Il Ramadan come possibile cura culturale al capitalismo

Un’immersione a Sud alla ricerca di pratiche valide e alternative al capitalismo

30/06/2021

L’intersezione tra contesto culturale, religioso e politico produce situazioni molto diverse tra loro, che si esprimono talvolta in zone geografiche relativamente limitrofe. Ma una pratica diffusa come il Ramadan spicca sulle altre per la sua capacità di dimostrare la fattibilità sul medio lungo periodo di un’alternativa.

 

Immaginare alternative

Vincenza Pellegrino, professoressa di Sociologia dei processi culturali all’Università di Parma, scrive nel 2019 nel suo saggio Futuri Possibili come siano innumerevoli le evidenze che portano a considerare il modello di progresso neoliberalista, lineare e tendente ad una tanto improbabile quando poco auspicabile crescita infinita come fallimentare. Di fronte al fallimento del modello ad oggi in uso, una visione positivista e kuhniana porterebbe a pensare a quale sarà la prossima rivoluzione, a quale paradigma sostituirà quello ad oggi in auge. Ma uno sguardo più attento alla realtà post-moderna porta inevitabilmente a sottolineare le difficoltà che il pensiero laterale e la capacità di immaginare alternative stanno incontrando in questo momento storico. La Pellegrino descrive la situazione come un conflitto tra il possibile e il probabile, un contesto in cui le idee delle nuove generazioni vengono schiacciate dalle dinamiche politiche per scomparire nel vortice del possibile, senza riuscire mai a sfondare il soffitto di vetro del probabile. Trovandosi a riflettere in questo empasse tardo capitalista, ogni momento di evasione dalla routine di consumo e produzione orientata al successo sociale, materiale ed istantaneo assume un valore aggiunto, è un atto potenzialmente rivoluzionario. In quest’ottica le festività religiose offrono degli spunti di riflessione difficilmente sottovalutabili. Queste infatti determinano dei periodi dell’anno in cui le routine vengono sconvolte, in cui si è spinti ad aggregarsi nella propria comunità di appartenenza e ad approfondire le connessioni umane, senza che queste implichino un automatico ritorno economico. Nelle società occidentali il momento di condivisione comunitaria legata alla fede è simboleggiata dal  periodo natalizio, ampiamente commercializzato e monetizzato. Ma se ci si sposta dall’altra sponda del Mediterraneo, o  più semplicemente si esce dal centro delle grandi metropoli europee, si incontrano altri fenomeni sociali legati alla credenza religiosa che possiedono un grandissimo potere immaginifico. 

McNeil e Engelke, antropologi e storici dell’ambiente, nel 2013 nel loro saggio La Grande Accelerazione raccontano il circolo vizioso all’interno del quale la società occidentale è entrata a partire da quello che Baudrillard chiamava il lungo quindicesimo secolo, lo sfrenato avanzare della conquista di persone, terre ed energie da parte dell’impostazione capitalista. Nel descriverne l’avanzata narrano anche il potere della sua retorica, che risulta ancora oggi quella dominante, viviamo infatti quello che viene definito come “Antropocene”. A fronte della parabola tanto catastrofica quando ammaliante dell’evoluzione del capitalismo, non si può che trarne degli spunti per la ricerca si un’alternativa che non sia solo valida, ma anche abbastanza attraente da poter essere condivisa dalla maggior parte delle persone. 

Pertanto, se l’etica calvinista ci ha spinti fino alla necessità di investire una cospicua fetta del frutto del nostro lavoro nel continuo aggiornamento dei nostri hardware tecnologici, anch’essi funzionali principalmente all’acquisizione di uno status sociale più elevato o all’accesso a posizioni lavorative più ambiziose, forse il mondo islamico può insegnarci qualcosa riguardo all’autodisciplina, al distaccamento dai bisogni e dagli oggetti materiali. 

 

Il Ramadan Antimperialista

Mariem Masmoudi, scrittrice e pensatrice critica americana e musulmana, ha intitolato un articolo lo scorso aprile “Il Ramadan Anticapitalista” e ne ha poi parlato con Yasser Louati durante uno degli episodi del Podcast del Committee for Justice and Liberation. Si tratta di quello che lei stessa definisce come un atto provocatorio, ma dall’altra  parte è anche sintomo di una spinta immaginifica che supera le barriere della divisione tra categorie culturali, religiose e politiche. 

Nella riflessione dell’attivista si rileggono i punti fondamentali di quelle che sono ormai da più di un decennio le sfide e le contraddizioni che il mondo arabo e musulmano, anche in Europa, affronta nell’incrociare le complesse maglie del capitalismo. 

Il momento dell’anno dedicato all’autodisciplina, alla rinuncia ai beni materiali e alla riunione con la propria comunità rappresenta infatti un’eccezionalità particolarmente eversiva rispetto alle dinamiche del consumo capitalista esportate da occidente verso i Paesi del sudest globale. La struttura del neoliberismo globalizzato ha dimostrato una permeabilità profonda per le differenze culturali: quando brand come Nike lanciano intere campagne per le donne che portano l’hijab, o il supermercato Carrefour lancia un reparto nella sua catena che vende carne halal, sembra chiaro come la necessità materiale di consumo possa finire per appiattire ogni differenza sociale o religiosa. Questo non significa però che in pratiche dal profondo significato spirituale e portatrici di una grande spinta aggregativa come il Ramadan non possano essere viste come delle spinte eversive, verso la creazione di un’alternativa praticabile e valida ad uno stile di vita che sopravvive saltando da una fonte di consumo all’altra, senza mai fermarsi a riflettere in maniera economicamente disinteressata sull’umanità del consumatore. La visione di Mariem Masmoudi è particolarmente interessante proprio anche grazie al frame antimperialista che ripropone. Il rifiuto per, l’ormai decisamente fallito, “Washington Consensus” si concretizza dunque nel tentativo di decolonizzare pratiche sociali e culturali che possiedono significati rinnegati dalla società globalizzata ma che, a differenza di quest’ultima, riescono a rispondere alle sempre più pressanti esigenze spirituali e di aggregazione delle persone che abitano le società. L’attivista cita la metafora della gabbia d’acciaio usata da Weber nel descrivere i complessi meandri della burocrazia tedesca nel diciannovesimo secolo, nominando il digiuno e il distaccamento dalla materialità dei beni di consumo come azioni di ribellione alla routine della società post-moderna che impone il ripetersi ciclico di azioni di consumo di beni e servizi svuotate di ogni significato ulteriore. Nel proporre un’alternativa alla spinta annichilatrice, imperialista e solo apparentemente etica del capitalismo, il riferimento principale è ad una visione olistica della vita, che consenta un momento di riflessione collettiva e non autocentrata. 

Porre come esempio di pensiero eversivo una pratica religiosa, legata nella retorica mainstream occidentale ad atti di terrorismo fondamentalista e ad atteggiamenti conservatoristi e opprimenti per alcuni membri delle società che la abitano è in questa sede un tentativo di uscire dai  compartimenti stagni della lettura cronachistica dei media tradizionali. La religione rappresenta nella società del consumo una via di fuga dalla monetizzazione di esperienze e incontri, un escamotage per continuare a pensare. 

Smettere di mangiare, di bere e di fumare dall’alba al tramonto per un mese significa dimostrare a se stessi e alla propria comunità che gli esseri umani sono qualcosa di più delle materialità con cui interagiscono attraverso transazioni economiche. 

Bauman nel 2017 scriveva nel suo libro Retrotopia come la mancanza di prospettive per il futuro, utopiche o distopiche che siano, stava portando il cervello sociale della società post-moderna a rifugiarsi in una nostalgia che riprende le vertenze e gli eventi del passato rivalutandoli nel loro anacronismo. In questo ambito un’operazione simile può essere fatta a partire dagli scritti della scuola inglese dei Cultural Studies di ispirazione gramsciana, che a partire dagli anni Cinquanta hanno provato a sottolineare la necessità di pratiche anti-imperialiste per decolonizzare il sapere e le routine di quelle società che abitano i Paesi che non sono al centro del vortice del tardo capitalismo. Il citatissimo saggio Orientalism, nel suo essere un classico del pensiero anticolonialista, sottolinea come il movimento culturale occidentale nella sua spinta consumistica abbia adombrato gli aspetti più interessanti e immaginifici della cultura orientale ed extraeuropea. Proprio in questa cornice, si sono poi inseriti tutti gli studi degli anni Ottanta sull’antropologia e la sociologia situata che individuano best practices all’interno di micro contesti locali. Prendendo spunto da questo anelito rivitalizzatore delle pratiche non conformi o non compatibili con il modello dello yes man imprenditore e consumatore, sembra quasi naturale leggere la pratica del Ramadan come momento di ridefinizione della gerarchia tra le priorità collettive all’interno della propria routine. Il momento del Ramadan è stato anche utilizzato come simbolo di pratica eversiva e di ricerca di momenti di aggregazione anticapitalista nel 2011 in Turchia, ma non solo, dagli e dalle appartenenti al movimento Emek ve Adalet (Pane e Giustizia). Le manifestazioni più partecipate e dirompenti legate a questi momenti di condivisione di cibo e di lotte sono avvenute in Turchia nel 2013 e hanno coinvolto principalmente persone che tentavano di smascherare la strumentalizzazione da parte del governo turco del momento del Ramadan come pubblicità governativa e si riunivano per protestare contro il piano urbanistico per il parco Giza a Istanbul. 

L’uso simbolico dei momenti comunitari del Ramadan come catalizzatore delle spinte antisistema nei centri urbani del Medio Oriente è dunque la riprova del suo intrinseco significato eversivo.

 

La targettizzazione capitalista della popolazione musulmana

Per quanto predichi il distacco materiale e il conseguente stimolo spirituale e morale, la temporaneità dell’astensione praticata durante il Ramadan è un campanello d’allarme per chi si spinge fino a definirla una celebrazione “anticapitalistica”. Trattandosi infatti di una rinuncia parziale al cibo – il quale viene consumato al calar del sole -, l’acquisto alimentare tende a non diminuire, anzi, in alcuni casi aumenta rispetto al resto dell’anno. Ma non è solo la spesa di cibo che si intensifica, anche i servizi di alloggio segnano questa data sul calendario, in attesa del flusso di coloro che tornano nei Paesi di origine per praticare il digiuno insieme alle loro famiglie. La ragione di tutto ciò è che i musulmani percepiscono il Ramadan come un periodo di festa, l’iftar può essere considerato il corrispettivo di un cenone di natale, con la differenza che avviene ogni sera per un intero mese. Dunque, astenersi durante il giorno dal mangiare, bere e fumare non significa necessariamente abbandonare le pratiche tipicamente capitalistiche. Al contrario, l’apporto economico che il mese del Ramadan fornisce all’economia mette in luce una propensione fortemente materialistica. Il caso della Gran Bretagna è forse quello più esemplare: nel 2015 la catena alimentare Tesco ha visto aumentare del 70% la domanda di prodotti halal come farina chapati e datteri, mentre quest’anno le vendite complessive nel settore alimentare del Paese consistono in duecento milioni di sterline. Questi dati sollevano sicuramente interrogativi sul piano identitario, ma soprattutto etico, di questo eccesso. Da una parte, i prodotti venduti sotto la certificazione halal rischiano di essere occidentalizzati e nel peggiore dei casi, falsificati. Sono passati solo sei mesi dal recente scandalo della carne contraffatta in Malesia, dove il 60% della popolazione è musulmana e ha consumato per quarant’anni carne falsamente certificata halal nei supermercati. Dall’altra, seppur la non-eticità dei processi di produzione e distribuzione dell’industria alimentare non sia un segreto, quando lo sfruttamento avviene ai danni delle comunità di origine di chi compra, durante un periodo volto a compiere il bene in tutte le sfere della quotidianità, la complicità dell’acquirente si fa molto più grave. Un esempio pungente e estremamente attuale è quello dei datteri: in commercio sono per la maggior parte originari di Israele, coltivati al 40% in insediamenti illegali nella Valle del Giordano. In questa zona i braccianti palestinesi non solo subiscono l’umiliazione della dominazione forzata dei coloni israeliani, ma anche lo sfruttamento fisico disonesto derivato dalla raccolta continuata e rischiosa di questi frutti in cambio di un salario irrisorio. Malgrado le molteplici iniziative di boicottaggio, la tradizione continua a prevalere sull’etica, e l’acquisto di datteri durante il Ramadan rimane stabile. 

Ma aldilà delle contraddizioni di principio, ulteriore insinuazione del capitalismo nella celebrazione musulmana è la pratica tradizionale basata sul compimento di numerose e copiose donazioni. Uno dei cinque pilastri dell’islam è infatti la Zakat, un’offerta obbligatoria pari a circa il 2,5% del proprio capitale. Malgrado si parli comunemente di “elemosina legale”, la Zakat è in realtà intesa nel mondo musulmano come contributo all’emancipazione economica delle persone più povere, perciò avviene per la maggior parte durante il Ramadan, mese di carità generalizzata. Si tratta di cifre tutt’altro che contenute, in totale i fondi globali Zakat raggiungerebbero i seicento miliardi di dollari ogni anno secondo la Banca Mondiale: parlare di “anticapitalismo” suona perciò inadeguato. Pur riconoscendo la contraddizione che rappresentano le ricchezze del Golfo e le loro fonti, è necessario tuttavia tracciare una linea di separazione tra la filosofia del capitalismo occidentale e quella del capitalismo islamico. Per quest’ultimo il modello economico non può scindere dall’etica religiosa, quindi non può permettere attività considerate “haram” vietate dalla legge islamica – come iniziative imprenditoriali associate all’alcol o al gioco d’azzardo, né può facilmente praticare speculazioni dato che nell’etica economica musulmana  “fare soldi con i soldi” è inaccettabile. A differenza della concezione occidentale,  investire per i musulmani non dovrebbe significare dare per ricevere, ma semplicemente dare per migliorare. Dunque, il sistema capitalista può conciliarsi eccome con la religione islamica, e di conseguenza il Ramadan. Questa conciliazione avviene però adottando un approccio più etico e inclusivo, che si sposa perfettamente con il proposito di carità e solidarietà che le persone musulmane fanno durante il mese sacro del digiuno. 

 

Benefici di un’inversione di tendenza 

Karim Yassin Goessinger, fondatore del Cairo Institute of Liberal Arts and Sciences, racconta a Scomodo come l’individuazione del Ramadan come pratica potenzialmente eversiva e immaginifica nella direzione dell’esemplificazione di un’alternativa al modello capitalista sia un esempio di inversione di tendenza nella diffusione di modelli economici e sociali. 

Il meccanismo a cui Goessinger fa riferimento è quello tipicamente coloniale, per cui le pratiche e i modelli adottati nelle società occidentali vengono esportati da nord verso sud, creando un canale di comunicazione e scambio unidirezionale.  Il modello neoliberalista che orienta lo sforzo del pubblico verso una liberalizzazione del mercato funzionale alla prosperazione dei  privati che riescono ad avere più successo nel mercato e che costruisce le pratiche sociali attorno al consumo di beni materiali e servizi a pagamento è un lascito dell’imperialismo americano e può dunque essere considerato come un’esportazione con una direzione geografica discensionale. 

La necessità  da parte della parte di mondo meno sviluppata secondo i canoni occidentali di acquisire buone pratiche e imparare dal percorso intrapreso dall’Europa e dalle altre grandi potenze economiche mondiali è una necessità in realtà percepita più dagli abitanti del mondo occidentale rispetto a chi abita l’emisfero opposto.  Pratiche culturali e religiose non normate dai canoni occidentali spesso risultano essere particolarmente fastidiose per il costume europeo o no, funzionali allo sviluppo di un mercato in cui i prodotti occidentali possano essere commercializzati. Questo però non significa che l’appiattimento di differenze culturali porti necessariamente a plasmare una società più vivibile o meglio organizzata. Nel mondo occidentale le contraddizioni e i problemi irrisolti emergono in tutti i campi e le loro sfaccettature sono innumerevoli. Pertanto invece di proporre, vittime di uno white savourism molto “kiplinghiano”, un’esportazione universale del modello nord occidentale palesemente fallimentare nella sua indiscriminata applicazione universale, sarebbe utile provare a decostruire la monodirezionalità del canale di comunicazione tra pratiche globali. L’obiettivo sarebbe quello di costruire uno scambio alla pari in cui gli ex-Paesi non allineati possano insegnare qualcosa alle potenze occidentali e contribuire alla creazione di un modello socio-economico effettivamente inclusivo e vivibile. Di certo punti di vista e condizioni di privilegio non sono identiche, ma questo non dovrebbe impedire di fare tesoro di esperienze e pratiche non conformi ai canoni occidentali. Lo Swan, la pratica del digiuno, chiave della festività del Ramadan, è per esempio un atto dai dimostrati benefici spirituali, economici e medici che è pensato nella tradizione islamica per avvicinare tutte le fasce della popolazione alla condizione dei meno abbienti facendo provare sulla propria pelle a tutte le persone le conseguenze fisiche e mentali della privazioni alimentari e idriche. Nello stesso tempo la pratica incoraggia a concentrarsi su qualcosa che non sia il consumo materiale e contemporaneamente porta ad una riduzione delle ore di lavoro a seguito dell’indebolimento fisico dei lavoratori e delle lavoratrici come conseguenza dell’osservanza della festività. Lavorare meno, consumare meno e pensare di più. Un modello impensabile nella società occidentale, soprattutto se si pensa che dura un mese intero, i tassi di produzione diminuiscono necessariamente e il focus viene spostato dal successo nell’ambito lavorativo alla virtuosità morale e spirituale.

La possibilità di considerare le pratiche in quanto tali, a prescindere dalla loro tradizione di provenienza, è una delle conquiste dell’applicazione del principio di intersezionalità e transnazionalità all’analisi della società contemporanea. Osservare cosa concretizzano modelli di vita completamente opposti a quello che pratichiamo, che dunque nel loro articolarsi in società stringono con la realtà compromessi diversi, pone chi testimonia modi tanto diversi di organizzarsi nella condizione di poter prendere in considerazione futuri alternativi, che si articolano a partire da altri presupposti. Pertanto nel panorama di un mondo che si chiede come superare sfide climatiche e sociali dalle dimensioni inaudite nei prossimi trent’anni, osservare con attenzione i modelli attualmente proposti in ogni suo angolo a prescindere dalla sua posizione geografica, si configura come la strategia più interessante per raccogliere tutte le idee su come affrontare il cambiamento in modo inclusivo e partecipativo.

Articolo di Marta Bernardi, Eleonora Varriale, Livia Vanella