Per accessibilità si intende la capacità di fornire informazioni fruibili a tutti, inclusi coloro che a causa di disabilità necessitano di tecnologie assistive o configurazioni particolari. Abbattere le barriere alla fruizione dei contenuti è il primo passo per permettere a più persone di partecipare e contribuire al cambiamento.
Per questo noi di Scomodo stiamo cercando di inserire strumenti che favoriscano la lettura e la navigazione del nostro sito a quanti più utenti possibile.
Cosa stiamo facendo? Stiamo cercando di migliorare sempre di più l’accessibilità delle informazioni e delle interazioni anche per chi ha necessità particolari: come ad esempio chi può navigare solo con la tastiera, oppure chi ha difetti della vista o disturbi del neurosviluppo che riguardano la capacità di leggere.
Un menu laterale, sempre visibile, ti permette di modificare la visualizzazione della pagina in modo da facilitare la navigazione a seconda delle tue esigenze:
Hai trovato difficoltà? Puoi scrivere a tancredi@leggiscomodo.com.
Il tuo aiuto ci fornirà ulteriori spunti per migliorare l’accessibilità del nostro sito.
Chiudi
Il ruolo politico dell’agricoltura
Ecco come l’1% delle aziende agricole opera su più del 70% delle terre e la gestione spesso non è trasparente.
La proprietà della terra rappresenta da secoli un grande valore dal punto di vista sociale, economico e politico e l’agricoltura è un’attività fondamentale per la sopravvivenza umana, pur convivendo con dinamiche imposte dal mercato globale, dal momento che si tratta di un’attività commerciale i cui livelli di produzione, di prezzo e di conseguente competitività sono legati a fattori ambientali, peraltro, nella maggior parte dei casi, fortemente a rischio.
La scarsa rilevanza nel dibattito pubblico del ruolo dell’agricoltura ha portato alcune trasformazioni strutturali del settore a passare in sordina, nonostante queste abbiano comportato cambiamenti non privi di conseguenze rilevanti. Inizialmente le superfici coltivate sono aumentate a dismisura per soddisfare la crescente domanda dettata dalla vendita al dettaglio e dalla grande distribuzione con la supermarket revolution. D’altro canto, la tendenza opposta ma contemporanea è quella di riservare alle terre ad uso agricolo una nuova vita come luoghi di installazione per complessi industriali o terziari: un fenomeno che sottintende un movimento di accentramento della produzione agricola, che finisce per essere monopolizzata da quelle aziende che per dimensioni, tipo di coltivazioni e allevamenti riescono a mantenere livelli più competitivi. A livello europeo, non è indifferente l’impatto che la regolazione pubblica comunitaria ha sul settore e lo stesso si può dire degli esiti delle negoziazioni internazionali in seno al WTO e al FMI, che periodicamente aggiornano le regole per il commercio internazionale dei prodotti agricoli.
Nonostante le vulnerabilità di cui l’agricoltura e le terre sono vittime, rimane lo spazio per immaginare delle alternative, che esistono in piccole comunità sparse per il mondo e si contrappongono al modello dominante.
Terre sempre più estese ma accaparrate
Attualmente metà della superficie abitabile del pianeta è adibita all’agricoltura; si tratta di 5,1 miliardi di ettari, pari a 0,69 ettari pro capite. Negli ultimi cinque secoli l’espansione della superficie coltivata è stata esponenziale e negli ultimi decenni il rendimento delle terre è cresciuto considerevolmente: per ottenere la stessa quantità di raccolto del 1961 è necessario il 30% della terra allora coltivata, ma questo ha portato a forti conseguenze sull’ecosistema e sulla società. Le disuguaglianze legate ai possedimenti di terre sono profonde, secondo il rapporto “Uneven ground” di International Land Coalition e Oxfam l’1% delle aziende agricole opera su più del 70% delle terre e la gestione spesso non è trasparente. Nella quasi totalità dei casi, queste sono finanziate da holding, investitori o fondi di investimento stranieri in grado di acquisire altre aziende agricole. L’accaparramento di terre – land grabbing – è un fenomeno ormai diffuso in tutto il mondo, difficilmente frenabile, che lede il diritto alla terra e alle risorse naturali delle comunità rurali, previsto dagli articoli 5 e 17 della UN Declaration on Rights Of Peasants. Nonostante i terreni siano legalmente acquisiti, la cessione da parte dei piccoli proprietari risulta praticamente obbligata e concorre ad alimentare la concentrazione delle risorse.
La proprietà delle terre
Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e, in seguito, con la decolonizzazione, si è assistito a una serie di riforme agrarie nei vari paesi, che hanno portato a una redistribuzione delle terre coltivate e quindi alla riduzione delle ineguaglianze. Ma dagli anni Ottanta del secolo scorso c’è stato un deciso cambio di tendenza. L’urbanizzazione di grandi masse rurali, l’abbandono di terreni non più remunerativi forse anche per l’eccessiva parcellizzazione, la difficoltà, se non l’impossibilità, di accedere al credito e il crollo dei prezzi agricoli sono stati fattori che hanno agito insieme fino a portare a una nuova fase di concentrazione delle proprietà dei terreni. Siamo di fronte a un sistema polarizzato: da un lato grandi appezzamenti di terreni capital intensive sfruttati secondo le economie di scala, dall’altro piccole proprietà coltivate per sussistenza o inserite in piccoli mercati locali. Nonostante i due poli si sviluppino in direzioni contrarie, c’è una forte interdipendenza, poiché gli investitori che controllano i grandi terreni tendono ad aumentare i propri patrimoni e il proprio profitto tramite acquisizioni e influenzano le politiche pubbliche con il loro peso economico. La criticità maggiore legata alla preponderanza dell’agricoltura capitalizzata è che concorre all’aumento delle disuguaglianze, che causano disoccupazione, migrazioni, malcontento e talvolta disordini politici, proprio perché le comunità rurali – circa i tre miliardi di persone più povere al mondo – perse le terre, hanno perso tutto.
Il mercato agricolo moderno
Dal secolo scorso, il mercato dei prodotti agricoli è in rapida evoluzione. Gli autori di “Structural Transformation and Economic Development: Insights from the Agri-food Value Chain Revolution” sintetizzano la letteratura sulla storia della rivoluzione della catena del valore agro-alimentare e il suo ruolo nella trasformazione strutturale delle economie in via di sviluppo e descrivono la transizione dal mercato tradizionale a quello globale in tre fasi. La prima corrisponde a piccoli mercati locali non coordinati, altamente competitivi e caratterizzati da poca liquidità; la seconda è caratterizzata dall’integrazione verticale della filiera produttiva, che rimane interamente competitiva e da un’offerta sempre più modellata in base alla domanda, nell’ottica di massimizzare il profitto. Infine la terza fase che porta al mercato globale consta di una diminuzione delle aziende che operano nei segmenti della filiera a basso valore aggiunto quindi una concentrazione delle risorse e di capitali – come nel settore agricolo – in grado di soddisfare la domanda. Inoltre, stanno entrando in gioco flussi di fattori produttivi in input e output su scala globale, propedeutici a un’integrazione sempre maggiore del mercato agricolo, che però si scontrano con la realtà dei fatti. Le criticità di questa fase del mercato agricolo scaturiscono, in primo luogo, dal fatto che nei paesi in via di sviluppo l’agricoltura è ancora oggi un’attività di sussistenza che se capitalizzata porterebbe a conseguenze poco auspicabili di carattere sociale oltre che economico. La globalizzazione degli scambi, la concentrazione delle risorse, la verticalità della filiera hanno portato a un sistema iniquo: i produttori hanno scarso potere contrattuale, sono succubi dei prezzi di mercato via via in diminuzione. Le politiche attuali provocano più distorsioni che benefici effettivi, sarebbero necessarie misure redistributive e regolatorie internazionali lungo tutta la filiera agro-alimentare perché si possa ristabilire l’equilibrio economico e, da non sottovalutare, degli ecosistemi.
Il caso Sardo: le terre derubate
Il land grabbing è un termine ombrello, racchiude al suo interno molte e diverse forme di appropriazione indebita della terra. Si tratta di fenomeni di natura diversa che si sono accentuati durante le prime fasi della crisi del 2008, a seguito di un aumento dei prezzi dei prodotti agricoli e degli esiti delle negoziazioni negli organi internazionali. Quest’ultimi sono culminati con le dichiarazioni della Banca Mondiale riguardo agli obiettivi per il 2015 per i paesi in via di sviluppo rispetto agli Obiettivi del millennio. Le dichiarazioni hanno dato inizio a un trend crescente, che ha visto il moltiplicarsi degli espropri e della riconversione terziaria o industriale delle terre agricole.
Il fenomeno sul territorio italiano ha assunto molteplici e mutevoli forme, che hanno sempre avuto la tendenza ad accumularsi tra loro e a creare precedenti, innescando circoli viziosi di sfruttamento del terreno. In questo ambito la Sardegna è un caso studio significativo, poiché è stata teatro fin dai primi anni 2000 di progetti di privati interessati alla pura speculazione o al raggiungimento di livelli compatibili con le assegnazioni di pagamenti o contributi europei. In primis per la sua posizione geografica strategica, la Sardegna è un’area di interesse come base militare per i poligoni della NATO. Ad oggi sono trentatrè mila gli ettari di demanio militare.
In un’ottica di valutazione della distribuzione delle terre gli enti che operano a fini di difesa, quindi l’esercito e la NATO, operano come dei latifondisti detenendo un fetta molto ampia di terre a potenziale o passato uso agricolo.
Trattandosi di una regione con un esteso segmento di popolazione occupato nel settore agricolo al centro del Mediterraneo, non mancano le prospettive di investimento sia nel settore terziario che nello sfruttamento dei terreni a fini industriali.
L’espansione del settore delle energie rinnovabili, in particolare, ha creato uno spazio per la proliferazione di attività dei privati ai danni dei territori coinvolti, oltre che per il riciclaggio di denaro sporco. Il fenomeno del “mini-eolico” ne è esemplare: si tratta di un incentivo creato dall’Europa per aiutare le piccole aziende agricole, che prevede l’esenzione dalla presentazione della valutazione ambientale ex ante per l’installazione di pale che producano meno di 60 kW. La possibilità di non dover effettuare una valutazione ambientale preventiva ha permesso alle aziende di modificare il territorio circostante al sito di installazione dell’impianto eolico, scavando per esempio le colline sarde tra Sanluri e Villanova Porru per fare strada ai grandi mezzi che si occupano della manutenzione delle pale.
Quello che accomuna le mini pale eoliche, le serre termodinamiche proposte a Narbolia nel 2012, i campi da golf di Condotta Spa a Bosa Marina, i poligoni della NATO e il progetto di trivellazione a S’ena Arrubia commissionato dalla famiglia Soros è la volontà di utilizzare le terre a prescindere di ciò che desidera chi le vive.
Il land grabbing sardo tuttavia non è un fenomeno recente, bensì una pratica molto utilizzata agli albori dell’industrializzazione: il territorio porta ancora tracce dei processi industriali alimentati a carbone, interi paesi sono stati infatti convertiti in miniere e tutta l’azione economica locale è ruotata attorno all’estrazione delle materie prime per decine di anni. Uno di questi è Ottana, paese salvato dalla seconda ondata di colonialismo industriale grazie alla riprogrammazione regionale dell’utilizzo delle terre nelle zone e ad uso agricolo.
Il lato marcio della mela
I passi fatti avanti per la tutela dei lavoratori e delle lavoratrici del settore industriale sono estremamente distanti dal mondo agricolo, all’interno del quale il fenomeno più diffuso è quello delle agromafie. Non è scontato affermare infatti che la mafia affonda le sue radici nella terra, in quanto fonte maggiore di riciclaggio e su cui si basa tutto un mercato di individui e prodotti che va dalle campagne alle città e in svariati settori. In Italia, da Nord a Sud, la sua forma che più si adatta all’attuale realtà globalizzata risulta essere quella del caporalato. Ritornato negli ultimi vent’anni come metodo di ingaggio di manodopera, il fenomeno del caporalato comprende pratiche che vanno dallo sfruttamento allo schiavismo. In questo caso, la macchina dell’agromafia pesa in particolare sulle vite di stranieri finendo per essere alla mercè di una fitta rete di caporali e sotto-caporali di diverse nazionalità. Il caporalato “globale”, come viene definito nel “Primo Rapporto su agromafie e caporalato” realizzato dall’Osservatorio Placido Rizzotto, si basa sullo sfruttamento di chi non ha a disposizione reti sociali dense di sostegno al momento dell’arrivo. Per sopravvivenza e in cambio di un permesso di soggiorno che mai arriva, i migranti accettano di lavorare come braccianti a bassissimo costo e di vivere in abitazioni sovrappopolate o addirittura in ghetti, che in Puglia ospitano fino a 7mila persone, come a Rignano Garganico.
Anche dall’altra parte del globo possiamo trovare una situazione simile al caso italiano, in particolare nelle terre colombiane. Malgrado l’accordo di pace del 2016 tra Stato e FARC (Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia) e i vari tentativi di riforma agraria, moltissime delle terre abbandonate dai desplazados, durante i 52 anni di guerra, e di quelle confiscate alle Farc sono cadute nelle mani dei narcotrafficanti. Dove negli anni ‘50 sorgevano le “repubbliche indipendenti” autogestite, da cui nacque la resistenza armata delle FARC per contrastare il Plan Lazo del Frente Nacional, ora troviamo la narcoborghesia di stampo latifondista e nuove élite agrarie difese dai paramilitari. Inutile sottolineare come tale fenomeno abbia fatto inginocchiare non solo le popolazioni locali e i campesinos incapaci di trovare alternative per la propria sopravvivenza, ma abbia anche recato danni allo sviluppo economico e strutturale di un Paese che ignora la violenza bruta divampata ormai da anni nelle zone rurali della Colombia.
La questione agricola e contadina non si può più considerare un problema a sé, isolato o tematico, ma anzi riassume una critica strutturale alla Catena alimentare agroindustriale e al sistema economico-produttivo che la alimenta. Il cibo è sempre politico e democratico, ma il sistema che lo produce, lo distribuisce e lo consuma lo è molto meno. Non è democratico, perché non partecipato, rivolto a un magro 30% della popolazione pur sfruttando il 75% del suolo e delle risorse mondiali, con l’impatto umano e ambientale che ne consegue. Le realtà contadine, indigene e comunitarie hanno invece visto nella terra coltivata un campo nutriente di relazioni sociali ed ecologiche, un luogo privilegiato di intersezionalità in cui tentare di ricucire il tessuto sociale e chiedere scelte importanti alle politiche locali e mondiali.
Articolo di Samanta Zisa, Eleonora Sartirana, Margherita Vita, Marta Bernardi