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La Germania aumenta il salario minimo. E in Italia?
Si è tornati a parlare di salario minimo, e questa volta il segnale è arrivato dalla Germania. Dopo il risultato elettorale che ha visto il trionfo dei Socialdemocratici e la formazione di un esecutivo con i Verdi e i Liberali, nel nuovo accordo di governo approvato a inizio dicembre sono stati toccati vari temi, tra cui quello di un aumento del salario minimo legale.
Una novità dalla Germania
Nel documento si parla infatti del passaggio dall’attuale cifra di € 9.60 a € 12 all’ora, con un aumento del 25%. A detta del neo-cancelliere tedesco, tale manovra toccherebbe una platea di “10 milioni di lavoratori”, seppur al momento è stimato che siano quasi due milioni coloro che ricevono un salario pari a quello minimo legale e che dunque beneficerebbero di tale misura.
Tra questi, inoltre, si rileva che poco meno di un milione siano lavoratrici donne, andando ad aggravare ulteriormente il dato sulla disparità salariale che colloca il paese tedesco al vertice delle classifiche europee sul gender pay gap, dato che queste vengono pagate in media il 20% in meno dei loro colleghi uomini.
Un segnale che è arrivato in un periodo in cui la Germania si trova a lottare con la nuova ondata della variante Omicron che sta mettendo in seria difficoltà la nazione, oltre a fare i conti con un’economia che necessita di un rapido rilancio: esigenza molto chiara al nuovo governo che sta apprestando manovre di politica economica definite “troppo flessibili” dall’opposizione, in un paese che ha fatto del rigore finanziario un proprio punto di forza e stabilità.
La Germania aveva introdotto il salario minimo legale già nel 2015, scegliendo come partenza la cifra di €8,50. Gli effetti positivi non si sono fatti attendere, con un notevole aumento dei salari nelle fasce di reddito più basse negli anni successivi. Inoltre, non si è verificato nessun incremento della disoccupazione, effetto tanto temuto dalle teorie neoliberiste che da decenni criticano l’istituzione del minimo salariale, secondo il facile (ma errato) binomio “più costa il lavoro-meno si assume”.
Non bisogna dimenticare, inoltre, come la Germania dopo la crisi del 2008 abbia vissuto un aumento consistente delle disuguaglianze socio-economiche, con la percentuale di lavoratori poveri che è arrivata a toccare il 24%. Sono stati 4 milioni i lavoratori a beneficiare di un aumento di reddito dopo la riforma del 2015, di cui il 61,7% donne. Il caso tedesco, infatti, non è l’unico in cui l’introduzione del salario minimo ha avuto come effetto la riduzione del gender pay gap, dato che in numerosi altri paesi gran parte della classe lavoratrice femminile è distribuita nei settori a basso reddito.
La situazione sul salario minimo in Italia
Per quanto riguarda l’Italia, il tema rappresenta da anni una questione dibattuta sulla quale sono intervenuti diversi attori.
Innanzitutto un dato: l’Italia ad oggi risulta uno dei sei paesi sui ventisette dell’UE a non avere un salario minimo nazionale, nonostante nel 2019 fosse al quarto posto, con l’11,80%, per tasso di lavoratori in condizioni di povertà (dati Openpolis 2021).
Il principale freno all’introduzione del salario minimo legale risulta senza dubbio la centralità della contrattazione collettiva nel nostro paese, dove per quest’ultima si intende l’insieme di accordi tra le associazioni sindacali e quelle datoriali che dettano le regole dei rapporti di lavoro.
A detta degli stessi sindacati tale sistema subirebbe un grave danno laddove venisse introdotta una misura di questo tipo: ad oggi, infatti, i minimi salariali sono stabiliti dai contratti collettivi per ciascun settore, e attualmente si stima che la copertura contrattuale sia dell’80% dei lavoratori, una cifra soddisfacente nella media europea.
Quando nel 2019, durante il governo giallo-verde, l’allora Ministro del Lavoro Luigi Di Maio riportò a galla il tema, alcuni sindacati lamentarono il rischio di vedere ridimensionato il loro ruolo nella contrattazione. A questo rischio si aggiungeva inoltre la possibilità da parte delle imprese di venire meno a tutta una serie di integrazioni che prima erano definite nei contratti collettivi, nel momento in cui per queste fosse bastato rispettare il salario minimo imposto dalla legge.
Dall’altro lato, invece, chi è a favore dell’introduzione di tale misura, oltre a sostenere che sia una soluzione valida per la lotta allo sfruttamento e alla sotto-retribuzione dilagante, vi contrappone l’attuale incapacità da parte dei sindacati di essere organicamente rappresentativi nella lotta ai salari da fame: questo a causa dell’eccessiva frammentazione delle sigle sindacali e del fatto che una grossa fetta di lavori in cui si registrano alti tassi di sfruttamento non sono coperti da contratti collettivi, o sono coperti da contratti pirata che fanno concorrenza a questi ultimi.
Il grande obiettivo del salario minimo sarebbe quello di far sì che la concorrenza sul mercato non si giochi più sul taglio del costo del lavoro, ma sull’effettivo ampliamento e miglioramento della produzione, che porterebbe anche all’ipotesi di un aumento dei posti di lavoro.
La misura, laddove è stata già applicata, ha avuto degli impatti significativi in termini di aumento dell’occupazione e di lotta alle disuguaglianze, così come nella stessa Germania dopo l’introduzione effettiva nel 2015.
In termini di volontà politica, nell’attuale legislatura l’introduzione di una misura di questo tipo è stata portata avanti principalmente dal Movimento 5Stelle, che ne ha fatto ormai una bandiera di partito.
Oltre alla proposta sopracitata dei tempi del Conte I, il disegno di legge attualmente in esame, che porta infatti il nome della senatrice 5S Catalfo, prevede l’introduzione di un salario minimo orario di 9 euro lordi, di cui beneficerebbe una platea di circa 2,6 milioni di lavoratori – secondo recenti stime dell’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche.
L’obiettivo è anche quello di migliorare le condizioni di un’ampia categoria di lavoratori attualmente non coperti adeguatamente dai contratti collettivi, o nei confronti dei quali la sovrapposizione tra termini contrattuali crea delle distorsioni, come nel caso dei riders e dei braccianti, le cui richieste di adeguata protezione sociale non possono più essere ignorate.
Più recentemente, inoltre, l’attuale Ministro del Lavoro Andrea Orlando si è detto favorevole al dialogo con le parti sociali per aprire un confronto sul tema, dopo aver esortato (non si sa bene chi) a non dimenticarsi della questione dei salari nella gestione dei fondi del PNRR. Questo, dopo che la voce salario minimo era “misteriosamente” scomparsa nel documento illustrativo dell’ingente piano di ripartenza, durante il passaggio dalla prima bozza del Governo Conte II a quella del governo Draghi.
Attualmente le forze di centro-sinistra tra cui PD, M5S, LeU e Possibile sembrerebbero infine voler portare avanti il tema, proprio sull’onda della novità tedesca, senza tuttavia aver ricevuto alcun segnale chiaro di apertura da parte del governo.
Una panoramica europea
Estendendo ora lo sguardo alla situazione europea, dei 27 paesi membri dell’Unione, come precedentemente ricordato, sono solo sei a non avere un salario minimo istituito per legge: Italia, Austria, Finlandia, Danimarca, Svezia e Cipro. I salari minimi orari più elevati si trovano nell’Europa centro-occidentale, con al primo posto il Lussemburgo con €12,73 seguito da Olanda con €10,34 e Francia con €10,25, mentre i più bassi si riscontrano nell’Europa meridionale e orientale. A creare una così ampia differenza è una pluralità di fattori socio-economici nazionali, come ad esempio il costo della vita. In questi stati la legislazione sul minimo salariale e la determinazione dello stesso hanno seguito criteri simili: criteri quali il potere d’acquisto del salario minimo istituito per legge, ovvero la quantità di beni e servizi a cui il lavoratore potrebbe accedere con quel salario – oltre alla situazione generale dei salari lordi, compreso quanti questi crescano nel tempo – e gli avanzamenti della produttività lavorativa, cioè quanto il singolo lavoratore impatta mediamente sul livello di produzione di un’azienda.
Negli Stati che non hanno istituito un salario minimo nazionale il dibattito verte principalmente intorno al tema dei contratti collettivi nazionali, dal momento che molti di questi, fatta eccezione per Cipro, coprono una percentuale molto alta della forza lavoro (fino al 98% nei paesi con maggiore copertura contrattuale). In questi paesi a rigettare la proposta sono stati proprio sindacati e lavoratori, preoccupati che l’istituzione di un salario minimo possa andare a svantaggio della classe lavoratrice, entrando in contrasto con le condizioni determinate nei contratti collettivi: ci sono per esempio paesi in cui l’istituzione di un salario minimo sulla base di alcuni parametri e indicatori comporterebbe una retribuzione inferiore a quella già pattuita dalla maggior parte dei contratti collettivi per certe categorie di lavoratori . Guardando ai dati degli stati che l’hanno introdotto, invece, notiamo che talvolta l’istituzione di un minimo salariale ha rafforzato i contratti collettivi nazionali – come nel caso della Germania, in cui è stato particolarmente vantaggioso per i lavoratori di settori a basso reddito.
Bisogna ricordare, tuttavia, che in Germania la copertura dei contratti collettivi non è certamente alta – si attesta sul 62% della forza lavoro – essendo il paese tedesco basato su un sistema misto di regolamentazione dei rapporti di lavoro .
Al contempo, su scala comunitaria si sta pensando a una legislazione unitaria sul tema: già nel 2020 Ursula Von der Leyen ha parlato della necessità di istituire un salario minimo europeo, andando ad agire su un versante che vede il 10% dei lavoratori dell’Unione Europea a rischio povertà.
A ottobre 2021, infatti, la Commissione Europea ha elaborato una proposta per una direttiva che garantisca salari adeguati a contrastare le disuguaglianze economiche, il gender pay gap e la povertà lavorativa. Pur senza stabilire un minimo fisso, date le grandi differenze economiche tra Stati membri, il messaggio che arriva dall’Europa è che il salario non debba solo essere sufficiente a soddisfare le necessità primarie del lavoratore e della famiglia, ma anche a permettere a questo di partecipare attivamente alla vita sociale e della propria comunità. Altra proposta, appoggiata dalla Confederazione Europea dei Sindacati, è stata quella di stabilire due criteri per il salario minimo: quelli secondo cui la cifra non debba essere inferiore al 60% dello stipendio medio e al 50% della media dei salari, criteri attualmente non soddisfatti nella maggior parte degli Stati. Uno studio condotto dall’Università del Sussex per la Commissione Europea ha dimostrato che sarebbero 22 milioni i lavoratori a beneficiare di un aumento di stipendio se il salario minimo garantito non fosse inferiore al 60% dello stipendio medio e 24 milioni se non fosse inferiore al 50% del salario lordo. Osservando esperimenti simili condotti in Stati al di fuori dell’Europa come la Corea del Sud si nota poi che l’aumento del salario minimo legale non ha avuto ripercussioni negative sull’occupazione come alcuni commentatori si aspettavano.
Questo a dimostrazione della complessità del dibattito sul tema, che ancora oggi in Italia trova raramente spazio, nonostante l’ attuale condizione del mercato del lavoro richieda una riflessione di certo più approfondita di quella attuale.
Articolo di Valentina Moro, Nicolò Morocutti