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Safepassage 3: la missione di Mediterranea in Ucraina
Il racconto del viaggio umanitario, da Roma a Kiev
È passato più di un mese dal rientro della missione Safepassage 3 di Mediterranea in Ucraina, e parlare di questa esperienza sembra quasi futile, in ritardo coi tempi della notizia. Ma nel contesto globale di una guerra di cui non si intravede la fine, con i mezzi d’informazione compattamente schierati da una parte o dall’altra della barricata e la bandiera di una soluzione militare del conflitto che ancora sventola convintamente nelle cancellerie di tanti Paesi europei, forse il racconto di quei 7 giorni di viaggio da Roma a Kiev e ritorno può aggiungere una chiave di lettura diversa, un’alternativa alle parti assegnate.
Va premesso che quella che segue non vuole essere un’analisi totale della guerra in Ucraina, ma un resoconto parziale di un’esperienza circoscritta. Questo significa che i dati oggettivi – la missione è partita da diverse città italiane con 7 mezzi carichi di 5 tonnellate di aiuti umanitari, medicinali e generi di prima necessità, e ha offerto un passaggio sicuro al ritorno a 28 persone in fuga dalla guerra – vanno distinti dalle opinioni personali, prime fra tutte le motivazioni per cui le persone che partecipavano alla missione sono partite.
La partenza per l’Ucraina
Al 28 aprile, data di partenza, sapevamo di andare incontro ad un contesto in cui la tensione stava montando: la ritirata dell’esercito russo dal nord dell’Ucraina non risparmiava quelle zone ai bombardamenti – la sera del 28, mentre eravamo in viaggio verso il confine polacco, ci raggiungono le immagini di un bombardamento nel centro di Kiev, in occasione della visita del segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres – e l’approssimarsi della data-simbolo del 9 maggio faceva spazio a scenari di ogni tipo, tutti catastrofici, mentre dal sud e dall’est del paese arrivavano notizie di combattimenti feroci. Di fronte alla probabilità crescente di un’escalation, l’obiettivo politico della missione di Mediterranea era quello di una forza di interposizione eterogenea i cui componenti, le volontarie e i volontari rappresentanti di varie realtà della società civile ed organizzazioni politiche territoriali, si esponevano al rischio della guerra per opporsi ad essa e testimoniare l’esistenza di una via alternativa all’invio delle armi: la via dell’aiuto umanitario per chi soffre gli effetti dei combattimenti, della difficoltà negli approvvigionamenti alimentari, per chi vuole fuggire dalle bombe e mettersi in salvo da un conflitto che solo un’ Europa convintamente schierata per una soluzione diplomatica può avere l’ambizione di terminare senza lasciare altri morti, soprattutto civili, sul campo.
Era questo lo spirito che ci aveva motivati nelle settimane di preparazione del viaggio, che aveva animato le discussioni all’interno e all’esterno delle comunità territoriali che avevano aderito a Safepassage 3 (nel mio caso l’associazione civica Aurelio in Comune). Settimane in cui abbiamo costruito una consapevolezza collettiva intorno a quella che sarebbe stata la prima missione organizzata dalla società civile italiana a spingersi fino a Kiev. Qui avremmo scaricato la maggior parte degli aiuti, che sarebbe poi arrivata a Charchiv; e da Charchiv, Cherson, dalle città in cui la guerra continuava ad infuriare sarebbero arrivate le persone che, tramite una rete di contatti in continua formazione, chiedevano un passaggio per la Polonia o per l’Italia: qui c’è un primo elemento che vale la pena approfondire, e che potremmo chiamare la relatività del tempo in un contesto di guerra.
Da Roma a Leopoli, quasi 2000km passando per Slovenia, Austria, Slovacchia e Polonia, con una tappa a Bologna per caricare gli scatoloni raccolti grazie al contributo del Comune e di gruppi di volontari e una lunga attesa alla frontiera polacco-ucraina, abbiamo impiegato 36 ore; per arrivare da Cherson a Kiev, 650km, alcune delle persone che avremmo accompagnato al ritorno di ore ne hanno impiegate 30, testimonianza della difficoltà negli spostamenti in un territorio in cui molte strade sono interrotte, i checkpoint si susseguono senza soluzione di continuità così come gli allarmi dei bombardamenti, e in cui molto spesso a chi vuole spostarsi e mettersi in salvo manca semplicemente un mezzo per farlo. In altre parole, sono i collegamenti che saltano durante una guerra. I vari ponti bombardati che abbiamo incontrato durante il viaggio ne erano l’emblema, con i giganteschi tir carichi di rifornimenti di varia natura costretti a fermarsi e tornare indietro all’improvviso e le attese interminabili alle pompe di benzina per fare 20 litri, a volte 5, a seconda dei razionamenti.
Arrivati alla frontiera, inoltre, ci ha accolto un’altra immagine inaspettata, ridefinendo l’idea che ci eravamo fatti della guerra: una lunghissima fila di macchine in entrata in Ucraina. Forse convinto dai telegiornali e dai giornali che avevo letto fino a poche ore prima, mi avvicinavo alla frontiera sicuro di trovare un paesaggio desolato. Chi mai vorrà entrare in un paese in guerra? Di certo non mi aspettavo di trovare tante persone imbottigliate in quella specie strana di traffico ansiose di tornare a casa. Parlando con alcune di queste avremmo scoperto che stavano rientrando nella fascia settentrionale dell’Ucraina, percepita come relativamente sicura, per occuparsi dei propri campi prima della fine della stagione di semina.
E in effetti di campi ne abbiamo visti molti, una volta superati i controlli: quel paese ultimamente illuminato dai riflettori di tutto il mondo ci si presentava come un’immensa pianura di campi, prati, ogni tanto un villaggio di case, foreste sparse e terra a perdita d’occhio. Mentre acceleravamo per arrivare in tempo per il coprifuoco sembrava quasi di correre su una linea retta. Ma presto quello scenario sarebbe stato spezzato, e da una retta saremmo trasaliti in un segmento.
La distesa quasi monotona di quel marrone sparso in lungo e in largo ora si colorava di chiazze bianche accatastate: sacchetti di sabbia ammucchiati all’incrocio di una strada di campagna, un bidone utilizzato come falò. Era la prima trincea che vedevo. La prima che vedevo dal vivo: in tv, nei servizi e nei talk show, le immagini di quelle insolite costruzioni abbondavano, e un’idea sulle loro forme me l’ero fatta nelle settimane precedenti. Ma non mi aspettavo di trovarle lì, tra quei campi pacifici, su una stradina sterrata che tutto sembrava fuorché un punto strategico per la difesa di un paese in guerra. È anche questo il motivo per cui avevo deciso di partire, per superare le chiacchierate metafisiche dei dibattiti televisivi e guardare da vicino quello che sta succedendo, per rompere la passività con cui spesso, quasi sempre, sentivo di ricevere le notizie dei bombardamenti, così tanto simili ai bollettini dell’era ormai (apparentemente) lontana del Covid-19.
La strada da Leopoli a Kiev
Dalla frontiera a Leopoli la strada è quasi tutta diritta: passa per minuscole cittadine con le cicogne appollaiate in nidi sopra ai comignoli e sui tralicci, villaggi e qualche fattoria in lontananza; prima di entrare in Ucraina i capimissione ci avevano fatto scaricare un’applicazione, “Air Alarm Ukraine”. Superato il blu e il giallo della schermata iniziale, era sufficiente selezionare l’Oblast’ (la “regione”) in cui ci si trovava da un menù a tendina e attivare le notifiche, per essere avvertiti in caso di allarme bombardamento. Era stato il nostro primo contatto con il rischio concreto che correvamo in quei giorni.
Il secondo lo abbiamo avuto una volta arrivati a Leopoli, nel centro dei salesiani che ci avrebbe ospitato per la notte: due palazzoni attaccati ai binari di una ferrovia. Qui, nel silenzio del coprifuoco, all’improvviso una sirena inizia a suonare.
Chi aveva già partecipato a Safepassage 1 e 2 mi aveva parlato dell’esperienza delle sirene come del momento di paura più intenso di tutta la missione, e io avevo cercato di fare tesoro di questi racconti- di prepararmi all’eventualità, per mantenere l’autocontrollo. Ma senza riuscire a sciogliere i miei dubbi: cosa avrei fatto se avessi sentito l’allarme suonare? E poi, che suono aveva un allarme-bombardamento? Alla seconda domanda – più una curiosità che altro – abbiamo avuto subito una risposta: un lamento ondulato che non puoi non sentire, che comincia senza preavviso mentre stai facendo tutt’altro. Nel nostro caso, mentre scaricavamo il carico di aiuti destinato ai salesiani, prima di andare a letto.
Alla prima domanda credo di aver dato una risposta graduale, prendendo un pezzo qua e un pezzo là dalle indicazioni che avevamo ricevuto prima e durante il viaggio, dal briefing operativo con tutti i membri della crew a Bologna alle chiacchierate agli autogrill lungo il percorso. Il risultato è stato quasi automatico: col cuore in gola, ho guardato chi in missione c’era già stato, Gianluca, Luciano, Sara, Elisa. Li ho seguiti con lo scatolone in mano, prima nell’atrio, dove stavamo accatastando gli ultimi aiuti poi nella palestra nel seminterrato. Pochi minuti e l’allarme era finito. Mi è tornato in mente quel momento 4 giorni dopo, quando poche ore dopo aver ripreso la strada del ritorno – un giorno prima del previsto – un messaggio del padre salesiano ci raggiunse per informarci che erano caduti 3 missili a meno di 2km da lì, su un deposito di carburante: per fortuna nessuna vittima. Per fortuna.
Al mattino riprendiamo la strada verso Kiev: la E40, un’autostrada che, stando a Google Maps, in 7 ore e mezza ti porta fino al centro della capitale ucraina. La realtà che ci aspettavamo, con i suoi ponti bombardati, le carreggiate crivellate, i checkpoint, era diversa: sapevamo che avremmo dovuto prendere delle deviazioni, ma non sapevamo dove. Per tutta la missione ho avuto la forte impressione di un contrasto netto, in quella minuscola finestra di una guerra di cui non ho visto che una minima parte delle conseguenze, tra la razionalità strategica dell’universo delle cose che anticipano lo scontro (la disposizione delle trincee, il percorso dei carri russi) e il caos totale che quello che rimane e, soprattutto, quello che non rimane al passaggio della battaglia sembrano lasciare. Buchi neri sulle strisce arate dei campi, colpi sparati dai mortai; case di legno divelte in mezzo al nulla, qualcuna bruciata; minimarket con le vetrine sfondate e gli scaffali pieni. Ma anche mezzi corazzati date alle fiamme e abbandonati nei boschi, coperti dai rami, e accampamenti militari improvvisati tra gli alberi, ora disabitati.
Ovunque, ai lati della strada, campeggiavano i cartelloni della propaganda: riusciamo a decifrare frammenti di frasi, qualcosa come “Dio”, “vittoria”, stagliati sullo sfondo di un sole che sorge su uno scenario tipico dell’Ucraina; oppure l’immagine, su sfondo gialloblu, del Cremlino a forma di incrociatore che affonda in una pozza di sangue, con sottotitolo la frase del soldato ucraino divenuta famosa tanto da esser stata oggetto di un concorso di disegno, stampata sui francobolli e sulle magliette: “Nave russa vaffanculo”. Messaggi di salvezza e di resistenza, che attingono dal vocabolario religioso o dal lessico più esplicitamente bellicista: parole che spingono alla fiducia e alla compartecipazione, almeno emotiva, allo sforzo militare del Paese. Fino ad arrivare ai manifesti dei “soldati eroi” per le strade di Kiev, che invitano ad arruolarsi, e la scritta, in inglese, “Supporto diretto all’Ucraina”.
Mi vengono in mente le parole del responsabile della rete Nonviolence International, che abbiamo incontrato nella capitale ucraina insieme ad altre associazioni laiche e religiose, impegnate a fornire assistenza alla popolazione civile: «Non conta chi vince la guerra, conta chi vince la pace». E la pace, nel bel mezzo di uno scontro tra due eserciti, sembra la cosa più lontana, quasi un lusso che non ci si può permettere, non prima di essersi assicurati la vittoria. Uno strano ottimismo avvolgeva quei cartelli: uno sforzo muscolare in cui il tono della narrazione sembrava si confondesse con la realtà dei fatti, la speranza alla certezza. Era questione di tempo, sembravano dire, e l’Ucraina avrebbe vinto, e avrebbe vinto sul campo.
È stata forse la difficoltà più grande che abbiamo incontrato durante il viaggio: riuscire a intrecciare delle relazioni con le realtà della società civile attive in Ucraina, da una posizione di comune opposizione alla guerra e per la costruzione di un corridoio umanitario che abbia una forte valenza politica. Mancava un terreno condiviso: eravamo come i pezzi di quel ponte che, ad un certo punto, interrompeva la E40 su cui correvamo, lasciando i due lembi di asfalto a guardarsi da un lato all’altro sul ciglio di un cumulo di macerie; in mezzo, una bomba li aveva divisi.
Per noi, dal “nostro” lato di ponte, più armi significava il prolungarsi della guerra, e l’aumento delle vittime civili; dall’altro lato, quello di chi dava le spalle alla propria casa per difenderla, non c’era altra scelta se non combattere, e senza armi non si dava resistenza. Allora, l’unica via che potevamo provare ad imboccare era una via laterale, ricavata alla bell’e meglio in mezzo a un bosco, tra terreni fangosi e una passerella improvvisata gettata sopra un fiume. Dovevamo provare ad aggirare quel crepaccio per far arrivare quanto serviva per sopravvivere – medicine, cibo, pannolini, sacchi a pelo – per salvare vite umane. Recuperare, per quanto possibile, qualche briciola di quotidianità.
Ci fermiamo sul ciglio della strada, alcuni di noi si allontanano per trovare un posto riparato. Più tardi saremmo stati messi in guardia dal nostro ospite a Kiev, padre Maxim: quello poteva essere un terreno minato, di cui solo l’esercito ucraino aveva le mappe. Ciò che questa guerra aveva iniziato o fatto esplodere non sarebbe finito domani, anche se la guerra fosse cessata all’improvviso: la demilitarizzazione del Paese sarebbe stata una strada lunga, e certe ferite non sarebbero guarite forse mai, come quelle di due bambini che abbiamo riportato con noi al ritorno, insieme alla madre, chiusi in un rifugio antiaereo per settimane. Era entrata nelle vite delle persone, nei ricordi dell’infanzia, nelle storie di famiglia. Era su una prospettiva di lunga durata che dovevamo calibrare il nostro lavoro e il progetto di una rete sovranazionale pacifista: questa era la consapevolezza che montava in noi in quei giorni, e che abbiamo riportato a casa.
Costretti verso nord per le condizioni del percorso, imbocchiamo la E373, una strada anonima che passa per alcune tra le località più rinomate della guerra, almeno per un certo tempo, Buça e Irpin. La sensazione mentre ci avvicinavamo era strana, come se una sotterranea eccitazione ci spingesse verso quei luoghi, mentre attraversavamo le vie strette, con le facce appiccicate ai finestrini, per vedere, per cogliere anche un singolo dettaglio del massacro. Una troupe riprendeva un giornalista all’angolo di una via di case distrutte. Quello stesso giorno era stata rinvenuta una nuova fossa comune, ci avrebbe raccontato il nunzio apostolico durante il nostro incontro il giorno successivo, corredando l’informazione di racconti di alcune delle atrocità perpetrate dai soldati russi.
La capitale ucraina
È difficile trattenere una risposta puramente emotiva, passando per quei vicoli che per settimane sono stati presi a esemplificazione delle forze quasi demoniache degli aggressori, forze di cui evidentemente cercavamo le prove sui muri delle villette crivellati, sulle facciate dei palazzi scarnificate dai colpi di mortaio, sui calcinacci di una palazzina crollati sullo scivolo di un parco giochi i cui colori accesi si scontravano col grigio lugubre e la puzza di bruciato tutt’intorno. Ci è voluta una chiacchierata con un soldato ucraino conosciuto per caso durante una delle tante file al benzinaio (file in cui ci si ritrovava tutti, militari e civili, tutti in attesa di ricevere la stessa dose razionata di benzina) per riportare un po’ di lucidità sulle dinamiche dell’accaduto: a sua detta la strategia per conquistare Kiev prevedeva un’azione coordinata tra le truppe, armate alla leggera, paracadutate in città e i contingenti corazzati provenienti dall’esterno, che avrebbero dovuto servirsi del corridoio creato dalle prime per penetrare nella capitale. Di fatto, le tattiche di guerriglia applicate dagli ucraini fuori e dentro Kiev insieme con i rallentamenti provocati all’avanzata dei carri – bombardando i ponti, combattendo strada per strada – avevano impedito la comunicazione tra i due pezzi di esercito russo, che intanto reagiva intensificando i bombardamenti e le rappresaglie, concentrando l’assedio fuori dalla città, soprattutto a Buça, e respingendo infine i reparti invasori.
Ogni singola azione, anche in guerra, ha i suoi responsabili, cui vanno imputate senza sconti e senza scuse, a maggior ragione quando ne viene riconosciuta la natura di crimini di guerra ai danni di civili inermi. Mai come in quei giorni, tuttavia, in cui ambasciatori e alti funzionari esprimevano, nei nostri colloqui, tutto il loro timore per una per niente improbabile escalation – addirittura, per alcuni, nucleare – ci sembra chiara la cosa più banale, e cioè che per prevenire nuovi massacri bisogna fermare la guerra. Il che significa fare qualcosa in più che individuare i responsabili – continuando ad inviare armi che prima o poi verranno usate: significa assumersi la responsabilità di trattare per la pace.
«Sul lungo periodo la via da privilegiare dovrà essere quella pacifista», mi risuonano le parole di Andre Kamenshikov, responsabile di Nonviolence International per le aree dell’est Europa e promotore di vari progetti che puntano sull’educazione come strumento di integrazione tra i popoli e diffusione di una cultura pacifista. Ma nell’immediato, aggiunge tra le righe, una resistenza armata è necessaria.
Molto più espliciti i responsabili dell’All Ukranian Youth Center di Kiev, centro giovani che si è ripensato, dall’inizio del conflitto, come punto di raccolta e di smistamento di beni di prima necessità. «Senza armi dall’Europa non possiamo difenderci. Stiamo combattendo anche per voi, dovete supportarci», mi confessa uno di loro in ascensore, mentre raggiungiamo un locale riconvertito in magazzino per lo stoccaggio delle donazioni – molte delle quali, ci dicono, provengono dall’Italia – e l’imballaggio degli aiuti. «La situazione a Kiev è migliorata da una decina di giorni, ora sono soprattutto le regioni a est e a sud ad essere in grave difficoltà: le persone lì hanno perso tutto», continuano a ripeterci, e quando gli chiediamo di cosa hanno maggiore bisogno ci rispondono senza pensare: lacci emostatici, cibo, kit medici. Per curare le ferite, per tamponare la crescente crisi negli approvvigionamenti alimentari e di generi di prima necessità.
Per le vie della capitale, un miscuglio di epoche e stili architettonici diversi, di colori, altezze, panorami, la vita ritornava a fare capolino dopo settimane di assedio: giardinieri che sfalciano i prati – l’erba cresciuta in maniera scomposta ancora si vedeva qua e là – fermate dell’autobus affollate circondate dai sacchetti delle trincee, gente in giro a passeggio, un soldato che baciava una ragazza come nella foto di Eisenstaedt. Ovunque un desiderio di riprendersi le proprie esistenze pacifiche che conviveva e che strideva con le bandiere gialloblu e rossonere (gli ultranazionalisti ucraini) issate in cima ai checkpoint.
Nella metropolitana, una delle più profonde al mondo, ancora si notano dei materassi arrotolati nei lunghi corridoi utilizzati come rifugi antiaereo. C’è chi torna lì a dormire, per paura delle bombe, ma sono ormai in pochi. Scendiamo alla fermata di piazza Majdan: il luogo simbolo della rivoluzione del 2014, la cui immagine non riuscivo a dissociare dalla folla accalcata, dalle urla e dal rumore; la troviamo quasi vuota, presidiata dai soldati che ci squadrano come se fossimo turisti – completamente fuori posto in quelle circostanze – e fortificata dai soliti sacchetti di sabbia arroccati. Solo delle percussioni, all’angolo della strada: un ragazzo suona la batteria – Roxana, l’interprete della missione, ci dice che è la canzone di un musicista diventato famoso i giorni degli scontri intorno a Kiev per aver documentato in diretta col proprio telefono quello che stava succedendo. Una ri-significazione del suo ruolo che corrisponde perfettamente alla ri-significazione di quella piazza, che era stata simbolo di una rivoluzione ed ora diventava simbolo della resistenza all’invasore.
Risignificazione o accumulo di storia, come nel caso di Valeri, sulla settantina, viso gonfio e sguardo simpatico: nel 1986 è stato uno dei pompieri che hanno spento le fiamme e spalato la grafite a Chernobyl. 36 anni dopo lascia un’Ucraina in guerra, una guerra in cui sono impegnati anche i suoi figli, per raggiungere la moglie malata in Italia. Tra Google Translate e l’aiuto dell’interprete recuperiamo per frammenti i suoi racconti: l’esplosione del reattore, il cielo coperto di un fumo di un colore strano, la preoccupazione, e poi le settimane della guerra, la decisione di partire. Pezzi di una storia tutt’altro che finita.
La stessa storia che deve aver bussato alla porta del padre dei 3 bambini che abbiamo portato con noi in Italia: esentato dalla leva per le leggi dell’Ucraina, la mattina della partenza ci comunica che sarebbe rimasto per difendere il suo paese, la casa in cui spera che sua moglie e i suoi figli possano tornare presto. Una storia complessa in cui si rischia di avvitarsi per esprimere un giudizio: complessa perché fatta di tante storie che sfuggono agli annali, ma in cui il peso degli avvenimenti è concreto, sofferto, reale. Per questo ci è richiesto, a noi che siamo ancora relativamente riparati dall’infuriare degli eventi, di guardarli non con gli occhi di chi vi è immerso, ma di chi può permettersi di vedere oltre.
«Vede una via d’uscita dalla guerra?», chiede Sara, la portavoce nazionale di Mediterranea per Safepassage, al Metropolita Epifanio che ci saluta dopo un lungo incontro ufficiale. «Siamo disposti a perdonare i russi se riconosceranno i propri errori». Una porta aperta alla speranza, incardinata su un sentimento serpeggiante che si fa sempre più vicino a una certezza: che il popolo ucraino sia stato violato dal popolo russo. E finché sarà questo sentimento a puntellare i confini dell’“Europa”, nessuna garanzia di sicurezza sarà conservata se non con le armi.
Il ritorno
Il ritorno ci riserva uno scenario in evoluzione: ruspe e gru ricostruiscono un ponte mentre gli passiamo accanto, prendendo un’autostrada che corre diritta fino a Leopoli; pochi rallentamenti, solo dove la carreggiata si restringe per le carcasse di carri armati bruciati che ancora non vengono rimosse – un soldato un si fa un selfie mentre un altro poggia il piede sul cannone incenerito. Il centro dei salesiani dove abbiamo dormito all’andata si era popolato, intanto, di famiglie provenienti dalle altre regioni, al riparo o in attesa di proseguire verso la tappa successiva: Leopoli, ultima grande città dell’Ucraina occidentale, funziona ancora come snodo ferroviario per le migrazioni dall’interno verso l’esterno del Paese. Era quello il punto d’incontro con la maggior parte delle persone che sarebbero venute con noi al ritorno.
Durante l’ultimo briefing veniamo a sapere, tramite contatti personali e le associazioni che abbiamo incontrato, di molte situazioni di persone che non possono affrontare il viaggio a causa delle gravi condizioni di salute – ferite e condizioni croniche aggravate dalla guerra: le richieste in continuo aumento che già avevano spinto l’organizzazione di Mediterranea a ragionare su una quarta missione incentrata sul trasporto e sulla costruzione di un presidio sanitario in territorio ucraino. Bisogna reperire i mezzi, trovare il personale, raccogliere i fondi: gli obiettivi di Safepassage 4, da raggiungere entro giugno.
Ripartiamo la mattina del 3 maggio, un giorno prima del previsto. Sappiamo che dovremo fermarci in Polonia, dove diversi alberghi si sono convertiti temporaneamente in strutture ricettive per ospitare i rifugiati, e poi proseguire per l’Italia: Veneto, Emilia-Romagna, Lazio, Campania. Quasi tutte le persone che portiamo con noi dall’Ucraina si ricongiungono a parenti e amici, quasi sempre immaginando una situazione transitoria.
L’ultima cosa che vediamo a Leopoli è la stazione. Nel van, accanto a me, Adriano si commuove. «Quando studiavo al Conservatorio di Leopoli questa piazza era piena di fiori. Ci tenevano tantissimo a curarla, era uno splendore». Di fronte a noi uno spiazzo impolverato, arido; agli angoli, delle tende della Croce Rossa accolgono chi ha fatto il viaggio in treno. Non c’è un fiore in giro, solo terra calpestata, una terra a cui qualcuno non si vuole abituare.
Articolo di Lorenzo Ianiro