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Seaspiracy, tra etica e cospirazione
Le diverse narrazioni documentaristiche del veganismo a confronto
Seaspiracy e il modello di narrazione sensazionalista alla Kip Andersen
Rilasciato su Netflix nel mese di marzo, Seaspiracy, diretto e interpretato dal videomaker britannico Ali Tabrizi, in pochi giorni è entrato nelle Top 10 di trentadue paesi, Italia compresa. Il documentario, che si propone di analizzare e condannare l’impatto ambientale della pesca, è la terza produzione del regista Kip Andersen che la piattaforma di streaming mette a disposizione dei suoi abbonati. La trilogia, composta dalla nuova uscita insieme ai documentari Cowspiracy e What the Health, esplora il mondo della grande produzione, dell’allevamento intensivo, delle aziende farmaceutiche e delle associazioni ambientaliste portandone alla luce i controsensi e i lati negativi, per poi, infine, promuovere come soluzione una dieta a base vegetale. La grande visibilità raggiunta da questi documentari permette una divulgazione veloce dei contenuti presso un pubblico vasto ed eterogeneo; l’informazione riguardo a queste tematiche diventa accessibile attraverso una strada semplice e diretta, che ha l’intento di portare a una presa di coscienza collettiva sul problema.
Il successo di questi prodotti è dovuto, oltre alla popolarità della piattaforma su cui sono fruibili, al modello di storytelling utilizzato dal regista, che punta a una narrazione sensazionalista, veloce e d’impatto. Mentre i contenuti mutano, la struttura dei documentari si ripete inalterata: questi prevedono la presenza di un uomo comune – interpretato da Ali Tabrizi – che, resosi conto del problema, assume il ruolo di “messaggero” e inizia la sua ricerca alla scoperta di ciò che nel sistema non funziona e che lo stesso cerca di nascondere. La presentazione delle “rivelazioni’’ attraverso questa figura porta lo spettatore a immedesimarsi nel personaggio che ha di fronte e ritenersi capace in prima persona di seguire le indicazioni e lo stile di vita promossi dal regista, per contribuire a ‘‘salvare il pianeta’’.
Come sottolineato con un gioco di parole nei titoli dei documentari, l’idea di fondo è quella dell’esistenza di una cospirazione, che impedisce all’informazione corretta di raggiungere colui che la cerca, e di una rete di associazioni e aziende che, per interesse personale, non rispettano i valori etici e morali di cui si fanno portatrici, contribuendo così al peggioramento delle condizioni climatiche. I dati che il regista sceglie di riportare, come la previsione dello svuotamento dei mari entro il 2048 e la percentuale della pesca collaterale o per errore di specie protette, sono però spesso poco attendibili; le fonti vengono rimaneggiate e le informazioni fortemente enfatizzate. L’atmosfera che si crea tende al surreale e la comunicazione è ricoperta da una nuvola di eccesso; le informazioni sono veicolate rapidamente senza lasciare spazio a una riflessione approfondita, provocando, tramite un sovraccarico cognitivo (o information overload), uno “shock’’ iniziale nello spettatore.
L’attenzione mediatica ottenuta è molto alta, ma la curva di interessamento alle tematiche trattate non attende a scemare: dopo aver raggiunto il pubblico massimo, i documentari perdono il loro hype, e anche coloro che, a seguito della visione, avevano iniziato ad agire in modo più consapevole spesso potrebbero tornare alle vecchie abitudini.
The Game Changers: sulla scia di Kip Andersen
Le modalità narrative utilizzate dal regista Kip Andersen si ritrovano anche in altre produzioni, tra cui The Game Changers (2018), diretto dal premio Oscar Louie Psihoyos e prodotto da James Cameron, Arnold Schwarzenegger e Jackie Chan; il documentario si focalizza specificamente sui benefici apportati alla nostra salute da una dieta a base vegetale e ne dà una persuasiva dimostrazione portando come modello figure di sportivi di fama mondiale che hanno abbracciato questa scelta alimentare. A differenza di Seaspiracy, dunque, The Game Changers non si concentra tanto sul problema quanto sulla soluzione: di fronte alle numerose criticità connesse con lo stile di vita attuale dei paesi occidentali, il documentario intende offrire un’alternativa sostenibile e mostrare la validità di un’alimentazione plant-based, spesso erroneamente ritenuta incompleta a livello nutrizionale e, di conseguenza, non adatta a garantire un perfetto stato di salute. Questi luoghi comuni vengono confutati dal narratore James Wilks, campione di Ultimate Fighting, che porta come esempio la propria esperienza; dallo stesso vengono citati anche il campione di Formula 1 Lewis Hamilton, il campione di boxe dei pesi massimi Bryant Jennings, il celebre tennista Novak Djokovic, Morgan Mitchell, due volte campione australiano nei 400 metri, Chris Paul, nove volte All-Star dell’NBA, e molti altri ancora. Tutti costoro dichiarano che, pur non avendo seguito un’alimentazione a base vegetale sin dagli esordi della loro carriera, dopo aver attuato un cambiamento in questa direzione hanno migliorato le proprie performance sportive in termini di forza, resistenza ed esplosività. Tuttavia, anche in questo caso è evidente la natura propagandistica del documentario, dal momento che, oltre a non esserci spazio per alcun parere contrario alle tesi sostenute, molti dati scientifici vengono presentati in modo esagerato e distorto, e alcune informazioni sono addirittura errate: l’affermazione che i gladiatori romani non mangiassero carne è basata non su uno studio, come affermato dal narratore, ma su un racconto di Andrew Curry, uno degli autori della rivista Archeology.
In ultima analisi, questo documentario cerca di fornire la prova schiacciante del fatto che la dieta vegana sia non soltanto la più sostenibile in termini ambientali, ma anche – se bilanciata – tra le migliori per la nostra salute.
Per farlo, seguendo la linea narrativa proposta da Kip Andersen, si serve di un’informazione semplice e d’impatto, in grado di raggiungere anche chi non si interessa direttamente al problema ambientale o non sta cercando di intraprendere un’alimentazione a base vegetale, ma il basso livello di approfondimento e l’approccio poco scientifico non sono adatti a ogni tipo di pubblico. Per trovare spiegazioni esaustive, che vadano a incrementare il livello di conoscenza che si ha già su queste tematiche, bisogna quindi rivolgersi ad un altro modello di documentario, pensato e diretto per fornire riflessioni accurate, che attraverso un’informazione più lenta e dettagliata presenta contenuti meno sensazionalistici ma più approfonditi.
Un’altra narrazione
Il veganismo è “una filosofia e un modo di vivere che esclude, ai limiti del possibile e praticabile, ogni forma di sfruttamento e crudeltà verso animali, per scopo alimentare, per il vestiario, come per qualunque altro scopo; per estensione, promuove lo sviluppo e l’uso di alternative che non prevedono l’utilizzo di animali, per il beneficio degli umani, degli animali e dell’ambiente. In termini di dieta denota la pratica di astenersi dal consumare prodotti derivati, completamente o parzialmente, da animali” (Vegan Society, 1979). Le motivazioni alla base di questa scelta sono di natura ambientalista, salutistica o etica, e i prodotti documentaristici che affrontano questo tema tendono a focalizzarsi su uno di questi aspetti in particolare.
Una riflessione di taglio ambientalista è proposta da Before The Flood (2016), diretto da Fisher Stevens e interpretato da Leonardo Di Caprio. Rispetto ai sopracitati prodotti Netflix, la narrazione è altrettanto scorrevole e incalzante, ma più realistica e priva di quel leitmotiv investigativo ed eroico alla Kip Andersen. Tramite interviste, infografiche e filmati d’archivio, il narratore-protagonista racconta un viaggio di tre anni in giro per il mondo alla scoperta dell’impatto dei cambiamenti climatici e delle soluzioni possibili. La sensibilizzazione sul tema arriva da uno degli attori più famosi e influenti al mondo, il cui scopo non è scovare un segreto nascosto delle varie organizzazioni e industrie, ma esporre in modo oggettivo i rischi a cui l’umanità si sta esponendo con il suo modo di vivere e di mangiare: tra questi, l’aumento del riscaldamento globale – secondo la FAO, gli allevamenti intensivi sono responsabili di più del 14% delle emissioni di gas serra prodotte dall’uomo – la deforestazione, lo sfruttamento e il conseguente impoverimento del suolo. I benefici di un’alimentazione vegetale vengono illustrati in modo conciso ma efficace nel mostrare come un cambio di dieta sia cruciale nella lotta contro il cambiamento climatico.
D’altra parte, la visione di The Milk System (2017), docu-film del bolzanese Andreas Pichler che sonda le varie declinazioni dell’industria del latte e le sue implicazioni sull’ambiente, può costituire un ulteriore spunto per una messa in discussione costruttiva delle proprie abitudini alimentari. In questo caso, le interviste sono rivolte prevalentemente ai produttori stessi, offrendo così il punto di vista di chi ha interesse a mantenere viva l’industria lattifera e, per estensione, quella della carne. Dalla Danimarca al nord Africa, passando per Germania e Italia, le parole di contadini, allevatori, scienziati e lobbisti mostrano come l’intero sistema non sia più sostenibile a livello ambientale, sociale e salutistico, ribadendo la necessità di diminuire drasticamente il consumo di latte e derivati. In Italia il documentario è stato addirittura censurato dalla Coldiretti, che nel 2018 chiese di bloccare le sue proiezioni nei cinema per non creare danni alle aziende del settore, temendo uno spostamento delle scelte dei consumatori verso la crescente offerta di latti e formaggi vegetali – che costituirebbero anche una proficua alternativa per gli imprenditori. La visione del documentario nelle sale italiane è stata poi nuovamente concessa a partire dal gennaio dell’anno successivo.
Di tutt’altro stampo e di tutt’altra visibilità è invece Dominion (2018), produzione australiana in crowdfunding di Chris Delforce narrata dalle star-attiviste Joaquin Phoenix, Rooney Mara, Sadie Sink, Sia e Kat Von D. Dominion entra negli allevamenti e nei mattatoi tramite videocamere nascoste e offre una visione realistica, oggettiva e imparziale di ciò che accade dentro questi luoghi, senza alcun tipo di storytelling, interpretazione o strumentalizzazione; la narrazione, in voiceover sopra i filmati, è asettica e precisa e non indugia su opinioni o commenti; è la forma più cruenta dello “show, don’t tell”. Proprio per questo Dominion risulta estremamente crudo, di difficile visione e meno predisposto a raggiungere un ampio pubblico, ma adatto solo a chi ha il coraggio di guardare attraverso i “Glass Walls” nominati da Paul McCartney in uno spot della PETA in cui citava la frase di Tolstoj “se i mattatoi avessero le pareti di vetro, tutti sarebbero vegetariani”.
Uno sguardo più etico
I prodotti cinematografici considerati finora si ergono a sostegno del veganismo sottolineandone i benefici per l’ambiente e per la salute. Chi sceglie una dieta vegana e uno stile di vita cruelty free, tuttavia, è spesso mosso anche da motivazioni etiche e dalla convinzione che la sofferenza e lo sfruttamento di cui sono vittime gli animali non possano essere in alcun modo giustificate. E’ proprio questa la prospettiva d’analisi adottata da Earthlings, documentario scritto, prodotto e diretto da Shaun Monson e narrato dall’attore Joaquin Phoenix: esso si propone di indagare cinque ambiti in cui l’uomo è arrivato a sfruttare gli “animali non umani” – la compagnia, il cibo, il vestiario, l’intrattenimento e la ricerca – secondo un modus operandi paragonabile a quello adottato dai produttori di Dominion.
Earthlings si apre con una riflessione sul termine e sul concetto di “specismo”, in parallelo a “razzismo” e “sessismo”. Il titolo stesso dell’opera esplicita l’ottica dell’intero documentario: gli esseri viventi vengono definiti “earthlings”, ossia “terrestri”, termine che indica in modo neutro qualsiasi abitante della Terra, senza alcuna implicazione razzista, sessista o specista. E’ un approccio radicalmente diverso da quello tipicamente adottato dall’essere umano, che tende ad abusare della propria condizione privilegiata per dominare non solo le altre specie, ma anche esseri più deboli all’interno della propria. I termini “razzismo”, “sessismo” e “specismo” descrivono proprio questa dinamica, anche se in tre situazioni distinte: i razzisti attribuiscono una presunta superiorità alla propria etnia di fronte alle altre; i sessisti favoriscono i membri del proprio sesso a scapito di quello opposto; infine, gli specisti permettono che i propri interessi e bisogni prevalgano su quelli delle altre specie. Earthlings non nega le importanti differenze che intercorrono tra uomini e animali, anzi le mette in evidenza, sottolineando però che essi sono accomunati dal “desiderio di cibo e acqua, protezione e compagnia, libertà di movimento e istinto a evitare il dolore”; inoltre, molti animali sono in grado di percepire, decodificare e comprendere la realtà in cui sono immersi, esattamente come l’essere umano. Riconoscere queste affinità è il punto di partenza per formulare una risposta alla complessa e scomoda questione che i documentari presi in analisi intendono indagare: qual è il comportamento moralmente corretto con cui l’uomo si dovrebbe interfacciare con gli animali, e più in generale con le altre specie viventi? Una proposta particolarmente illuminante è quella avanzata dal naturalista e scrittore statunitense Henry Beston nella sua opera The Outermost House, citata anche in Earthlings: «L’uomo civilizzato osserva gli altri animali attraverso la lente della propria conoscenza, e pertanto l’intera immagine che ne deriva risulta distorta. Li trattiamo con superiorità per la loro incompletezza, per il loro tragico destino di aver assunto forme così inferiori alle nostre. E in questo sbagliamo, e sbagliamo enormemente. Perché l’animale non deve essere misurato con il metro umano. In un mondo più antico e più completo del nostro, essi si muovevano finiti e completi, dotati di un’estensione dei sensi che noi abbiamo perso o non abbiamo mai raggiunto, vivendo seguendo voci che noi non udremo mai. Non sono fratelli, non sono esseri inferiori: sono altre nazioni, intrappolate insieme a noi nella rete della vita e del tempo, nostri compagni di prigionia nello splendore e nel travaglio della Terra».
Articolo di Federica Lainati, Dania Prina, Elia Zaramella e Francesca Romana Miti