Slowtempo – Born to Run

Il manifesto per un ascolto musicale consapevole

03/12/2021

In teoria musicale, gli “slow tempos” sono i tipi di andatura ritmica delle battute più lente: proprio il ritmo che pensiamo serva per capire e godere appieno della musica. Contro la frenesia degli algoritmi di Spotify o Apple Music, Slowtempo è una guida musicale più a misura d’uomo, che racconterà alcuni degli album più significativi della storia recente, e l’impatto che essi hanno avuto sulla cultura giovanile. Stavolta torniamo nel 1975 con Born to Run, il capolavoro di Bruce Springsteen.

Sono in macchina. Il sole è alto e picchia sul parabrezza, un po’ sporco dalle ultime piogge, il che mi offusca la vista e rende più difficile la guida – quando servono, i lavavetri al semaforo si smaterializzano. Per fortuna ho accanto la mia ragazza, accoccolata sul sedile, che ogni tanto mi accarezza i capelli. È una della prime giornate estive e abbiamo deciso di fare una scappata al mare. Ovviamente non senza della buona musica. Dio, manifestatosi nella riproduzione casuale di Spotify, vuole che esploda dallo stereo il roboante incipit di Born To Run, di Bruce Springsteen. Bastano pochi secondi, e la nostra utilitaria diventa una Chevrolet Chevelle scoperchiata del ’70; la Pontina assume le sembianze della U. S. Highway 9; la meta non è più il litorale laziale tra Ostia e Torvaianica, ma una spiaggia sperduta sull’Atlantico, fuori dal New Jersey. Insomma, uno degli scenari on the road in cui alcune delle intuizioni geniali di Born To Run sono nate e sono state composte. Forse solo da questo paesaggio si può cominciare a comprendere un capolavoro del genere. 

Ascolto consigliato:

Jungleland

Bruce Springsteen, detto “Il Boss”, nasce e cresce a Freehold, area suburbana a 35 miglia da Manhattan, una fra le molte cittadine dormitorio, chiamate così perché abitate solo da lavoratori pendolari che uscivano la mattina presto per tornarvi la sera. Per raggiungere il posto di lavoro, gli abitanti erano soliti percorrere la Route 9, autostrada che seguiva tutta la costa atlantica del Delaware fino a New York. Ma le strade, si sa, hanno due corsie: una portava dai sobborghi al grigio dei grattacieli; Bruce e i ragazzi come lui preferivano invece scappare dalla città, e dirigersi nel senso inverso oltre la New Jersey state line (Jungleland) in una fuga dalle ristrettezze verso l’aperto dell’oceano, la fuga che sarà il filo rosso della musica di Springsteen. Suo padre, Douglas, era invece uno dei caparbi working-class-men che imboccava la Route 9 verso New York. Si arrangiava con lavori sempre diversi: prima tassista, poi conducente di autobus, operaio e guardia carceraria. La madre Adele Ann, figlia di immigrati italiani dalla provincia di Napoli, era segretaria in uno studio legale. Fu lei a regalargli, a sette anni, una piccola chitarra elettrica giocattolo per Natale. Il marmocchio era rimasto stregato dalla prima celebre esibizione televisiva di Elvis, ed aveva deciso che sarebbe diventato come lui. La madre assecondò le sue cattive intenzioni: due anni più tardi prese in affitto per Bruce uno strumento vero, dietro promessa che avrebbe preso lezioni. Le sue mani però erano ancora troppo piccole per destreggiarsi fra le corde, quindi si buttò sul baseball – ma mai sullo studio. A 14 anni Bruce si comprò una chitarra acustica usata per 18 dollari, guadagnati con piccoli lavoretti nel quartiere, e imparò da suo cugino i primi rudimenti. Colpita dall’impegno del figlio, nel Natale del ’64 la madre gli regalò la sua prima chitarra elettrica con annesso amplificatore. Il tutto era costato 60 dollari che Adele si fece prestare e restituì con rate mensili. L’attenzione di Bruce verso le fasce più deboli della popolazione è certo dovuta alle sue umili origini. Springsteen si sarebbe fatto voce di chi fa fatica anche solo a tirare a campare: erede diretto di quel filone musicale che partendo da Woodie Guthrie, passando per la rivolta del rock’n’roll e coronata dal folk di protesta di Bob Dylan, raccontava l’America e le sue stridenti contraddizioni – che in fondo sono quelle di tutti noi – attraverso una semplicità rivelatrice. La chiave del successo di queste narrazioni è infatti un principio basilare: le storie dei singoli parlano in realtà della società tutta; solo nel racconto della vita di qualcuno prende corpo il mostrare la verità sulla Vita in generale. Ma lo sguardo malinconico di Guthrie, che osservava le tempeste di sabbia e il fiume arido gravido di volontà critica di migliorarlo, si sposta con Springsteen su scenari urbani, come Harlem. Lì – canta Bruce in Jungleland – dove «si combatte danzando giù nel vicolo / davanti ai poliziotti locali». In anni come quelli in cui usciva Born To Run, era necessario che qualcuno facesse parlare storie del genere: nel ’72 scoppiava lo scandalo Watergate, che portò all’impeachment e alle dimissioni di Richard Nixon. 

Vennero scoperte alcune intercettazioni illegali effettuate nel quartier generale del Comitato nazionale democratico, da parte di uomini legati al Partito Repubblicano e in particolare al “Comitato per la rielezione” del presidente. Queste erano le “storie” che interessavano. La stampa diede alla faccenda una estrema risonanza mediatica. Poco invece si parlò dei bombardamenti segreti della Cambogia durante la guerra del Vietnam, che colpirono aree densamente abitate da contadini e causarono tra i sei e i settecentomila morti. Noam Chomsky concluse, interpretando l’evento, che «i gruppi di potere sono in grado di difendersi e secondo gli standard dei media il fatto che la loro posizione e i loro diritti vengano minacciati costituisce scandalo. Al contrario, finché illegalità e violazione dei principi democratici colpiscono gruppi marginali e le aggressioni dell’esercito americano mietono vittime in regioni remote del mondo […] l’opposizione dei media è completamente assente.» Serviva allora qualcuno come Bruce, che guardandosi attorno fosse in grado di raccontare cosa accadeva down in Jungleland: che la “giungla” di violenza fosse quella del Vietnam, o degli angoli più malfamati di Harlem.

Ascolto consigliato:

Backstreets

Pur non essendosi mai invischiato direttamente nella politica, le storie di Springsteen, paradigmatiche delle dinamiche sociali, hanno sempre avuto un forte risvolto collettivo. Storyteller d’altri tempi, con l’occhio attento al particolare che dischiude un intero mondo, scelse di raccontare l’altra America, quella in cui spesso il “sogno Americano” rimane un sogno, che consola dall’impatto con una realtà molto più cruda. Quella in cui la libertà, a cui è innalzata la statua che domina la baia di Manhattan, non è un dato acquisito, ma piuttosto può solo essere intesa come lotta per aggrapparsi una possibilità di liberazione. Bruce nelle sue canzoni dà vita a scorci impressionistici sapientemente schizzati, con una finezza che riesce al contempo a caricarsi di un pàthos quasi epico. I personaggi di questi dipinti sempre cangianti ad ogni ascolto, sono gli stessi ragazzi disillusi a cui le sue canzoni regalavano speranza, ed animavano nel petto la fede nel riscatto, sociale ed esistenziale. «La gang di mezzanotte è al completo» – canta Bruce in Jungleland – «e l’appuntamento è fissato per la notte» «debiti segreti vengono pagati / si prendono contatti, poi spariscono e non li vede nessuno» «i ragazzi fanno luccicare le chitarre / come fossero coltelli a serramanico». Sono questi gli stessi ragazzi che assistettero ai ben dieci spettacoli consecutivi da “tutto esaurito” che Springsteen tenne a New York, una sorta di campagna promozionale live: Born To Run, ancor prima della sua uscita, divenne uno degli album più attesi dell’anno. La magia fu dovuta al costituirsi, per quell’occasione, della formazione definitiva della E-Street Band: subentrano Roy Bittan e Max Weinberg, Clarence Clemons si posiziona al sassofono, Steve Van Zandt aka Little Steven alla chitarra, Danny Federici all’organo e Garry Tallent al basso. Una fra le migliori e più inarrestabili macchine da rock che la storia ricordi, soprattutto in ambito live. Concerti come quelli fecero scrivere a John Landau, allora direttore di Rolling Stone: «Ho visto il futuro del rock’n’roll e il suo nome è Bruce Springsteen». Ci si può facilmente immaginare «gli affamati e i perseguitati» di cui parla Bruce riversarsi al di fuori dei locali dove si compievano quelli che assomigliavano a rituali di purificazione collettiva, attraverso un sacerdote che, invece di pregare, cantava imbracciando una chitarra. A fine concerto «nel parcheggio i visionari si vestono di nuova rabbia / si dimenano negli angoli bui, mentre la notte avanza / un sospiro e sono spariti». La rabbia viscerale e i sospiri erano quelli di una generazione abituata all’everyday struggle: la recessione avanzava e erodeva i portafogli. Nel ’75, anno di Born To Run, in Italia il presidente di Confindustria Giovanni Agnelli e i sindacati confederati firmano un accordo sulla “scala mobile“, strumento economico volto ad indicizzare automaticamente i salari in funzione degli aumenti dei prezzi di alcune merci, per contrastare la diminuzione del potere d’acquisto dovuto all’inesorabile aumento del costo della vita.

Ma le secchiate d’acqua spesso non bastavano a spegnere un incendio che si sarebbe rivelato molto più aggressivo e indomabile di quanto previsto. Le conseguenze sulle vite dei singoli, aggrovigliate impotenti nell’ingranaggio economico che le sovrasta, vengono raccontate in modo struggente e insieme catartico in Backstreets. La parabola inizia così – vangelo secondo Bruce: «Una dolce estate maledetta / io e Terry diventammo amici / cercando invano di respirare / il fuoco in cui eravamo nati / prendendo passaggi fino in periferia / stringendo la fiducia tra i denti / dormendo in quella vecchia casa abbandonata / sulla spiaggia, distrutti dal caldo / e nascondendoci nei vicoli».

I vicoli bui e secondari, le Backstreets, sono la scena dove si svolge l’epopea nascosta portata alla luce da Springsteen. 

«Infiniti locali dei bassifondi e strade di travestiti / dove i ballerini famosi raschiavano le lacrime dal fondo / vestiti di stracci per le strade / correndo nell’oscurità / alcuni si sono fatti male, altri sono morti / di notte a volte sembrava / che potessi sentire tutta la dannata città piangere / dai la colpa alle bugie che ci hanno ucciso / o dalla alla verità che ci massacra / puoi darmi la colpa di tutto Terry / non me ne frega più niente / quando ebbi un crollo a mezzanotte / non rimaneva niente da dire / ma l’odiavo e ho odiato te quando te ne sei andato».

Non sappiamo cosa faccia scoppiare il litigio tra i due amici di Backstreets, ma non è importante. Si sente tutto il loro risentimento e la loro frustrazione sfogarsi nel crescendo incalzante fra piano, organo, e assolo di chitarra, con la voce potente di Bruce che graffia sul ritornello, per poi tornare dolce e malinconica sul finale: «Ricordi tutti i film, Terry / che siamo andati a vedere / cercando di imparare a camminare come gli eroi / che pensavamo di dover essere / e dopo tutto questo tempo / scoprire di essere come tutti gli altri / lasciati a piedi nel parco / e costretti a confessare / per nasconderci nei vicoli / dove abbiamo giurato eterna amicizia». 

Ascolto consigliato:

Thunder Road

La cinepresa di Born To Run tuttavia non si ferma a riprendere le Backstreets. I ragazzi di cui racconta Bruce di notte, nascosti in quei vicoli, ne sfruttavano l’oscurità, un po’ per trafficare cose che nessuno deve vedere, un po’ per cercare riparo dal mondo che schiaccia una volta girato l’angolo; ma di giorno quelle strade da riparo diventavano a loro volta una trappola angusta e soffocante. Allora si fa il pieno, e si imbocca la sopracitata Route 9, via da New York, via dal grigio, dal rumore, dal male, dal peccato. Diretti dove? Non importa tanto la meta, quanto solo partire. Mettersi in viaggio verso un fuori, cercare l’oltre il confine, vedersi spalancare davanti il maestoso paesaggio oceanico, dai vicoli stretti da cui si veniva. Un’apertura, questa, che non rimane solo visiva, ma investe tutta l’esistenza. Partire, fuggire, correre via, vuol dire aprirsi la possibilità di un’altra vita, di farcela, di ottenere la redenzione. Si, ho detto peccato e redenzione. Perchè il cuore della poetica della fuga di Springsteen, è venato di una profonda religiosità. In questo senso, la figura di Springsteen era atipica rispetto alla mitologia del rock’n’roller reietto e distrutto dall’abuso di alcol e droghe, e si smarcava anche dalle mode musicali che lo avrebbero affiancato nel corso degli anni: quando l’esplosione punk invadeva l’Occidente con il proprio carico di ribellione nichilista e furia autodistruttiva (il ’75 fu anche l’anno di uscita di Blitzkrieg Bop, primo singolo dei Ramones), o più avanti la new wave accompagnava ai sintetizzatori anni ’80 una buona dose di esistenzialismo depresso, Springsteen sembra invece rimanere ancorato a due parole guida, che ricorrono nei suoi testi: fede e speranza, faith and hope.

In Thunder Road Bruce invita, con una dolcezza ironica e mai stucchevole, l’amata Mary a seguirlo in una fuga dalla città, cercando così di vincere la sua sfiducia: «Quindi hai paura e pensi / che forse non siamo più abbastanza giovani / abbi un po’ di fede, la notte è magica / non sarai bellissima, ma sei molto carina / e a me va bene così».

La buona notizia che porta Bruce alla ragazza è che non è mai troppo tardi, si fa ancora in tempo a salvarsi, basta avere un po’ di fede. 

Difficile non sentire riecheggiare qui l’annuncio di salvezza che ha spaccato in due la storia dell’Occidente. Springsteen, come ogni italo-americano, fu cresciuto da cattolico. È lui stesso ad ammettere che è proprio questa componente della sua educazione, più che una ideologia politica, ad influenzare la sua musica. In un’intervista scherza sul fatto che la fede gli diede da ragazzo una “vita spirituale molto attiva”, ma “la rese molto difficile sessualmente”. Aggiunge infine: «Once a Catholic, always a Catholic» (“Cattolico una volta, cattolico per sempre”). 

La prospettiva religiosa sostanzia l’anima della sue canzoni, e ne fa dei veri e propri inni sacri, ma aperti a credenti tanto quanto a atei e agnostici. In fondo chi l’ha detto che parli più di Dio l’organo che risuona nelle volte alte e affrescate di una chiesa, rispetto al sassofono di Clemons che, in Jungleland, disegna mosaici dorati di note riempiendo dalla radio l’abitacolo di un’auto?

La reinterpretazione springsteeniana del messaggio cristiano tuttavia compie un salto, che da divino lo rende umano; lo riporta dal cielo alla terra. In Thunder Road, Bruce canta alla sua Mary: «Puoi nasconderti sotto le coperte / rimuginare i tuoi dolori / mettere una croce sui tuoi vecchi amori / disperdere rose nella pioggia / sprecare la tua estate pregando inutilmente / affinchè sorga da queste strade un redentore / eh si, non sono un eroe, si sa / e l’unica redenzione che ti posso offrire, ragazza  / sta sotto questo sporco cofano / con una possibilità di renderlo in qualche modo migliore / ehi, cos’altro ci rimane da fare / se non tirare giù il finestrino / e lasciare che il vento soffi indietro i tuoi capelli / questa strada a due corsie ci porterà ovunque vogliamo / abbiamo un’ultima possibilità per avverare i nostri sogni / per scambiare con delle buone ruote le nostre ali / il Paradiso ci aspetta lungo il percorso / dai, prendi la mia mano / stanotte correremo a raggiungere la Terra Promessa».

Il nuovo messia di Freehold, New Jersey, ha visto fin troppi poveracci pregare invano alzando gli occhi al cielo, senza vedersi arrivare indietro niente. Allora ha capito che la salvezza non è più proiettata in un regno trascendente, ma è qui, in questa vita, su questa terra. La prospettiva da verticale diventa orizzontale: non bisogna sperare di essere assunti in cielo, ma scappare più lontano possibile per ricominciare. Non servono ali per innalzarsi, ma ruote e un buon motore per correre sull’autostrada. Solo lì, attraverso la strada, ci è dato di fuggire dalla Jungleland verso la Promised Land. 

Ascolto consigliato:

Born To Run

Sempre sulle note di Born To Run, metto la freccia a destra e imbocco l’uscita dalla Pontina. Ancora dieci minuti e saremo a mollo in acqua. Già si comincia a respirare meglio. Certi giorni infatti, l’afa trattenuta dall’asfalto in città può opprimerti fino a soffocare. Lo sapeva bene Bruce, che in Born To Run canta: «Usciti fuori dalle gabbie sulla Highway 9 / ruote cromate, col pieno di benzina e un piede fuori dal confine / questa città ti strappa le ossa dalla schiena / è una trappola mortale, è un suicidio / dobbiamo andarcene finché siamo giovani / perchè i vagabondi come noi sono nati per correre».

La poetica della speranza di Springsteen si nutre di quei momenti di trapasso, come il viaggio in macchina sulla strada, o il tramonto osservato in compagnia dell’amore, momenti in cui si dice addio a quello che c’è prima e si guarda avanti verso quello che c’è dopo. Si conosce quello che si lascia ma non si sa bene se, dove, e quando si arriverà. Ma quell’intervallo di passaggio non è solo carico d’incertezza: allo stesso tempo riempie l’anima con la promessa di qualcosa di migliore. L’imbrunire della sera prelude all’albeggiare di una nuova luce, di un nuovo giorno. La strada ci porta lontano da un posto vecchio e marcio verso uno nuovo, magari più bello.

Canta Bruce sul finale: «Le autostrade sono piene di eroi sconfitti in una corsa clandestina all’ultima possibilità / tutti sono fuori per la corsa stasera e non c’è più nessun posto dove nascondersi / un giorno amore, non so quando, arriveremo in quel posto / dove davvero vogliamo andare, e cammineremo al sole / ma fino a quel momento, vagabondi come noi – siamo nati per correre».

All’orizzonte si comincia a intravedere il blu del mare, che a tratti si confonde con l’azzurro terso del cielo. Certo, non sarà l’Atlantico, ma anche noi abbiamo la nostra piccola Terra Promessa. 

Perchè, se Bruce ha ragione, allora non è importante New York o Roma, la Route 9 o le buche della Pontina, la Chevrolet cabrio o la Fiat Panda. Non importa chi sei, da dove vieni o dove vai. Se sei tra i nati per correre, quello che conta è avere il vento nei capelli e una strada spianata di fronte a sé.

Articolo di Davide De Gennaro