco a vedere. Un leggero vento dà vita alle sottili ciocche dei suoi capelli. Saltano su e giù sul suo viso. Si accorge anche lei della brezza e chiude gli occhi accogliendola con un minuscolo sorriso.

Manfredi si è addormentato. La bocca semichiusa e il respiro pesante me ne danno la conferma.

«Sembra un bimbo quando dorme» esterno il mio pensiero a Flaminia.

«Chi, Manfre?».

«Sì».

«Si è addormentato?» mi parla continuando a farsi accarezzare dal vento con gli occhi chiusi.

«Sì, e tra poco credo che ci delizierà con un gran concerto di fiati» risponde alla mia battuta con un piccolo gemito.

«Chissà…». Aspetto un momento prima di chiederle di cosa parla.

«Cosa?»

«Chissà dove saremo tra dieci anni».

«Facevamo un discorso simile io e Manfre».

«Siete arrivati a una risposta?»

«Scherzi? Parlare con lui di qualcosa che vada un pelo oltre la superficialità è impossibile» sorridiamo entrambi.

«Sei crudele».

«Forse sì, ma a volte è davvero un gran rompicazzo».

«Ma chi Manfre? Il nostro Manfre? Ma vaa…» ridiamo di nuovo, più forte.

Torniamo in silenzio. Tiro indietro i piedi per toglierli dall’acqua, mi porto le ginocchia al petto, le abbraccio e appoggio il mento sulla gamba destra.

«Fra’».

«Dimmi».

«Lia?».

«È dentro, credo».

«Lo so. Hai capito, dai» il sorriso di pace che aveva prima ora è diventato malizia.

«Tu vivi nelle favole, Flamì».

«Mai una volta che fossero vere». Questa volta ride solo lei.

Lia è Lia, e questo rimane. Altro non possiamo essere. Forse sono io troppo stupido, timido o pavido per voler essere qualcosa di diverso insieme a lei, o forse no, non lo so. Lei ha Ludovico, io continuerò a nutrirmi delle piccole cose. Ha veramente senso rischiare l’amicizia, la sua vicinanza, i suoi sguardi, i suoi abbracci e i suoi baci sulle guance, per un dubbio? Cos’è amicizia? Cos’è amore? Cos’è sesso? Hanno confini? Se ci sono non ne distinguo i contorni, non ora. Forse è solo l’età, giocare a fare il grande non significa esserlo, essere logici non vuol dire essere ragionevoli. Mi chiedo se mi piaccia veramente, e se non siano solo i desideri proiettati degli altri, come Flaminia che ci vorrebbe insieme, o Manfre che lancia sempre battutine “ecco i piccioncini”. Mi piace? Continuo a chiedermelo. Mi piace? Mi piace? Mi piac…

«Ti stai guardando di nuovo i piedi?» Flaminia mi fa resuscitare.

«Pensavo».

«Pensi tanto questa sera».

«Forse troppo».

La brezza è passata dall’essere tiepida all’essere fredda. Il vento è più forte. I capelli di Flaminia non si muovono più dolcemente, non danzano, adesso sembrano lottare per rimanere ancorati alla testa.

«Inizia a fare fresco».

«Un po’» anche lei si abbraccia le ginocchia.

«Rientriamo?».

«No, voglio aspettare l’alba» immaginavo questa risposta.

«Allora ti faccio compagnia».

«No no, vai Fra».

«E stai qui sola?»

«C’è Manfre» lo indica col mento, divertita.

«Sicura?»

«Vai vai, tranquillo» si sdraia e usa la coscia di Manfre come cuscino.

«Va bene, ci vediamo dopo allora»

«A dopo» alza un braccio e mi saluta tenendo lo sguardo sul mare.

 

La sabbia si appiccica ancora ai piedi umidi. Cullato dai passi goffi sulla spiaggia verso casa, vengo assalito dal sonno. Inizio a sperare, un po’ da egoista, che abbiano preso tutti esempio da Manfre e si siano messi a letto. Lia e Ludovico sicuramente saranno insieme, a litigare o a fare pace. Cazzo! Solo adesso mi ricordo che esiste anche Gioele. In tutta la sera gli avrò detto tre parole, anche perché non l’ho più visto. Un po’ mi dispiace per lui, in mezzo a noi che scherziamo con un linguaggio nostro, con battute nostre, estranee a chiunque che non sia nel gruppo. Lui è piccolo, vulnerabile, non mi stupisce che Lia lo tenga sotto la sua ala. Per quel poco che ho visto si muove impacciato, timoroso di sbagliare mossa, costantemente minacciato dai giudizi. Siamo così cattivi? O è lui così insicuro? Forse tutte e due. Ha parlato di più con Flaminia, persino con Manfre ha parlato, io invece, oltre ad essermi presentato, non gli ho detto altro.

La casa da fuori sembra silenziosa, questo mi solleva. Entro. Il piano di sotto è deserto. I piccoli rumori di sopra rimbalzano sulle pareti fino ad arrivare sotto come echi lontani. Stanno spostando qualcosa, colpendo qualcosa.

Abbiamo lasciato una merda, ovunque. Bicchieri ribaltati abbandonati su tavoli, mensole e credenze piangono alcol sul pavimento o inventano laghi appiccicosi su superfici preziose, a detta di Lia.

Il calore dell’interno mi ricorda che fuori, al freddo sulla spiaggia, ci sono quei due sdraiati sulla sabbia. Guardo quello che rimane del divano, che adesso non è più ordinato e composto come prima, per cercare una coperta.

I rumori di sopra vanno e vengono, accompagnati da un morbido rimbombo.

La coperta non c’è.

Lo stridio di un mobile spostato mi raggiunge.

Mi ricordo di averla vista, una coperta sul divano.

Qualcosa cigola con costanza.

Forse è sopra.

Arrivo alle scale, salgo i gradini senza preoccuparmi di attutire il passo, sono svegli. Un gemito arriva da una delle stanze, seguito subito da uno ‘shh’. I rumori si fanno intensi. Sento dei bisbigli, non distinguo le parole, solo un “non cantare” o “non ballare”, non lo so. Arrivo al piano e vedo la schiena di Ludovico scomparire veloce dietro la porta della stanza sua e di Lia. La stanza off-limits è aperta, un fascio arancio sfugge da dentro la camera. Mi avvicino, questa volta cercando di fare piano. Sento tirare su col naso, un singhiozzo. Forse è Lia. Appoggio il palmo sul legno della porta e la spalanco.
L’aria è pesante, c’è puzza di sudore. Sul pavimento ci sono una maglietta bianca e un paio di jeans blu scuro. Il fascio arancio arriva dall’ abat-jour rossa caduta ai piedi del comodino e punta proprio contro la porta, mi acceca. Faccio un passo, mi chino e la rimetto al suo posto, sul mobile anch’esso spostato dal muro. La lampada adesso illumina meglio la stanza, i raggi rimbalzano leggeri sulla parete beige ingiallendo tutto. È Gioele. È sdraiato su un letto disfatto. Il coprilenzuolo penzola giù, le lenzuola sono raggruppate al fondo, e il coprimaterasso è agganciato a uno solo dei quattro angoli. Gioele sorride ma ha gli occhi rossi, gonfi e carichi di lacrime. Sono confuso. La fronte madida si aggrotta mentre mi dice qualcosa, ma non lo sento, non lo capisco, non sento e non capisco più niente. Faccio scivolare gli occhi giù, arrivo al collo, deglutisce e il suo pomo d’Adamo pronunciato accompagna per un breve tratto la discesa dei miei occhi. È senza maglia. Ha il petto incavato, le spalle strette e riesco a vedergli le sottili costole aprirsi e chiudersi velocemente al ritmo dei polmoni.

Con lo sguardo seguo una goccia di sudore partita dalla sporgenza tondeggiante della clavicola. La goccia scende, scende fino al suo ombelico all’infuori che ne ferma la corsa. Continuo il viaggio senza guida e arrivo al pube, dove peli ispidi sfuggono dalle mani che coprono il sesso. È senza pantaloni, e le mutande sono infilate solo su una gamba. Riporto gli occhi sul suo viso, mi sta ancora parlando, ma sono troppo stordito per sentire, per decodificare la sua lingua, la mia lingua.

I pensieri mi picchiano la testa, le informazioni sconnesse e la vista di tutto mi dà le vertigini.

La sua mano esile mi afferra. Ha un grande livido blu sotto la spalla. Mi scuote piano. Lo riguardo.

«Franco, oh!» sento di nuovo.

«Che cazzo è successo qui?»

«In che senso?»

«Cosa è successo qui?»

«Nulla, Franco. Che deve essere successo? Niente». Gli trema la voce.

«Perché sei nudo?» alla domanda infila l’altra gamba nelle mutande e se le tira su.

«Avevo caldo» china lo sguardo. Sorvolo per un momento su questo punto.

«Perché piangevi? Va tutto bene?»

«Non stavo piangendo, è l’allergia». Veramente? Veramente pensa che sia così idiota?

«Perchè mi prendi per il cul…» mi pento subito del poco tatto e ingoio la frase senza finirla.

«So che non ci conosciamo, ma tu hai una faccia devastata dal pianto e sei nudo con i lividi sulle braccia, qualcosa è successo» non si era accorto dei lividi, copre quello grosso sotto la spalla con la mano, come se avesse cominciato solo ora a fargli male.

«Sono scivolato mentre cercavo di spogliarmi»

«E nessuno ti ha sentito? Per fare quei lividi devi aver fatto una bel rumore».

«Eravate tutti alla spiaggia».

A quanto pare si è trasformato in un interrogatorio, e io faccio il poliziotto.

«Non tutti, Ludovico non era con noi».

«Ah no? Non so dov-».

«L’ho visto uscire da qui prima di entrare». Rimane in silenzio.

«Ti ha picchiato? Ha pippato, magari è uscito fuori di testa e ti ha picchia-».

«No no».

«Che ti ha fatto?»

Si sporge verso di me e mi afferra il polso. Puzza di alcol.

«Franco, non mi ha fatto nulla. Non è successo niente. Sto bene oka…che stai guardando?»

«Stai sanguinando» la mia voce viene fuori debole. Ritornano le vertigini. Sporgendosi per afferrarmi ha lasciato una chiazza rosso scuro dove era seduto. Mi lascia il polso e si risiede, guarda il lenzuolo a fondo letto ma è troppo lontano per prenderlo e coprirsi; rimane così, nella vergogna e incapace di parola. Mi siedo sul letto lasciandomi cadere. Nessuno parla. Ho lo sguardo perso nel vuoto del pavimento e sento quello di Gioele pesare su di me.

«Gioe…» deglutisco. «Gioele… perché stai perdendo san-»

«Puoi uscire, Franco?» si indurisce.

«Ti vado a prendere qualc-»

«Esci» una lacrima scende giù, fino all’angolo della bocca.

«Se sei ferito dev-».

«Franco!» è una rabbia disperata  a pronunciare il mio nome. Rimango in silenzio a guardare il suo volto umido di lacrime.

«Per favore» torna controllato ma supplicante. «Per favore lasciami solo, ti prego Franco» finisce il mio nome in tempo prima di scoppiare in singhiozzi. Questo ragazzo è solo dolore: non riesco a vedere altro, non riesco a immaginarlo sorridere o scherzare, non adesso. Chiede solitudine per patire solo.

Non insisto più per aiutarlo, mi sembra di torturarlo solamente. Esaudisco il suo desiderio e mi alzo dal letto. Arrivo alla soglia.

«Franco, ti prego non dire nulla» chiudo piano la porta dietro di me, senza pronunciare parola.

Cosa potrei dire? Che cosa ho visto?

Il sonno che avevo prima di entrare in casa è svanito, scomparso.

La coperta non l’ho trovata.

Scendo giù piano, ritorno al divano. Spengo i muscoli e lascio alla gravità il compito di farmi sdraiare sul divano.

Chiudo gli occhi solo per non acquisire nessuna nuova informazione dal mondo, per non sovraccaricare il mio cervello più di quanto non lo sia già.

Chiudo gli occhi e il peso del sonno ritorna e si poggia sulle mie palpebre.

 

Sbatte la porta di casa. Qualcuno parla a voce alta lamentandosi. È Manfre? Apro gli occhi. È Manfre. I primi raggi del sole entrano dalla finestra.

«Sono congelato, congelato!»

Faccio l’errore di farmi vedere sveglio.

«Perchè non mi hai svegliato? Volevi il posticino caldo sul divano?»

Mi metto seduto.

«Manfre» non mi sente. Continua a lamentarsi avanti e indietro cercando qualcosa per coprirsi.

«A seguire quella pazza in spiaggia mi sono preso sicuramente una polmonite».

«Manfre».

«Non c’era una coperta su sto cazzo di divano?»

«Manfre!»

«Che vuoi?»

«Fermati un attimo. Stanotte, o questa mattina, non lo so…» Che sto facendo? «Gioele…» non sono io a parlare. «Gioele è stato…» forse le cose pesanti scivolano più facilmente delle cose leggere.

«Beh? Ha sboccato?»

«Ludo ha fatto qualcosa a Gioele» e questa cosa pesa tanto, troppo, da solo non riesco, non voglio.

«Che gli ha fatto?» probabilmente il mio volto non riesce a trasmettergli la giusta gravità, oppure sta semplicemente fingendo di non vederla.

«Stavo cercando una coperta da portarvi alla spiaggia, sono salito su e ho visto Ludo uscire dalla stanza off-limits» mi ascolta inclinando leggermente la testa. Faccio una pausa e abbassando lo sguardo.

«La stanza era aperta e sentivo qualcuno piangere, sono entrato e c’era Gioele…» stringo i pugni. «Era completamente nudo e… pieno di lividi sulle braccia».

«L’ha picchiato? Perché era nudo?» adesso il suo volto è grave quanto il mio.

«Manfre, io non se… senti io so che sei amicone con Ludo ma Gioele perdeva sangue» non riesco a finire la frase. Ci riprovo. Abbasso la voce e dico da dove usciva il sangue.

«Eh?» non mi ha sentito. Lo ridico.

«Non capisco che stai dicendo»

«Dal culo!» l’ho detto. Ano mi sembrava troppo specifico e sedere troppo infantile.

Rimane immobile. Poi scatta, mi afferra il mento con rabbia.

«Testa di cazzo! Hai pippato anche tu ieri? Sei stato troppo con Flami, inizi anche tu a vedere i draghi» E’ arrabbiato Certo, è arrabbiato.

«Solo perché Ludo si sbatte Lia al posto tuo inventi ste stronzate eh?» lo spingo via dal petto.

«Non è una stronzata».

«Sei un coglion-».

«È la verità, Franco?» chiudo gli occhi, respiro. Mi giro verso la voce di Lia. Un po’ assomiglia a Gioele.

«È la verità?» mi chiede di nuovo. Anche a lei trema la voce, come a Gioele. Sostengo a fatica il suo sguardo teso.

«Dice cazzat-»

«Manfre, stai zitto cazzo» gli risponde continuando a guardarmi.

«Si» dico piano.

«Voi siete pazzi».

Io e Lia continuiamo a guardarci in silenzio. Aspettava il mio ‘si’ per sganciare le lacrime dagli occhi. Piange senza contrarre il viso, senza muoverlo e senza lamenti. Piange e basta.

Articolo di Andrea Vargiu