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La riforma per il reclutamento di giovani insegnanti è piena di contraddizioni
Insegnare da precario potrebbe essere più conveniente che seguire il percorso di abilitazione da 60 crediti. E il rischio è di non riuscire ad assumere tutti gli insegnanti abilitati secondo il nuovo percorso.
Nella scuola italiana, un docente su 5 è precario. Secondo il Portale Unico dei Dati della Scuola, il 30% di questi ha meno di 34 anni e il 51,4% si trova al Nord (esclusa Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige). Questi dati non raccontano in realtà nulla di nuovo, ma il problema è proprio questo. La situazione in cui si trova la scuola pubblica, per quanto drammatica, è statica da diversi decenni.
Negli ultimi dieci anni, il numero di docenti con supplenze annuali a tempo determinato ha superato i 200.000, a fronte di un organico totale di circa 850.000 docenti. «Le mie colleghe, insegnanti da più di vent’anni, dicono che non è cambiato nulla» racconta Letizia Faglioni, 25 anni, giovane insegnante della scuola primaria a Bologna. Il precariato, una condizione di incertezza lavorativa da un punto di vista economico e di carriera, in Italia è un problema strutturale. Questo incide da un lato sulla qualità dell’insegnamento e dall’altro sulla vita lavorativa e personale dei precari stessi. Da una parte, «il precariato è una condizione che permette di approfondire i metodi didattici di diversi licei e adattarsi a studenti con esigenze differenti», spiega Serena Ballestri, 32 anni, insegnante di scuola superiore a Parma. Tuttavia, il fatto di essere precaria non permette di fare una programmazione didattica a lungo termine, sottolinea Letizia: «vengo buttata in una classe con dinamiche già consolidate, senza conoscere né gli studenti né la scuola né i colleghi. Non riesco a sentirmi responsabilizzata nei confronti di una classe che abbandonerò molto probabilmente dopo poche settimane o pochi mesi». Di conseguenza, la qualità dell’insegnamento è inevitabilmente colpita, e a livello professionale la situazione risulta poco motivante.
L'ennesima riforma
Alle radici di questo problema è la qualificazione degli insegnanti. Negli ultimi dieci anni, il 48% dei posti di ruolo messi a disposizione non ha trovato copertura con docenti qualificati. L’offerta dello Stato sui posti disponibili nella scuola pubblica e l’effettiva disponibilità degli insegnanti abilitati non corrispondono. Secondo Manuela Pascarella della FLC (Federazione Lavoratori della Conoscenza) CGIL, nella scuola italiana è sempre mancata la coniugazione dell’assunzione straordinaria concorsuale con la formazione pedagogico-didattica del docente.
Per supplire alla carenza di insegnanti qualificati da questo punto di vista, nella scorsa legislatura il governo Draghi ha presentato all’interno del PNRR la riforma sul reclutamento degli insegnanti, che entrerebbe a pieno vigore nel 2025 dopo una fase transitoria. Si prevede un nuovo sistema di formazione per gli insegnanti della scuola secondaria, attraverso il completamento di 60 CFU metodologici didattici, corrispondenti ad un anno accademico. Questi includeranno moduli di tirocinio diretto nelle classi e verranno verificati con uno scritto e una lezione simulata. A questo periodo di formazione, seguirà un esame di abilitazione che permetterà di accedere al concorso per le cattedre di ruolo. Per la scuola primaria, invece, il percorso rimarrà più lineare, in quanto la laurea è abilitante e prevede già 600 ore di tirocinio.
Contraddizioni
La nuova riforma, quindi, mette al centro la formazione effettiva dell’insegnante piuttosto che il completamento formale del criterio di assunzione: concentrandosi sulla fase iniziale della qualificazione degli insegnanti, l'obiettivo è quello di facilitare a priori la selezione per i ruoli a tempo indeterminato. Abilitazione e assunzione risultano di conseguenza distinte: appare ragionevole, in quanto la formazione qualificata è un requisito fondamentale per essere assunti, ma dietro questa apparenza non viene realmente data la precedenza agli insegnanti abilitati. Infatti fino al 2024 basteranno 30 CFU per essere ammessi al concorso, così da dare il tempo a università e candidati di adempiere ai nuovi obblighi. Anche terminata la fase di transizione verranno ammessi al concorso anche i candidati con 36 mesi di insegnamento negli ultimi 5 anni, di cui almeno uno nella classe di concorso, a patto che nell’anno successivo completino la formazione limitata a 30 CFU.
Questa scelta però presenta varie contraddizioni: da una parte vengono equiparati 3 anni di insegnamento senza tutor né valutazioni all'abilitazione ottenuta dagli altri candidati, dall'altra si rischia che questa divenga la via preferenziale di accesso ai concorsi, visto l'altissimo numero di precari che insegnano già da tempo. Se non verrà data priorità ai candidati pienamente abilitati, si potrebbero creare differenze e contrasti tra gli insegnanti, senza però garantire uno standard di insegnamento. Nella pratica un candidato che abbia completato l’abilitazione, e ne abbia sostenuto i costi, potrebbe essere superato in concorso da un collega che l’abilitazione non l’ha ancora conseguita, e nemmeno la terminerà completamente. Insomma seguire tutto il percorso dei 60 CFU potrebbe essere sconveniente rispetto a insegnare da precario per qualche anno.
Nel testo della riforma il governo Draghi mette in guardia dal rischio di non riuscire ad assumere tutti gli insegnanti abilitati secondo il nuovo percorso formativo: per far fronte a questo problema, si auspica una programmazione del numero di abilitati per ogni anno. La Fondazione Agnelli, però, evidenzia come nel passato sia stato riscontrato il problema opposto: la maggior parte dei posti di concorso rimangono vacanti a causa della mancanza di candidati formati e qualificati.
Al momento, il problema principale di questa riforma è che ancora non sono presenti i decreti attuativi. Inoltre, non è chiaro chi avrà a carico il costo dell’implementazione del percorso formativo, e si teme che questo ricada sugli aspiranti docenti e sulle università. La riforma non si è concentrata su questo problema e la FLC CGIL teme che per via della mancanza di fondi i 60 CFU non risultino efficienti come previsto. Il rischio che si corre, infatti, è quello di gravare sulle università: queste si troverebbero a formare gli aspiranti insegnanti, che dovrebbero a loro volta sostenere la spesa dei propri studi. A questo proposito, la FLC CGIL evidenzia che si deve evitare la situazione nata dal percorso formativo da 24 CFU, in vigore fino a quest’anno. Come responsabile CGIL Reclutamento e Formazione, Pascarella ricorda che «questo sistema aveva portato alla mercificazione del pacchetto formativo, che veniva venduto anche singolarmente dalle università telematiche. Questo tipo di mercificazione non deve più esistere, e la formazione deve integrare studi teorici e tirocinio in classe».
Si presenta quindi il problema di attuare tirocini nelle scuole pubbliche che formino gli insegnanti da un punto di vista pratico, prendendo esempio dal percorso formativo per i docenti della scuola primaria. «Il tirocinio è stato utilissimo, ma ci sono moltissimi aspetti che andrebbero migliorati. Dei quattro tirocini che ho fatto, ne considero soltanto uno formativo», racconta Letizia. Infatti, i tutor ai quali si viene assegnati nelle scuole sono parte del personale della scuola stessa, e non persone preparate dall’università per formare un futuro docente. Inevitabilmente, questo comporta parecchi problemi per un aspirante docente: «mi sono trovata immersa in un mondo senza alcun canale comunicante con la formazione teorica ricevuta in università», afferma Letizia. Ovviamente, l’aggiunta di personale specializzato comporterebbe una spesa per lo stato, ma negli ultimi 20 anni la spesa pubblica per l’istruzione è diminuita del 1,5% invece di aumentare.
Il percorso di formazione per gli insegnanti è quindi reso tortuoso dalla carenza di fondi e dal continuo susseguirsi di riforme che all’atto pratico non fanno che aumentare la burocrazia. Inoltre, questo percorso porta ad una professione la cui remunerazione è notoriamente bassa: in Italia, il docente medio guadagna circa il 14 per cento rispetto ai colleghi europei. Centrale nella scuola pubblica è quindi il problema dei salari, per la loro scarsità e per la disparità di trattamento nei confronti di precari e docenti di ruolo. Infatti, la FLC CGIL afferma che i precari ricevono i soldi solamente quando il Dipartimento del Tesoro dispone dei fondi necessari. I capitoli di spesa non vengono riempiti correttamente rispetto al reale fabbisogno delle scuole, e ogni anno i docenti sono vittima di questo sistema. Letizia testimonia che durante l’anno scolastico 2020/2021 era diventato normale per lei vivere 3 o 4 mesi senza stipendio, senza notifiche rispetto a quando l’avrebbe ricevuto.
È necessario che i precari abbiano gli stessi diritti dei docenti di ruolo, non solo da un punto di vista economico ma anche di carriera. Secondo Pascarella della CGIL, la procedura selettiva concorsuale finora centrale nel sistema di reclutamento italiano deve essere messa in secondo piano. Invece di investire soldi pubblici sui concorsi, è necessario dirigere i fondi sulla formazione e snellire la procedura di assunzione, com’è stato fatto recentemente con i docenti abilitati al sostegno, che ha portato all’assunzione di 12 mila persone dalle graduatorie di prima fascia.
Il nodo stipendi
Il nuovo ministro dell'Istruzione, Giuseppe Valditara, ha tra i suoi obiettivi la pubblicazione del decreto attuativo che faccia entrare in vigore la riforma avviata dal suo predecessore Patrizio Bianchi. Il provvedimento dovrebbe definire l’offerta formativa che comporrà i 60 CFU: bisogna assegnare un monte ore specifico per la formazione inclusiva, come già fatto per le materie pedagogiche, e definire i tirocini, con particolare attenzione al numero effettivo di ore trascorse in classe. Va perfezionata anche la prova finale, definendo la percentuale di presenze necessarie per l’ammissione e le modalità di svolgimento delle prove orali e scritte. Sarà importante soprattutto procedere velocemente, per dare modo agli atenei di adeguarsi alla normativa e allestire i corsi di formazione in tempo utile. Dal 2025, la via principale di accesso al concorso dovrà essere il completamento dell’abilitazione. Il Ministero aveva annunciato anche che il prezzo dei corsi di formazione sarebbe stato calmierato, ma anche di questo provvedimento non si hanno notizie. Il dialogo con il Ministero dell’Università guidato da Anna Maria Bernini infatti sembra essere serrato ma difficile, dopo che già il precedente esecutivo si era arenato nella ricerca di una mediazione tra le richieste dei sindacati e quelle degli atenei. A questo proposito abbiamo contattato il Ministero dell’Istruzione per avere un riscontro ma non abbiamo ricevuto risposta.
Nel frattempo il ministro Valditara ha raggiunto un accordo con i sindacati riguardo alla condizione economica degli insegnanti, che a partire dal mese di dicembre riceveranno le nuove buste paga, più pesanti di 124 euro, oltre a vedersi riconosciuti in media 2000 euro di arretrati.
In media gli insegnanti italiani guadagnano circa 30.000 euro all’anno, 13.624 euro in meno della media dell’Eurozona. Va detto che sulla media europea pesa molto il dato della Germania, dove in media un insegnante percepisce 67.000 euro all’anno. L’accredito dello stipendio dovrebbe avvenire il 15 dicembre, mentre per gli arretrati l’erogazione dovrebbe avvenire intorno al 23 dello stesso mese. Il ministero ha fatto sapere che non sarà necessaria alcuna richiesta, ma che verranno erogati automaticamente dalla Ragioneria dello Stato, quindi in questo caso non ci si aspetta nessun ritardo, al contrario di quanto visto in precedenza. Il costo della misura è di 100 milioni per quanto riguarda il 2022, mentre sono già stati stanziati altri 89 milioni per il periodo successivo, con l’impegno del ministro di reperire ulteriori fondi nella Manovra, anche se i sindacati per ora non appaiono soddisfatti degli interventi previsti in Legge di Bilancio.
Forse, dopo anni difficili causati dai tagli e dalle difficoltà legate alla pandemia, questa riforma permetterà alle scuole di avere un organico più solido e stabile, evitando il caos di settembre in cui ogni anno incorrono presidi, insegnanti e studenti. Il ministro Bianchi ha più volte dichiarato di aver fornito in tempo tutti gli insegnanti, ma la speranza è quella che si possa pianificare la scuola in maniera costante e che i giovani insegnanti possano pianificare la loro vita senza dover temere ritardi nei pagamenti o continui trasferimenti, senza dover cambiare ogni anno scuola e studenti. Per fare questo serve una politica lungimirante, che investa sulla scuola e sul personale scolastico a lungo termine. Gli insegnanti non devono più essere costretti all’umiliazione di concorsi male organizzati e al caos della burocrazia, ma soprattutto vanno garantiti ai precari gli stessi diritti dei colleghi di ruolo.
Articolo di Lucia Bertoldini, Mattia Amadei, Sara Innamorati