La sanità mentale è ancora un problema politico

Verso la fine della marginalizzazione del disturbo mentale

Il massiccio dilagare del disturbo mentale non prende vita in tempi strettamente recenti, se consideriamo che Mark Fisher nel 2009, durante la stesura di Realismo capitalista, definiva i disagi mentali dei “disordini comuni”, rendendo l’idea della portata ingente e di lunga data del fenomeno al quale tutt’oggi ci troviamo ad assistere.  Ciò che certamente non è cambiato in questo decennio è il modo di percepire a livello politico e di dibattito pubblico il problema della salute mentale: la risoluzione dei problemi psicologici è ancora un tema che viene sistematicamente scaricato sui singoli individui, alimentando un circolo vizioso che privatizza questi disturbi e li tratta unicamente come squilibri individuali o problemi riconducibili a disfunzionalità familiari ed esperienze traumatiche pregresse curabili mediante farmaci o, nei casi migliori, la terapia. Dimenticando – forse volontariamente – il possibile impatto di cause sociali sistemiche sulla salute mentale dei singoli.  

Le ripercussioni dell’attuale situazione pandemica hanno evidenziato un considerevole aumento dei casi di disturbi mentali, mettendo ulteriormente in evidenza la portata delle cause sistemiche del problema, sicuramente gravose almeno quanto i possibili squilibri individuali. Si rende così ancora più urgente la necessità di ripoliticizzare la malattia mentale, in modo da risalire alle cause sociali e politiche che la scatenano, senza limitarsi a una segnalazione, ad esempio, del basso livello di serotonina come causa centrale che conduce alla depressione, che lascerebbe da parte il quadro complessivo delle motivazioni per cui questo livello sia effettivamente basso in un numero sempre crescente di individui. Naturalmente, ricondurre qualsiasi genere di disturbo mentale a cause economico-politiche sarebbe semplicistico, come lo è anche cercarne le radici unicamente nella chimica individuale del cervello malato. Tenere sulla bilancia entrambi i parametri e osservare alla giusta distanza il quadro completo può certamente fornire elementi più accurati rispetto a un’analisi univoca delle cause che conducono alla malattia. 

 

Il peso gravoso del capitalismo sulla psiche

Facendo qualche passo indietro al periodo pre-pandemico erano già varie le radici sistemiche del problema messe in evidenza da diversi studiosi. Oliver James, nel suo saggio Il capitalista egoista traccia un quadro completo di come siano proprio le politiche egoistiche messe in atto dal sistema neoliberale ad alimentare l’incremento dei disturbi mentali: “le tossine più nocive del capitalismo egoista, sono quelle che sistematicamente incoraggiano l’idea che la ricchezza materiale sia la chiave per la realizzazione personale, che i ricchi sono i vincenti e che per puntare in alto non serve altro che lavorare sodo, indifferentemente dal retroterra familiare, etnico o sociale di provenienza. Se poi non riesci, l’unico da biasimare sei tu”. Questo meccanismo conduce così alla costante convinzione che i soli ostacoli al raggiungimento di un potenziale produttivo ininterrottamente performante sono dentro noi stessi, e che quindi la battaglia da intraprendere per uscire da questo cortocircuito sia di fatto una guerra intestina nei confronti del sé. 

Proprio l’auto-sfruttamento è stato individuato da Byung-Chul Han in La società della stanchezza e Psicopolitica come una delle principali manifestazioni della patologia simbolica dell’età contemporanea, contraddistinta da una costante parvenza di libertà che spinge però a far coesistere vittima e carnefice, sfruttatore e sfruttato, all’interno di un unico individuo che ha come obiettivo sempre più ambizioso l’auto-ottimizzazione, che consentirebbe di guarire dalle debolezze funzionali e dai possibili blocchi mentali, tutto in nome della massima efficienza delle prestazioni. Questo perché non esiste più uno standard di lavoro sufficiente, tale da far sentire l’individuo al sicuro e da consentirgli quantomeno una pausa dalla costante produttività. Un’analisi accurata di questo processo e del suo catastrofico impatto sulla salute mentale degli individui è condotta da Davide Mazzocco in Cronofagia: come il capitalismo depreda il nostro tempo, in cui emerge chiaramente l’ipnotica volontarietà di questo asservimento al sistema che erode le ore di sonno, dilata i tempi del consumo e demonizza ogni secondo di inattività, creatività e autocoscienza, aggravando lo stato di salute della popolazione a livelli sempre più disastrosi. 

Anche in ambito accademico si sviluppano processi simili, che danno vita a una costante ansia da amplificazione del curriculum con l’obiettivo di tentare disperatamente di ovviare ai livelli sempre più kafkiani di incertezza cui si va incontro approcciandosi al mondo del lavoro. Come descritto da Fisher in Il nostro desiderio è senza nome, infatti: “I facchini del capitale accademico, sono costretti non soltanto a svolgere nei minimi dettagli il prospetto, ma a registrare ogni singolo gesto produttivo. Gli unici peccati sono peccati di omissione. In questo senso, il passaggio dalla valutazione saltuaria e moderata alla valutazione permanente e ubiqua non può non dar luogo a una sorta di stacanovismo del lavoro immateriale, che come il suo antenato stalinista supera ogni logica di strumentalità, e non può che generare un sottofondo permanente di ansia debilitante”. Il grande problema di questa patologia è quindi anche il fatto che metta al centro perlopiù un sentimento di individualismo competitivo, che rende la depressione una malattia contemporanea in grado di decomporre la collettività e stimolare forme sempre nuove di atomizzazione. 

 

Sul ruolo del folle nella società 

Ma la disgregazione della collettività quando si tratta di malattia mentale non è un meccanismo certo nuovo, la marginalizzazione della figura del “folle” e la conseguente scissione tra blocchi antagonisti costituiti dalla dialettica individuo sano – individuo malato veniva già trattata dagli studi di Basaglia, che individuava in questa opposizione un tentativo di costruire dei veri e propri muri, degli argini di contenimento di ciò che era definita follia o deviazione dalla norma, per paura che questa potesse in qualche modo infondere nel resto della società. Tuttavia la definizione di ciò che può essere comunemente inquadrato come “norma” si trova nuovamente in mano alla classe dominante, che traccia i confini e stabilisce ciò che si trova al di fuori o al limite di questi. Il concetto di “normalità” non è un concetto universale, ma risulta bensì essere un insieme di valori relativi codificati dalla classe dominante, che li presenta come assoluti e immutabili. Fornire una definizione e delineare dei confini netti tra ragione e antiragione, norma e follia risulta pressoché impossibile da un punto di vista filosofico, come scrive Foucault in Nascita della Clinica: di qui il potere fondatore della follia. Fondazione innanzitutto della ragione, in quanto, almeno a partire da Descartes, la ragione è ciò che resta quando si esclude tutto quanto è anti-ragione; la ragione circoscrive il suo spazio proprio tramite l’esclusione della terra di nessuno della follia, di questa plaga silenziosa che la circonda da ogni parte”. 

L’arma principe di questa guerra alla deviazione è indubbiamente la scienza, grazie alla quale è possibile, secondo Basaglia, consultare chiare codificazioni ed etichette che consentono una netta separazione della deviazione rispetto alla norma, diagnosticando efficacemente la follia, e tutelando quindi il resto della società da questo spettro di abnormità che incombe. È infatti proprio grazie alla figura del medico, come scrive Foucault in Storia della follia nell’età classica, che si realizza quell’assenza totale di comunicazione tra l’uomo di ragione e il cosiddetto “uomo di follia”. Il medico acquisisce una sorta di delega verso l’orizzonte della deviazione, ponendosi come intermediario consente di rinunciare all’utilizzo di un linguaggio comune. La rottura di questo dialogo sarebbe da far risalire, secondo il filosofo, alla costituzione della follia come malattia mentale, alla fine del XVIII secolo, in cui si perde ogni possibilità di comunicazione e “si pone la separazione come già acquisita, quando sprofondano nell’oblio tutte quelle parole imperfette, senza sintassi fissa, un po’ balbettanti, nelle quali si operava lo scambio della follia e della ragione”. 

Si è sperato così, nel tempo, tentando di perdere ogni forma di comunicazione con la dimensione dell’anti-ragione, di poterla semplicemente cancellare. Dimenticando forse la reciprocità che lega ragione e anti-ragione, che non consente di scindere mai completamente razionalità e follia, nemmeno fornendole quel fragile statuto di accidente patologico da relegare ai margini della società. Foucault situa infatti la dimensione della follia all’interno di una componente anarchica che si trova al di fuori della storia, in quella “regione scomoda” in cui non è ancora avvenuta la scissione tra ragione e sragione, dove la follia emerge come gesto originario, come “grado zero della storia della follia”. Ma il potere biopolitico si sviluppa, secondo il filosofo, mediante una promessa di benessere collettivo che agisce definendo una norma da rispettare per poter godere di questo diritto al benessere e offrendo antidoti come quello medico, per poter rientrare nei parametri stabiliti. Chi non riesce a inserirsi in questi spazi subisce semplicemente l’esclusione, o, come accadeva in passato, la ben peggiore reclusione.

 

Forse è quindi necessario, oggi più che mai, smettere di relegare la follia al margine, inglobarla in un modo nuovo all’interno della società e del dibattito e pensare nuove politiche pubbliche per ovviare al problema del disturbo mentale.

 

Questo articolo è un adattamento dell’approfondimento La sanità mentale è ancora un problema politico che potete trovare sul numero 40 di Scomodo abbonandovi qui.
Articolo di Arianna Preite. Hanno collaborato Anna Leonilde Bucarelli, Benedetta Arcangioli e Luca Giordani