Cosa sta succedendo tra Scozia e Londra

Le elezioni locali sono un mandato per l'indipendenza, ma il primo ministro Johnson non cede alle pressioni

04/06/2021

La Scozia ha alle spalle una storia di veemente nazionalismo, il quale può essere personificato – utilizzando un’immagine cinematograficamente nota a tutti – con l’eroe nazionale William Wallace, poi protagonista del pluripremiato film del 1995 “Braveheart”. Tuttavia dall’Act of Union del 1707, la Scozia è una home nation del Regno Unito e de facto subordinata a Londra.

I 300 anni che ci separano da quegli anni non hanno assopito i cuori degli abitanti delle Highlands, che più volte hanno chiesto maggiore indipendenza. La svolta arriva con il primo governo Blair, che promette e attua un vigoroso pacchetto di riforme costituzionali, tra le quali è compreso un graduale decentramento del potere da Westminster nei confronti delle realtà locali. Con il referendum del 1998, gli scozzesi esprimono il loro consenso alla nascita di un parlamento nazionale: è l’inizio della “Devolution”, ovvero il percorso che ha permesso la formazione dei parlamenti di Galles e Irlanda del Nord, nonché dei sindaci direttamente eletti nei grandi centri abitati, tra cui Londra.

Grazie primo Scotland Act del 1998, Edimburgo si dota di un parlamento direttamente eletto dai cittadini, che esprime un First Minister incaricato di formare un proprio governo e di occuparsi delle sue materie di competenza. Tuttavia pensare ad una federazione sarebbe erroneo, soprattutto prima del 2012 – anno in cui si ha il secondo Scotland Act che conferisce maggiori poteri e soprattutto la sovranità a tale parlamento – l’assemblea di Holyrood è fortemente limitata da Londra, nonostante detenga il potere legislativo per le materie di sua competenza tra cui: la sanità, la pesca (nodo cruciale dopo la Brexit) e l’istruzione.

Quello che era stato pensato come un sedativo ai moti indipendentisti, si è trasformato nell’oggetto con cui gli scozzesi hanno saggiato il sapore di un’indipendenza mai dimenticato, dando vita alla bagarre di questi anni. 

 

L’indipendentismo e il suo sogno irrealizzato 

Le conquiste garantite agli scozzesi al concludersi del ventesimo secolo attraverso il processo della devolution hanno infatti solamente alimentato il forte sentimento nazionalista, che ha poi spinto i cittadini a richiedere ed ottenere un referendum sull’indipendenza nel 2014.

Tra gli attori che hanno permesso l’attuazione delle richieste del popolo scozzese, lo storico partito indipendentista S.N.P. (Scottish National Party) è senza dubbio il principale, in prima linea sin dagli anni ‘60 nella battaglia per l’indipendenza. Fu proprio grazie all’accordo firmato tra il premier David Cameron e l’ex leader del S.N.P. Alex Salmond- oggi a capo dell’Alba Party, un piccolo partito indipendentista extraparlamentare– che il referendum del 18 settembre 2014 ha portato i cittadini scozzesi alle urne per determinare il futuro del loro Paese. La nascita dell’Alba Party a Febbraio 2021 ha segnato una delle più recenti sfide interne dell’SNP. Salmond rischia infatti di portare con sé dei voti fondamentali per la Sturgeon, senza avere un reale impatto, non riuscendo a raggiungere un numero sufficiente per essere rappresentato in parlamento. Eppure la brusca divisione dell’SNP, accaduta dopo che l’ex premier fu accusato di molestie sessuali, non ha fermato Salmond dal provare a raggiungere quella frazione di elettorato affezionata alla causa indipendentista ma di impronta più tradizionalista rispetto alla Sturgeon.

 Dopo mesi di propaganda che vide opposte la Yes Campaign e la Better Together campaign, il risultato del voto è stato per il 55% in favore dello status quo, facendo tirare un sospiro di sollievo ai conservatori e agli unionisti. Nonostante ciò, il referendum ha rappresentato uno strappo nell’arazzo della storia del Regno Unito, dopo più di tre secoli sotto uno stesso governo centrale. Lungi dal coinvolgere solamente aspetti economici, politici o strategici, la richiesta di indipendenza da Londra rappresenta in primo luogo una questione identitaria, che un singolo voto non può essere in grado di mettere a tacere. 

La rivendicazione dell’autonomia da Westminster non ha infatti tardato a tornare in auge, in particolare dopo il voto in favore della Brexit, un evento che ha stravolto tutto il panorama europeo. Difatti, sebbene Cameron avesse autorizzato il referendum come un’opportunità unica, da non ripetersi almeno per una generazione- “settled for a generation”-  il processo di uscita dall’Unione Europea ha cambiato radicalmente le condizioni in cui gli scozzesi erano andati alle urne. Infatti nel referendum del 2014, uno degli argomenti contro il “si” all’indipendenza riguardava proprio l’Unione Europea: se la Scozia si fosse resa indipendente dal Regno Unito, sarebbe automaticamente uscita anche dall’UE. Tanto è vero che nel 2016 il voto della Scozia e quello dell’Irlanda del Nord hanno registrato un trend inverso rispetto al resto della Gran Bretagna, con una maggioranza rispettivamente del 62% e 55.8% a favore del rimanere nell’Unione. 

Questo aspetto è diventato il cavallo di battaglia dell’ancora oggi principale partito scozzese S.N.P., guidato dalla popolare leader Nicola Sturgeon, la premier scozzese dai valori socialdemocratici ma profondamente affezionata alla questione nazionalista. La Brexit ha rinnovato la matrice europeista del partito, meno sentita in precedenza, ma che al giorno d’oggi costituisce l’unico elemento a cui gli indipendentisti possono appellarsi per richiedere un nuovo referendum. 

Questo obiettivo è attualmente molto lontano dall’essere raggiunto, a causa delle frizioni tra Edimburgo e Downing Street. Il premier Johnson non fa che sottolineare l’impossibilità di questa richiesta, essendo allo stesso tempo consapevole che una negazione perpetua potrebbe tornargli indietro come un boomerang, in uno scenario simile a quello della Catalogna. D’altra parte lo S.N.P. e tutti gli altri partiti indipendentisti tra cui i Green – che avanzano sempre di più nel quadro politico scozzese – non vorrebbero in alcun modo ricorrere ad un modus operandi fuori dalle righe, sebbene la premier Sturgeon abbia più volte ribadito la propria determinazione nel portare avanti questa battaglia a qualunque costo. 

Londra non ha alcuna intenzione di innescare un processo che ha le potenzialità di sgretolare il Regno Unito – o “untied” (“dis-unito”) come lo ha ironicamente chiamato l’Economist- con un effetto domino che parte dalla Scozia per poi arrivare in Galles e Irlanda del Nord. Le inimmaginabili conseguenze economiche e politiche dell’indipendenza scozzese che spaventano il governo centrale non sembrano mettere altrettanto in guardia i più autorevoli esponenti dello SNP. Questi ultimi pensano infatti di poter imparare dagli errori di Londra durante gli infiniti negoziati Brexit per portare avanti un processo di indipendenza senza troppi ostacoli. Nonostante ciò, la maggior parte dei nazionalisti si rende conto che il processo di distacco definitivo da Londra e il rientro nell’UE non è di certo una strada senza difficoltà, che richiederà molti anni.

In questo complesso contesto, le elezioni che si sono tenute il 6 maggio 2021 sono state un vero e proprio spartiacque per la Sturgeon nell’acquisire legittimità per raggiungere il proprio obiettivo. La vittoria dello SNP ha infatti confermato ancora una volta che la storica questione dell’indipendenza è tuttora prioritaria per il popolo scozzese.

Le elezioni del “super thursday”sono state fondamentali non solo per Edimburgo, ma per tutto il Regno Unito, i cui cittadini si sono recati alle urne dopo molto tempo a causa della pandemia. Proprio per questo, il voto prevedeva l’elezione di molte cariche – sia politiche che amministrative – tra cui 129 parlamentari scozzesi e 60 gallesi, 143 council inglesi e 13 sindaci. 

Queste elezioni sono state inoltre la prima occasione in cui il governo ha avuto un riscontro da parte dell’opinione pubblica sui risultati della Brexit, propriamente avvenuta pochi mesi fa. Se da una parte il confronto con le principali città e con la Scozia ha rappresentato una sfida importante, il governing party è riuscito a guadagnare consenso grazie all’efficace campagna vaccinale e ad avanzare nell’abbattimento del “red wall” laburista. 

 

Effetto Brexit 

Il quadro che hanno restituito le urne è quello che conferma un trend iniziato almeno con le elezione generali del dicembre 2019, vale a dire quello di un paese fortemente polarizzato nelle sue scelte. Il governo di Boris Johnson si avvia ormai verso la conquista del record thatcheriano per la maggioranza più poderosa della storia del Parlamento di Westminster. Tale successo è senz’altro dovuto all’emorragia, ormai quasi inarrestabile, di voti del partito laburista guidato ora dalla giovane leadership – già vacillante – di Keir Starmer. Fondamentale è stata la conquista per i conservatori della constituency suppletiva di Hartlepool, tassello dell’ormai ex red wall. Da sempre era stata una roccaforte di voti per i laburisti, ma con queste elezioni si è trasformata nel simbolo dell’incapacità del partito di parlare al suo elettorato.

Al contrario,i laburisti si dimostrano molto più radicati e vincenti nelle grandi città. Sono ben tredici le metropoli e grandi centri abitati che hanno espresso il loro sindaco, tra cui la Capitale Londra, e tra queste ben undici hanno scelto per una leadership Labour. La partita della City ha poi assunto un ruolo fondamentale in ottica brexit e di risposta al governo centrale, difatti proprio la grande metropoli è stata una delle località dove al referendum sulla permanenza nell’UE del 2016, si registrò una vittoria netta per il remain. Il sindaco laburista di origine pakistane Sadiq Khan, è stato colui che ha ereditato nel 2016 la città dopo ben due mandati Johnson, invertendo radicalmente le politiche del suo predecessore. Ha impostato tutta la sua gestione sulla multiculturalità della grande capitale, divenendo nel 2016 una roccaforte dell’opposizione alla brexit, con la campagna #londonisopen, mirata a offrire “asilo” morale ma anche pratico ai tanti “londoners” europei e non. Sebbene non con la larghissima maggioranza che ci si aspettava, Khan è riuscito a confermarsi per un nuovo mandato, portando avanti le sue campagne inclusive e dando un po’ di respiro al suo partito così in difficoltà. 

Tuttavia il vero nodo cruciale era rappresentato senz’altro dalle elezione del parlamento devoluto di Edimburgo. Elezioni, quelle scozzesi, precedute da un crescendo di proclami tra Downing street e Bute House sull’indizione di un nuovo referendum sull’indipendenza scozzese. L’attuale First Minister Nicola Sturgeon, ora rieletta per un altro mandato, non aveva fatto mistero delle sue intenzioni, anzi ci ha tenuto a ribadire come qualora il suo partito avesse vinto le elezioni del 6 maggio, lei avrebbe considerato tale risultato come un mandato per l’indizione di un nuovo referendum sull’indipendenza. Sebbene non fosse un mistero che la Sturgeon mirasse alla maggioranza assoluta ottenuta nel 2011, per formare un governo monopartitico e più solido, così non è stato. L’obiettivo, mancato per un seggio, la porta ad aprire le trattative per un governo di coalizione con i verdi (anche loro pro-indipendenza), che si apprestano a sostituire i liberal democratici come il terzo polo politico britannico. 

Nonostante “la grande maggioranza indipendentista” – come definita dalla Sturgeon – formatasi con le elezioni, Londra sembra tutt’altro che incline a concedere un nuovo referendum. Johnson agita lo spauracchio della pandemia, dichiarando come questo non sia certo il momento per una scelta del genere, e come una decisione così importante non possa esser affrontata durante un frangente così delicato. La replica della leader dello SNP non si è fatta certo attendere, affermando “Non c’è alcuna giustificazione democratica da parte di Boris Johnson o chiunque altro, per impedire agli scozzesi di scegliere sul loro futuro” aggiungendo “Se i conservatori compiranno un simile oltraggio, dimostreranno come il Regno Unito non sia più un’unione di pari, e che Westminster non vede più il Regno come un’unione volontaria di nazioni”. 

 

Scottexit e incertezze

E’ molto difficile dare una risposta certa sulla possibilità che la Scozia si renda o meno indipendente. Anche se rimanessimo nel solo campo del diritto internazionale, la questione risulta tutt’altro che semplice. Nel caso britannico, a complicare il panorama, interviene lo stesso ordinamento costituzionale della nazione, la quale è risaputo, non possiede una vera e propria costituzione scritta.

La questione si sposta, come sta facendo abilmente la Sturgeon, su un piano morale e politico. Lo SNP sta di fatto costringendo il governo centrale a negare formalmente un referendum. Se costituzionalmente legittimo, questo comportamento sarebbe perlomeno criticabile, e comporterebbe un assist formidabile per il fronte indipendentista.

L’eredità della brexit, poi, non deve essere ignorata da Edimburgo. L’impasse che ha tenuto in ostaggio la sesta potenza economica mondiale per quattro anni potrebbe avere effetti sicuramente più importanti su una piccola economia come quella scozzese. A Buton House credono di poter meglio fronteggiare i negoziati con l’UE forti dell’esperienza del divorzio europeo, ma anche nella più rosea delle ipotesi, questo comporterebbe delle serie conseguenze. Il 60% percento delle esportazioni scozzesi sono dirette al mercato del Regno, un’eventuale uscita costerebbe un taglio del PIL compresa tra il 6.5% e l’8.7%, un prezzo altissimo, soprattutto per un’economia indebolita dalla crisi sanitaria. Inoltre un ruolo centralissimo l’avrebbe l’euro, meno di uno scozzese su cinque sarebbe disposto ad adottare la moneta unica, che molto verosimilmente potrebbe essere una conditio sine qua non per poter accedere al club a 27, oltre alla questione del pareggio di bilancio a cui Edimburgo dovrebbe adeguarsi, costringendo molto probabilmente  il governo a delle politiche di austerity.

Tutte queste al momento rimangono solo speculazioni, sebbene incredibilmente realistiche in caso di una “Scottexit”, che presagirebbero un percorso tortuoso e difficile lungo anni e dall’esito tutt’altro che scontato. Mentre l’ombra di un referendum illegittimo e di una conseguente battaglia legale e istituzionale tra le due capitali si fa sempre più concreta, ad Edimburgo dovrebbero ponderare bene le loro scelte. Prendere in considerazione di giocarsi la carta delle trattative per ottenere una membership ancor più vantaggiosa da Londra, al costo di salvare l’unione del Regno, sarebbe uno scenario verosimile.

Articolo di Di Lorenzo Sagnimeni ed Elena Potitò