Slowtempo – Mellon Collie and The Infinite Sadness

Il manifesto per un ascolto musicale consapevole

In teoria musicale, gli “slow tempos” sono i tipi di andatura ritmica delle battute più lente: proprio il ritmo che pensiamo serva per capire e godere appieno della musica. Contro la frenesia degli algoritmi di Spotify o Apple Music, Slowtempo è una guida musicale più a misura d’uomo, che racconterà alcuni degli album più significativi della storia recente, e l’impatto che essi hanno avuto sulla cultura giovanile. Il primo che abbiamo deciso di raccontare è Mellon Collie and The Infinite Sadness degli Smashing Pumpkins.

 

Ho 15 anni. Sto tornando a casa da scuola. Fa un freddo assassino. L’autobus è sgangherato, il motore produce vibrazioni quasi sismiche; all’interno l’aria stantia ha un piacevole odore di piscio misto a cenere. Nonostante ciò, sotto il giaccone ho la pelle d’oca. È dovuta all’album che, per la prima volta, sto ascoltando in cuffia, dopo averlo scoperto spulciando nello sconfinato archivio musicale di mio padre. Si susseguono le fermate del bus, ma io continuo a non spiegarmi le sensazioni che mi provoca, tanto mi sovrastano e travolgono. So solo che mi danno conforto, mi fanno sentire meno solo, tanto che vorrei non dover scendere alla fermata di casa mia, e continuare ad ascoltare in loop da un capolinea all’altro. Avrei dovuto aspettare ancora qualche anno per comprendere quelle emozioni a fondo. Dovevo riascoltare quei pezzi innumerevoli volte. Avrei dovuto scervellarmi sul come, quando e perché fossero venuti al mondo. Per capirlo, dovevo fare un salto di 20 anni indietro e catapultarmi negli anni ’90.

 

Ascolto consigliato:

Mellon Collie and The Infinite Sadness

   

È il 1994, in Italia Berlusconi scende in campo. «L’Italia è il paese che amo…» Inizia la cosiddetta “Seconda Repubblica”: si prospettano anni di leaderismo, strapotere delle televisioni, programmi politici on demand. Il governo Berlusconi I è anche il primo, dal dopoguerra, che vede la partecipazione del neofascista Movimento Sociale Italiano. La Silicon Valley ha partorito il Mac. In Giappone i ragazzini impazziscono per un aggeggio che dicono rivoluzionerà il mondo videoludico: lo chiamano Playstation. Anche in America i teen sono in subbuglio, ma stavolta non si tratta di un gioco. Kurt Cobain viene trovato steso nella serra del garage presso la sua casa di Seattle. Si è appena piantato un colpo di fucile in testa. Lascia una lettera alla moglie Courtney Love e alla figlia Frances: «Mi è andata bene, molto bene durante questi anni, e ne sono grato, ma è dall’età di sette anni che sono avverso al genere umano. […] A tutti sembra così facile tirare avanti ed essere empatici. Penso sia solo perché io amo troppo e mi rammarico troppo per la gente. Grazie a tutti voi dal fondo del mio bruciante, nauseato stomaco […] Io sono troppo un bambino incostante, lunatico! Non ho più nessuna emozione. E ricordate, è meglio bruciare in fretta che spegnersi lentamente.»                

I TG locali intervistano adolescenti disperati per le strade. I loro genitori non riescono a figurarsi il motivo di tanta pena:

«Si relazionava alla sua musica?» «Non particolarmente, non penso che lo metterei a confronto ad esempio con John Lennon. È una generazione diversa. Anche il messaggio è diverso.»  (Channel 4, news del 9 Aprile 1994)

A parlare è una signora che ha vissuto il fermento degli anni ’60, per poi ripulirsi e fare una vita nei binari come tutti i bravi ragazzi. Quando usa la parola “diversa” per definire la musica dei Nirvana e la loro generazione, la sua bocca si contorce in una smorfia tra il disprezzo e il compatimento. Il motivo di questa incomunicabilità è che Cobain e la scena anni ’90 parlavano una lingua non comprensibile a chi non vivesse la sua fase adolescenziale in quel periodo. In quegli anni si realizzava che tutto sarebbe cambiato. Il mondo iniziava un’accelerazione tecnologica vertiginosa e prendeva a girare molto più veloce della capacità della gente di stargli dietro. Bisogna correre, e se rimani indietro, è colpa tua. All Apologies, cantava Cobain: “Tutte scuse”. Non c’è più tempo per fermarsi; bisogna assecondare il ritmo schizofrenico che ha assunto la storia. Un adulto cresciuto nell’ingenua utopia degli anni ’60 o ’70 fa fatica ad immedesimarsi nella nuova generazione: questi ragazzini coi jeans larghi, sbiaditi e strappati sono assaliti da un’ansia che serpeggia nella gioventù. È l’ansia di fine millennio: qualcosa di grosso sta per succedere, quindi corri a prepararti. È la stessa angoscia che ad oggi, amplificata dalle casse di risonanza social, è diventata un fenomeno psicologico di massa. La stessa che si sente addosso quel 15enne sull’autobus. Serviva qualcuno in grado di permettere a un ragazzino nato in questa corsa di rallentare, e godersi il tragitto, oppure fornirgli la carica interiore per stare al passo, o dargli la voce per gridare aiuto quando il fiato si spezza e i polmoni non reggono più. Chi si era preso quest’onere, ora se ne era andato. E sembrava che non ne sarebbero più tornati altri. Citando Billy Corgan, il futuro della musica rock si prospettava “squallido”. «Il grunge (genere dei Nirvana) è davvero parso l’ultimo momento in cui stava succedendo qualcosa di più grande della musica.» In effetti, il rock nella cultura mainstream sta perdendo via via il suo incantesimo di emancipazione e libertà, e lentamente viene relegato in un angolo dell’underground. In questo scenario quasi post apocalittico, tra le macerie, un disco fa la sua comparsa sugli scaffali. Già il fascino del titolo, Mellon Collie and the Infinite Sadness, e la copertina, decadente e romantica, lasciano intendere che c’è ancora qualcuno che ha qualcosa da dire. Non è finita.

 

Ascolto consigliato:

1979

“Mellon Collie” è l’ipotetico protagonista, un adolescente di cui l’album intende raccontare le emozioni durante l’arco di 24 ore.. Due sezioni da 14 canzoni ciascuna, che rappresentano il giorno e la notte, dai suggestivi titoli Dawn to Dusk (Dall’alba al tramonto) e Twilight to Starlight (Dal crepuscolo alla notte stellata). La struttura dell’album è simile a quella di un concept, ma molto meno rigida: i brani non sono collegati l’uno all’altro, né si rintraccia una “storia” che si sviluppi linearmente con le tracce. Mellon Collie è più una grande raccolta estremamente variegata. Spiega Corgan: «Mi piaceva molto l’idea di creare un campo più ampio in cui mettere vari tipi di materiale che stavamo scrivendo.» Il genio poliedrico di Billy Corgan stavolta non si è posto limiti, spaziando in qualsiasi territorio esistente marcato dalla generica etichetta “rock”: per ogni sottogenere una canzone, o quasi, tant’è che il lavoro è stato definito un compendio degli ultimi 40 anni di rock. Si va dal metal alla sinfonia di violini; da ballate acustiche all’hardcore; da brani neo-progressive alla pop-wave. Per non parlare della miriade di inediti e versioni alternative dei pezzi oggi disponibili nella Deluxe Edition. In una tale esplorazione di ogni anfratto del rock, frutto di un periodo di estro creativo incontenibile, un filo conduttore tiene assieme la natura multiforme del disco, e fa sì che il tutto valga più della somma delle parti. Lo si ricava immediatamente dal titolo: “… the Infinite Sadness”. I toni cupi e malinconici che permeano l’atmosfera dell’album sembrano cozzare con i posti scalati nelle classifiche. L’opera a detta di Corgan aveva un target preciso: dai 14 ai 24 anni circa. La dichiarazione programmatica: «Spero di riassumere tutte le cose che provavo da giovane ma a cui non sono mai stato capace di dar voce in modo articolato». Nel dar voce al se stesso più giovane, l’ha data all’intera ondata di pessimismo giovanile di quegli anni, alle migliaia di ragazzi avventatisi a comprare il disco, ansiosi di colmare il vuoto lasciato da Cobain e soci. Ma ha dato voce anche al ragazzino sul bus di cui sopra.

 

Ascolto consigliato:

Bullet With Butterfly Wings

L’oscurità dell’album si biforca su due strade: pezzi aggressivi, con chitarre pesanti e super-sature, si alternano a melodie distese, nostalgiche e malinconiche. Li unisce la voce acida di Corgan, quasi fastidiosa, con quel timbro nasale unico, che passa con una facilità disarmante da urla graffianti e rauche a nenie dolcissime. Sono i due poli tra cui oscilla l’emotività di un qualsiasi adolescente medio: dalla rabbia viscerale contro il mondo, alle crisi depressive, senza mezzi termini. Iniziamo dalla rabbia. Deriva dall’essere uno Zero: «Feels like I’m empty and there’s nothing really real», canta Billy nell’omonimo pezzo. Non contare nulla, essere un “nessuno”: in An Ode To No One questi sentimenti degenerano in pensieri autodistruttivi. «I disconnect the me in me» Bisogna riuscire a zittire la coscienza, smettere di pensare, a costo di farsi del male. Certo, puoi spegnere il cervello e rovinare il corpo, ma la sensibilità rimane lì a testimoniare le brutture del mondo. «Destroy the mind, destroy the body, but you cannot destroy the heart». È il cuore che ha fregato Kurt. E il cuore, di peso se ne carica parecchio. 1993: Operazione Restore Hope, Battaglia di Mogadiscio. L’ONU vuole “restaurare la speranza” nelle terre dominate dai signori della guerra. Il risultato: nessun accordo a un tavolo negoziale; tra i somali, 315 morti, 812 feriti; 19 le vittime americane. 1995: l’assedio di Sarajevo si protrae da 3 anni, tra atrocità, stupri e pulizia etnica. I soldati serbi che si rifiutano di perseguitare i musulmani vengono uccisi. I jet della NATO intervengono su obiettivi militari strategici. Con i missili si raggiunge il “cessate il fuoco”. «Why do the same old things keep on happening?» sbraita Corgan in Tales Of A Scorched Earth. La Terra continua a venir bruciata, ma le guerre sono cambiate. Sono occulte, fatte bombardamenti mirati, chirurgici, di terrorismo. Se ne parla poco,e la morte che viene seminata si cerca di renderla socialmente accettabile. I giovani, da sempre spinta che trascina il mondo verso l’utopia, sono sopraffatti dall’impotenza, incapaci di reagire. Non esistono più i tempi del Vietnam, a cui la gioventù rispondeva con Woodstock. Ora la risposta è un sospirato «Well, whatever, nevermind» (Smells Like Teen Spirit, Nirvana). Si risponde “non importa” perché, come canta Corgan in Bullet With Butterfly Wings «Despite on my rage I’m still just a rat in a cage», «Nonostante la mia rabbia sono ancora un topo in gabbia». La smania di avere un impatto sul mondo è frenata dalla sensazione che tanto ciò che fai non servirebbe comunque a niente. I ragazzi sono “bullets, proiettili, ma fragili, con ali di farfalla.

 

Ascolto consigliato:

Farewell and Goodnight

Questa nuova fragilità che si erge a bandiera della Generation X è l’altra anima dell’album, e sostanzia i suoi momenti più intimi. Billy Corgan ha affermato che I’album si basa sul dolore derivante dalla condizione mortale degli esseri umani («the human condition of mortal sorrow»). Un nuovo Sartre, che predica dal palcoscenico. Si muove in modo timido e impacciato per essere una rockstar, ma è lo specchio della massa di ragazzini insicuri che si trova davanti, e stende il manifesto del neo-esistenzialismo che professano. «Ain’t it funny how we pretend we’re still a child?» (Galapogos). Il rifiuto di crescere per non affrontare un mondo che schiaccia come non mai. Un’oppressione che non fa dormire la notte: «If I can’t sleep can you hold my life?» (Take Me Down, unico pezzo scritto dal chitarrista James Iha). I bambini troppo cresciuti e impauriti che la fine del secolo ha prodotto cercano solo una ninnananna che possa scacciare i demoni dei loro incubi. Farewell And Goodnight, chiusa dell’album, con la sua andatura cantilenante e lunare sembra pensata apposta per farli addormentare. «The sun shines, but I don’t, the silver rain will wash away» Col tempo tutto passa, e una pioggia d’argento laverà via lo sporco, ci sussurra Corgan. Lo sbarbato sul bus viene fulminato dall’analogia/differenza di questo verso con uno swing del ’41 che sua nonna gli cantava con lo stesso intento di cullarlo: «Le gocce cadono ma che fa / se ci bagniamo un po’ / il sol domani tutto asciugherà…»

Con questo “Addio e buonanotte” si chiude il disco. La “buonanotte” per tranquillizzare il bimbo che abbiamo dentro, ma “addio” per la consapevolezza adulta che le cose, per quanto belle, finiscono. Billy lo manda ai suoi adolescenti dei ‘90s. Lo manda al 15enne che torna a casa. “Addio e buonanotte” anche a Jimmy Chamberlain, il batterista, che dopo un’overdose di eroina in albergo non si sarebbe più svegliato.

 

Ascolto consigliato:

Tonight, Tonight

Sono in macchina, è notte, sto tornando a casa. Adesso ho 20 anni, non più 15. Non sono proprio adulto e vaccinato, ma ho cominciato ad assaggiare l’amaro di cui si insaporisce la vita man mano che se ne scoprono, per forza di cose, i lati più bui. Qualcuno manda giù senza pensare, come se niente fosse. A qualcuno torna su tutto, e a fatica ricaccia il vomito. Qualcun’altro, le anime più sensibili come i Cobain e Chamberlain di cui sopra, proprio non riescono a farselo andar giù, e allora decidono di arrendersi.

In macchina parte Tonight, Tonight. «You can never ever leave, without leavin’ a piece of you»: crescendo, durante il tragitto ci perdiamo i pezzi per strada. «We’ll never be the same, the more you change the less you feel» più si cambia, più si cresce, più ci lasciamo dietro frammenti di cuore, finchè non diventa insensibile ad ogni stimolo. Ma una speranza riluce con l’irruzione degli archi: «Believe in me […] we’ll make things right, we’ll feel it all, tonight». Billy invita personalmente a tenere duro: ce la farai, e la tua rivincita parte da stanotte. A distanza di 5 anni, mi sta succedendo di nuovo. Ora ho capito il perché di quella pelle d’oca. Corgan disse sull’album: «Sto salutando me stesso dallo specchietto retrovisore, impacchettando la mia adolescenza e mettendola sotto al letto». Tutti conserviamo gelosamente in una scatola quel periodo in cui ci sentiamo senza speranza e soli al mondo. Io non so se lo supererò mai. Per me, come per molti altri, continuerà a fuoriuscire da sotto al letto. Forse siamo eterni Mellon Collie, che, guarda caso, pronunciato in americano suona proprio come “melancholy”.

 

Articolo di Davide De Gennaro