Ep. 3 – Manfredi (ristorante)

di Arianna Costantini

05/04/2022

«Così vi entrano le mosche» dico a Lia e Franco che sono rimasti a bocca aperta. Bisbigliano come fossero ancora all’ultimo banco, e Flaminia li guarda senza capire.

«Prego» comincia il cameriere, grassoccio e un po’ sudato sotto la maglia col nome del ristorante a lettere cubitali, mentre fissa il quadernino che gli cade a pezzi nella mano.

«Mi dica pure». Si rivolge a me senza esitare, ha afferrato che sono l’unico interessato all’argomento vino. D’altronde Lia e Franco sono occupati, e Flaminia, beh, Flaminia ha la fisicità da sportiva e si sa che gli sportivi non bevono.

«Cosa avete?» chiedo, dal momento che non ci ha nemmeno portato la carta dei vini.

«Le consiglio l’ottimo vino della casa, prodotto dalla nostra azienda agricola fuori città». Capisco che una carta dei vini sarebbe inutile: il vino della casa è l’unico che hanno.

«Va bene, ce ne porti due caraffe» dice Franco, precedendomi di proposito, e quando il gran sommelier se ne va verso la cucina con i suoi passi goffi aggiunge «prima che ricominci a lamentarti».

«Figurati, il vigneto dei nonni non sbaglia mai».

«Sai, avevo provato a prenotare una degustazione di vini per stasera, ma non ho trovato posto» fa lui.

«Immagino. E immagino anche che questo ristorante fosse subito dopo nella lista».

«Si, peccato solo che non abbiano un parcheggio extra large per un suv come il tuo».

«Dai, non ricominciate, ci sono cose più importanti» ci interrompe Lia, con gli occhi bassi e troppo seri per il suo viso gentile.

«Liuccia hai ragione, sono convinto che il vino sarà invecchiato al punto giusto» le dico con un sorrisone luccicante che lei non sembra notare.

Lia, Lia, quanto sei carina, come direbbe Flaminia. Ludo aveva smesso di sciorinare i nomi di tutte le ragazze bassine, capelli chiari, piccole più di lui che «gli stavano sotto», e parlava solo di te. Di una perfettina e santarella come te si era innamorato.

 

Almeno con Ludo ha iniziato a farsi le canne, sennò ora forse non avremmo nemmeno la metà delle storie da raccontarci e ci saremmo persi da un pezzo, chissà.

All’inizio le bastavano due tiri per farsi ore di paranoie in cui, tra l’altro, ammetteva di voler andare da uno psicologo perché si era stufata di analizzarsi da sola. Poi, purtroppo, se n’è dimenticata e anzi ha deciso che ne ha bisogno chiunque tranne lei, soprattutto se si tratta di fare pace col proprio privilegio di uomo bianco etero ricco. E anche Franco è d’accordo, sempre d’accordo con Lia quando si tratta di insegnare al mondo come vivere, e ogni anno mi chiedo per quale motivo sia finito a fare lo schiavo in officina. Peccato, si sarebbe divertito anche lui a strizzare cervelli.

 

«Flami, tutto ok?» Flaminia si guarda intorno, tra tovaglioli a quadri stropicciati e foto di ex clienti attaccate ai mattoncini con lo scotch. Lei è nel suo mondo, non sta facendo attenzione alla nostra conversazione, persa com’è nell’iperspazio delle fantasie. Una volta mi aveva detto che nel rumore si perdeva, e questo è uno di quei posti in cui c’è molto rumore, anzi più ce n’è più i proprietari sono contenti di urlare tra i tavoli.

«Sì sì. Stavo pensando che le persone a quel tavolo lì devono essere ballerini. Vorrei chiederglielo» mi risponde veloce, un po’ distratta, come se avesse detto il tempo che fa o la stagione dell’anno.

«Quando arriva questo vino?» dice Franco.

«Che lentezza, se ne saranno dimenticati» aggiungo.

«Su, non ricominciate. Non vi stufate proprio mai? Ecco il cameriere» dice Lia e congiunge le mani, appoggiandole sulle sue gambe.

I bicchieri sono scheggiati, e li osservo tintinnare mentre viene versato il vino, quando a un tratto e contro ogni aspettativa Flaminia riemerge: si gira, tocca o urta Lia sulla spalla e la guarda con gli occhi sgranati, indicando un tavolo lontano. Quando il cameriere si allontana di nuovo Lia sussurra piano, ma non abbastanza da non farci sentire: «Franco aveva ragione».

Franco stringe gli occhi per individuare quello che Flaminia aveva indicato. «Sì Lia, hai visto, è lui!» si infervora. Flaminia sembra soddisfatta di avere la conferma di Franco. Lia guarda con attenzione un ragazzo secco, dinoccolato, che porta due piatti fumanti. Ha un aspetto insulso ma familiare.

Non ricordo Lia così preoccupata nemmeno alla maturità. Apre e allarga le dita delle mani, poi le richiude a pugno. Una volta Ludo mi aveva spiegato che quando lo fa significa che è in ansia.

«Lia, tesoro, ti accompagno in bagno?» le chiede Flaminia mentre già si alzano con lo sguardo di intesa che si fanno le donne. Forse stavolta c’è un motivo per cui stanno andando in bagno in due.

Franco esita per un bel po’, aspetta che sia io a parlare, da codardo qual è.

«Come si chiamava?»

«Come, non ti ricordi Manfrè?»

«Non lui, il suo nome».

Ha la fronte aggrottata e gli occhi bassi: «Gioele».

 

Gioele Gioele Gio-e-le. Cazzo. E’ qui, fa il cameriere – non era fissato con medicina? – e gira per i tavoli impacciato ma meno impacciato e ingombrante dell’altro.

«Ecco, appunto».

«Appunto cosa, Fra’?»

«Non potevi non ricordartene».

«Già».

Come dimenticarlo. Come dimenticare il suo sorriso imbarazzato quando ci ha visti arrivare al mare da Lia con l’enorme quantità di alcol che avevamo appresso. I suoi passi erano incerti, camminava sulle uova, conosceva solo Lia. Non ci avevo parlato tanto, non era il mio tipo. Era perfettino e santarello come lei, forse per questo erano amici. Ma proprio ora, proprio qua, dopo tutto il tempo passato, doveva ricomparire. Stava andando tutto bene.

 

Più passano i secondi più ogni parola diventerebbe importante e un po’ odio le parole importanti, ne sento e ne uso abbastanza ogni giorno in studio, in tribunale, al telefono. Ma ora è diverso. Devo rompere il silenzio.

«Non sapevo facesse il cameriere» azzardo appena le due tornano dal bagno e si siedono. Guardo il tavolo lontano in cui sta servendo, e aspetto che Lia o Franco intervengano in difesa dei lavori meno abbienti e, dunque e soprattutto, che si distraggano. Nessuno parla. Un silenzio totale cala sul nostro tavolo, che nemmeno i mille rumori intorno – le sedie che scricchiolano, si spostano, graffiano il pavimento, i piatti lanciati più che appoggiati, il vociare dei cuochi e dei camerieri, che urlano per farsi sentire – riescono a coprire.

 

«Porto altro vino?» Domanda imbarazzato il cameriere che ci serve i primi e tutta l’attenzione si concentra su di lui. Mai come in questo istante ho provato tanta gratitudine per un cameriere. Sì, portaci tutto il vino che hai, portacene finché quella storia non torni a essere dimenticata come lo è stata per gli ultimi dieci anni.

 

«Manfri, cos’è che avevamo fumato?» mi chiede tutt’a un tratto Flaminia, col suo fare leggero e sbarazzino. Solo lei poteva uscirsene con una cosa del genere.

«Passami il sale. Questa pasta è scotta» dico.

«E che c’entra col sale che è scotta?» mi chiede Franco, guardandomi con gli occhi a fessura e un sopracciglio sollevato.

«Cerco di migliorare il migliorabile».

«Tieni. Dai, cos’è che avevamo fumato?» Ricomincia lei, e non c’è modo di distoglierla dalle piccole cose innocue su cui si fissa sempre. Ma questa è meno innocua del solito.

«Flami, non abbiamo già giocato a indovina l’ingrediente segreto?» lei mi guarda, delusa.

«Dai, non ti offendere. Sai quante volte vi abbiamo fatto fumare io e Ludo. Eravamo gli unici che portavano sempre qualcosa. Tu quando risolvevi prendevi solo per te e per i tuoi riti».

Non coglie, e imperterrita continua «Al mare da Lia, mi avevi fatto fumare. Cos’era?»

«Non mi ricordo cos’era. Penso le solite cose. Dove vuoi arrivare?»

«Curiosità».

«Dopo dieci anni, Flamì?»

«Che c’è di male?»

«Nulla, Flamì, nulla. Per te non c’è mai nulla di male». Ma poi mi pento di averla provocata.

«E poi mi sono ricordata che Gioele era collassato subito quella sera, mi chiedevo che cosa avessimo fumato» continua, e mi chiedo se sia davvero così ingenua o stia fingendo. È difficile esserne certi con lei.

 

«Che ricordi però, che ragazzini. Flamì tu non era mai chiaro se fossi fatta o meno» dico senza rispondere alla sua domanda, sperando che mi dia corda, e che distolga lei e gli altri da questo processo alla droga.

«Era un po’ diventato uno stile di vita» ridacchia lei.

«Che tossica che eri».

«Parli tu, Manfri, parli tu. Non eri contento finché non perdevi completamente il controllo. Poi diventavi quasi simpatico e dolce». Sbatte le lunghe ciglia.

«Ah quasi?»

Lei fa spallucce «Avevi fatto pippare persino noi quella sera».

«Shh, ti sembra il luogo per dire queste cose?»

«Ma chi vuoi prendere in giro, non ci sente nessuno» interviene Franco. Da che parte sta? Lia apre e chiude le dita delle mani, Franco fa ticchettare le posate sul tavolo.

«Voi chi?» chiedo a Flaminia, distratto.

«Me e Ludo, ma sì che ti ricordi, che risate» risponde.

«E allora che c’entra Gioele che era collassato?» Da qualunque parte stia Franco, non è la mia.

«Ma che ne so. Ero un coglione. Spero sia stata solo quella volta che ho fatto pippare anche voi» gli dico.

«Che carino ti preoccupi per noi, soldi e carriera fanno miracoli. Hai smesso per quello, non è vero?» insinua Franco, acido più del bicchiere di vino che ingurgito tutto insieme.

«Ho smesso perché mi stavo bruciando il cervello. E costava troppo. Tu comunque, che eri sempre il più sobrio e responsabile, ti ricorderai di sicuro perché Gioele era collassato. Non capisco perché continuiate a chiederlo a me». Alzo la voce, perché spero di togliermi una volta per tutte i loro sguardi insistenti di dosso.

«Guarda come ti metti subito sulla difensiva, avvocato. Non ti stavo mica attaccando» risponde lui.

«Strano, è il tuo sport preferito» riempio di nuovo il mio e il suo bicchiere di vino «E non sono stato io a tirare fuori una storia vecchissima. Dopo dieci anni certe cose si potrebbero anche dimenticare, al liceo eravamo dei ragazzini».

Lia guarda oltre le mie spalle, Flaminia segue il mio duello con Franco appoggiando il mento sui pugni, come fosse a teatro. Franco sta giocherellando con la forchetta, quando parla guarda le mie mani, e solo di sfuggita incrocia il mio sguardo: «Forse tu lo sei ancora, se non dai importanza a certe cose».

«Dimmelo tu quali cose sono importanti, tu che ti sporchi le mani e ne sai di vita vissuta».

«Non te ne frega nulla della gente, lo so. Sei sempre stato così, fattelo dire. Fattelo dire da un meccanico. Non stiamo parlando di una stronzata, una ragazzata, come dici tu. Lo capisci?» Si alza, con una violenza che non gli ho mai visto addosso, ed esce per fumare. Dopo poco lo seguo fuori, voglio respirare un po’ d’aria che sappia di aria e non di olio.

 

Mi vede mentre lecca la cartina riempita fino all’orlo del Pueblo più pesante che ha trovato, e dopo poco la accende e mi inonda del suo fumo fortissimo.

«Va bene, non è una stronzata, scusami. Ma mi dici dove stai cercando di andare a parare, Fra’?» Lui mi guarda con una faccia da pesce lesso, come se l’avessi tradito, e stavolta non c’è nessuna Lia a dirci smettetela di litigare.

Franco tace e consuma veloce la sua sigaretta un po’ storta, girata con le sue mani grandi e nere, per nulla precise.

«L’ho finita. Rientriamo» dice dopo avermi voltato le spalle.

«Va bene».

 

Troviamo Lia che fissa il muro. Flaminia le sussurra che è molto bella, e come per risponderle Lia bisbiglia: «E’ stata tutta colpa mia. L’avevo invitato io lì con noi».

«Ah, dici Gioele. Ma no, tesoro, cosa dici?»

«La verità. Non ci siamo più parlati».

«Magari avete solo preso strade diverse dopo la maturità, dai». Le dice Flaminia, ignara di tutto, e temo che da un momento all’altro potrebbe chiedere spiegazioni a tutti noi.

Lia esita, poi le prende la mano e le dice: «Sì, solo strade diverse».

 

«Perché non hai fatto nulla?» mi domanda Franco, afflitto, e sul suo volto non c’è più rabbia ma solo i segni, tanti e scavati, della fatica.

«Fra’, mi spieghi perché dobbiamo rovinare un’amicizia così? Ci vediamo una volta all’anno, una sola. Ero un coglione, ok? Se intendi che ho fatto pippare Flaminia, Ludo e forse pure Gioele ero un coglione, solo un coglione pippa a diciotto anni.»

«Non dico solo quello».

«E cosa, allora?»

«La stanza al piano di sopra, te la ricordi?».

Flaminia sgrana gli occhi, e come se stesse giocando a qualche suo gioco dice: «Uh, la stanza proibita. Ecco dov’era Gioele».

Articolo di Arianna Costantini