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Censura is not ded
Lo Stato italiano ha ufficialmente messo al bando la censura cinematografica, ma facendosi produttore l’ha perfezionata, accumulando un potere immenso
“È stato definitivamente superato quel sistema di controlli che consentiva ancora allo Stato di intervenire sulla libertà degli artisti”: con queste parole lo scorso 5 aprile il Ministro della Cultura Dario Franceschini ha commentato la fine della censura cinematografica in Italia. Grazie al decreto attuativo della Legge Cinema, già caldeggiata dallo stesso Franceschini nel 2016, non sarà più possibile per lo Stato italiano impedire la distribuzione di un film né effettuare tagli o modifiche su di esso. E’ stato infatti sciolto l’organo ministeriale deputato a questo ruolo, la Commissione di Revisione Cinematografica: creata nel 1962, era presieduta da docenti di diritto o magistrati e composta da docenti di psicologia, rappresentanti dei genitori e delle categorie del settore cinematografico, esperti di cultura cinematografica e membri di associazioni per la protezione degli animali. Il parere della Commissione era vincolante sulla concessione dei nullaosta per la distribuzione dei film: se tale permesso veniva negato, le pellicole potevano essere sottoposte a limitazioni per i minori, oppure sfrondate delle scene più controverse. In apparenza dunque, ora che è stata eliminata questa influente istituzione, il cinema in Italia può dirsi finalmente libero.
In realtà però, le cose non stanno esattamente così: il decreto Franceschini infatti, impatterà solamente su alcune delle diverse tipologie di censura, mentre altre rimarranno inalterate. Un prodotto cinematografico può essere colpito anzitutto da censura preventiva, se applicata da un ente esterno – ad esempio, una commissione – o dalla produzione stessa alle sceneggiature dei film prima che siano realizzati. Nel caso in cui venga messa in atto quando l’opera cinematografica ha concluso la fase di realizzazione, si parla di censura a posteriori, nella quale rientrano i tagli di scene o le limitazioni di pubblico per fasce d’età. Esiste infine una censura di ritorno che, in circostanze particolari, interviene a revisione del primitivo giudizio sull’opera, bloccando le proiezioni a film già distribuito o addirittura ponendo le pellicole sotto sequestro. A ben guardare, Franceschini ha dunque riformato unicamente la seconda tipologia, quella a posteriori, per altro solo parzialmente: in sostituzione della Commissione di Revisione, infatti, ne è stata creata una per la classificazione delle opere cinematografiche, il cui ruolo, come suggerito dal nome, consiste nell’approvare la classificazione proposta dai produttori in base a un criterio d’età – film per tutti, non adatti ai minori di anni 6, vietate ai minori 14 e 18 anni. Ciò comporta evidenti penalizzazioni, poiché viene ridotta la fascia di pubblico a cui la produzione stessa può rivolgersi nei cinema e, a cascata, in televisione e sulle piattaforme streaming, con conseguente calo degli incassi. Più nello specifico, in televisione vige un codice di autoregolamentazione che prevede una fascia oraria di programmazione “protetta” e idonea ai minori (dalle 16 alle 19), al di fuori della quale è necessario comunque annunciare trasmissioni non adatte agli spettatori più piccoli. Le piattaforme streaming, da parte loro, mettono a disposizione servizi quali Profilo Bambini e Filtro Famiglia, che permettono l’accesso solo ad alcuni prodotti.
Ciò che viene meno nel ricambio di commissioni, insomma, è la possibilità di negare il nullaosta alle opere e, soprattutto, di imporre loro tagli o modifiche. È certamente un passaggio fondamentale, dal momento che l’amputazione di intere scene o di parti di esse è la tipologia di censura più invasiva applicabile a un film: non ne impedisce la distribuzione forse, ma può mutarne il messaggio originale, storpiando le intenzioni del regista. L’ultimo caso noto risale al 2018 e ha riguardato The House That Jack Built, scritto e diretto dal regista danese Lars Von Trier, passato nelle sale italiane in due versioni: quella doppiata è stata tagliata delle (ben poche) scene più cruente, mentre la versione integrale, in lingua originale, è stata oggetto di una distribuzione molto limitata; entrambe, comunque, sono state vietate ai minori di anni 18, secondo le procedure allora in vigore. La differenza di minutaggio è infinitesimale, di pochi secondi, poiché la censura, operando a un livello molto superficiale, è intervenuta solo sulle rare scene di violenze esplicite lasciando inviolate quelle concettuali, ben più numerose e controverse. Proprio quelle che la censura statale, non fosse stata a un passo dalla destituzione, avrebbe avuto più interesse a zittire, volte com’erano a denunciare il controllo coatto che il potere – generalmente inteso – ha sempre voluto esercitare sul mondo dello spettacolo. In Italia, l’importanza di questo rapporto – non un sodalizio, bensì un gioco a somma zero, dal quale il cinema è quasi sempre uscito perdente – era stata intuita già dal MinCulPop di epoca fascista, che però l’avrebbe lasciato in eredità anche alla classe politica democristiana. Ne sapeva qualcosa Giulio Andreotti, indaffaratissimo manovratore dell’Italia del dopoguerra, che da Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel ’47-’54 volle comunque riservarsi la delega – apparentemente di poco conto – all’Ufficio Spettacolo, col duplice obiettivo di filtrare gli argomenti più scomodi e scabrosi, ma anche di bloccare le importazioni dai distributori d’oltreoceano, promuovendo invece le produzioni italiane. Un impulso senz’altro propositivo, di incentivo nei confronti del cinema nazionale a scapito dei potentati anglosassoni, che però ricorda paurosamente il patrocinio, plaudito all’epoca da Michelangelo Antonioni, esercitato nella Germania nazista da Joseph Goebbels. Proprio lui. Negli intenti del suo Ministero della Propaganda, al blocco della cosiddetta “arte degenerata” avrebbe dovuto seguire, come raccontato persino da Quentin Tarantino in Bastardi senza gloria, una rifioritura del cinema tedesco: “Un’alternativa al cinema intellettuale ebreo-tedesco degli Anni ’20 e al dogma hollywoodiano dominato dagli ebrei”.
Il potere statale, quindi, tanto nelle democrazie quanto nei totalitarismi, si pone – o almeno ha la presunzione di porsi – non solo nella sua accezione coercitiva, in qualità di censore, ma anche con una funzione incentivante, nel suo ruolo di garante. Attraverso finanziamenti e interventi legislativi lo Stato tutela i settori dell’industria culturale nostrana più deboli sul mercato, fra i quali brilla infelice la produzione cinematografica. Dall’avvento della televisione il cinema italiano ha compiuto un percorso economico involutivo, raggiungendo il culmine quando, a metà degli Anni ’80, il numero di spettatori in sala è calato vertiginosamente, da 525 a 123 milioni. Senza più biglietti staccati, produrre un film comportava un alto rischio di andare in perdita. Per questo motivo è intervenuta una progressiva regolamentazione dei finanziamenti statali, che ha trasformato il Ministero della Cultura nel più grande produttore nazionale. Lo Stato ha attirato nella sua orbita quasi tutte le case di produzione, dalle piccole alle grandi, via via impossibilitate a mantenere il bilancio in positivo. Lentamente, l’intera industria cinematografica si è strutturata intorno ai finanziamenti statali dell’ex MiBACT e agli accordi sulla distribuzione di Rai e della sua diretta propagine, 01Distribution. Osservare questa faccia sorridente del Giano Bifronte chiamato Ministero della Cultura è necessario per capirne l’altro aspetto, quello censorio: in questa prospettiva, lo Stato può intervenire direttamente sui contenuti per mezzo dei finanziamenti, facendo a meno della censura. Non è più l’antica Commissione di Revisione Cinematografica a dover ostacolare la fruizione dei film, perché le pellicole indesiderate difficilmente verrebbero prodotte. La commissione incaricata della censura ha iniziato a godere di molto tempo libero già dalla morte di Pasolini, per poi perdere definitivamente il suo scopo quando i progetti dei film sono iniziati a dipendere, per il lasciapassare, da un diverso dipartimento della Direzione Generale Cinema e Audiovisivo, la commissione Esperti. Questo organo ministeriale si occupa di scrittura, produzione, distribuzione e promozione, scegliendo fra i vari progetti sottoposti quelli che verranno finanziati. Per applicare un filtro ai contenuti è dunque sufficiente produrre e distribuire alcuni film a scapito di altri, approvando quelli che verosimilmente rispecchiano la “linea editoriale” dello Stato.
Perché sì, come ogni produttore anche lo Stato ha una linea editoriale. Questa è diretta emanazione della politica, ma non è strutturata intorno a contenuti rigidi e immutabili. Piuttosto, si tratta dell’insieme di temi e valori che vengono incentivati dalla produzione statale, sostituendo il concetto di censura a quello più sottile di “Interesse Culturale”, attualmente applicato dal MiBACT nella legittimazione dei finanziamenti. Il primo tassello di un domino che conduce al recente decreto firmato Franceschini. La nozione viene introdotta nel 1965, con la legge Corona. Varando nuove disposizioni sui contributi destinati al cinema, lo Stato afferma un principio elementare: il film non è un prodotto d’industria, bensì un bene artistico e culturale. Come tale, bisogna incoraggiarne la produzione, finanziando con soldi pubblici i film sperimentali, di ricerca. Con l’abbandono delle sale da parte del pubblico, si profilava infatti un futuro in cui, nei film, si sarebbero visti solo contenuti volti a incassare, un cinema popolato da tette e culi sottratti alla censura in quegli stessi anni. Lo Stato italiano, in qualità di ultimo paladino della cultura, non può permetterlo: interviene quindi con finanziamenti mossi da questo nobile criterio. Un’operazione motivata da ottimi presupposti, in difesa dell’arte. Ma come si dice? La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni. Quando le produzioni hanno iniziato ad attingere fondi in gran parte dal MiBACT, il vero vaglio sui contenuti è diventato il sibillino interesse culturale dello Stato. Ci si può interrogare su quali siano i temi apprezzati al Ministero, in cosa consista questa cultura. Nei film MiBACT alcuni temi tornano ciclicamente: anni di piombo, cassa integrazione, carceri, meridione, femminicidi e tanta, tantissima mafia. Come accadeva un tempo in Rai, il messaggio dominante è quello morale, pedagogico. Direttive di questo tipo, paternalistiche, implicano che i produttori non vedano di buon occhio, ad esempio, un thriller o un film su un supereroe: il pluripremiato Lo chiamavano Jeeg Robot di Gabriele Mainetti non ha ricevuto i finanziamenti statali in prima battuta, ma solo attraverso una richiesta successiva. I verbali della prima sessione in cui fu sottoposta la sceneggiatura giustificano la scelta di non produrlo a causa del “messaggio nichilista e diseducativo”. Il ventaglio di elementi censurabili, nel tempo già assottigliato dal cambiamento dei costumi, è diventato completamente superfluo: lo Stato interviene sui contenuti da decenni, giocando d’anticipo. La linea editoriale del produttore prescinde l’organo della censura per come l’abbiamo sempre immaginata: un tavolo di sei bacchettoni che scelgono i contenuti giusti per il pubblico. Possiamo ancora immaginare i bacchettoni riuniti, ma dobbiamo mettere al centro del tavolo una grossa somma di denaro. Quel denaro, è la moderna censura.
Articolo di Federica Lainati, Veronica Poggi e Carlo Giuliano