Slowtempo – The Kids Are Alright

Manifesto per un ascolto musicale consapevole

In teoria musicale, gli “slow tempos” sono i tipi di andatura ritmica delle battute più lente: proprio il ritmo che pensiamo serva per capire e godere appieno della musica. Contro la frenesia degli algoritmi di Spotify o Apple Music, Slowtempo è una guida musicale più a misura d’uomo, che racconterà alcuni degli album più significativi della storia recente, e l’impatto che essi hanno avuto sulla cultura giovanile. Il secondo che abbiamo deciso di raccontare è The Kids Are Alright degli Who.

 

Sono al mercato di Porta Portese – per chi non è pratico di Roma, quel circo di baracche a cielo aperto che compare dal nulla ogni domenica mattina nei pressi di Stazione Trastevere. Il tempo è grigio ma afoso, si suda. In cerca di aria, sgomito tra la calca eterogenea di romani e turisti, trovando conforto nella solita bancarella di vinili usati. Mi ero proibito di bruciarmi tutto quello che avevo in tasca, ma commetto l’ingenuità di mettermi a curiosare tra le pile di dischi. Una copertina, seppur in condizioni pietose, mi scalda il cuore. L’immagine su di essa mi fa sorridere: i quattro ragazzini londinesi sono fotografati mentre dormono per terra, con aria sognante, appoggiati su di un monumento a Central Park, New York; come coperta, una Union Jack, la bandiera del Regno Unito. Li immagino reduci da una sbronza colossale. Il titolo dell’album è The Kids Are Alright, “I ragazzi stanno bene”: parole che suonano come quelle che una umile madre inglese in apprensione potrebbe dire alla vicina, mentre i figli sono in giro, dediti a scorribande drogherecce, e… a fare la storia del rock. Il disco è una raccolta di alcune esibizioni live delle canzoni più celebri del gruppo, usato come colonna sonora dell’omonimo documentario del 1979, che racconta, tra concerti e interviste, la loro ascesa al successo. Un film che vale la pena vedere; ma nella mia testa ne è già iniziato uno più bello.

 

Ascolto consigliato:

I Can See For Miles

Londra, 1962. Il diciottenne Roger Daltrey viene espulso dalla Acton County Grammar School. Viene più volte sorpreso a fumare in classe. Pensa più alla sua passione per la musica che a mettere la testa sui libri. Roger suona una chitarra elettrica da lui stesso costruita e ha da poco formato una band a nome The Detours, tra rock and roll anni ‘50 e rhythm & blues.

Alcuni mesi dopo, incontra un coetaneo che vive nel suo stesso quartiere, John Entwistle, che possiede un basso e un amplificatore. Roger rimane colpito dalla sua buona preparazione, così lo invita a entrare nella sua band. 

Anche il bassista frequenta la Acton County ed è tra i pochissimi amici di Peter Townshend, ragazzo introverso cresciuto nella solitudine del suo amore viscerale per la musica. John propone quindi a Roger di far entrare nei Detours anche il suo amico che, nel frattempo, ha ricevuto in regalo dalla nonna la sua prima chitarra.

A completare la giovane band, altri due ragazzi del quartiere: Doug Sanden alla batteria e Colin Dawson alla voce, rimpiazzato dallo stesso Roger dopo il suo rapido abbandono.

Si esibiscono a Londra e guadagnano le prime, poche sterline. 

La band attua alcune modifiche in corso d’opera. Roger lascia la chitarra solo nelle mani di Pete e si dedica alla voce e all’armonica; il batterista viene scaricato per il suo stile troppo statico.

Alle audizioni per il posto rimasto vuoto, si presenta lo stralunato (di nome e di fatto) Keith Moon. Indossa vestiti sgargianti, ha i capelli tinti di rosso ed è visibilmente ubriaco. Inizia a suonare con una foga tale da rompere il pedale della grancassa e le bacchette. L’aura di follia che emana convince immediatamente Pete, John e Roger ad assumerlo, a patto che ripari il danno. 

Si compone così la formazione definitiva della band – i quattro farabutti che continuo a fissare su quella copertina – che intanto ha deciso di cambiare nome:

Ladies and gentleman, The Who.

 

Ascolto consigliato:

I Can’t Explain

Nellestate del 1964, il Times pubblica un articolo che parla nel dettaglio di numerosi scontri violenti accaduti tra bande di mods e rockers a Hastings, Margate e Brighton, località balneari dell’Inghilterra del sud dove i londinesi spesso passano le vacanze. Sono i due movimenti giovanili che imperversano nella città, contrapposti in tutto, dallo stile alla musica ai mezzi che guidano: i rockers indossano giacche in pelle, portano capelli impomatati con basette lunghe, e al trambusto delle loro motociclette accompagnano il rock ’n’ roll degli artisti bianchi americani anni ’50 e ’60 come Elvis Presley e Gene Vincent; i mods hanno invece un aspetto più curato, nonostante l’estrazione sociale medio-bassa. «Mod (che sta per modernism) is dressing smart in difficult circumstances.» – diceva Peter Meaden, primo manager degli Who. I capelli sono pettinati in un caschetto alla francese, indossano parka militari con su il loro simbolo, il cerchio tricolore della Royal Air Force, e completi eleganti di taglio italiano. Italiani sono anche gli scooter su cui sfrecciano per le strade di Londra: Lambrette e Vespe modificate, piene di accessori ingombranti quanto appariscenti (gli esemplari più estremi montano decine di fanali e specchietti). Ascoltano rhythm & blues e gruppi rock britannici come Beatles e Kinks. L’apparenza pulita cozza con lo stile di vita: si lanciano in serate anfetaminiche, il cui fulcro è il club The Scene, che spesso sfociano in scazzottate, coltellate e mazzate con i rockers

I rockers considerano i mods dei tossici effemminati e snob, mentre i mods vedono i rockers come dei bulli cafoni, ignoranti e ribelli solo per moda.

Esponente del movimento mod, Pete Meaden incontra gli Who nella stessa estate di violenza, convinto di poter trasformare i quattro nel gruppo icona del suo immaginario. 

E così fu. Gli Who cambiano di nuovo nome in The High Numbers e accendono il The Scene suonando pezzi famosi ogni lunedì notte. 

I quattro però sono scettici: il problema è che gli High Numbers non si sentono affatto dei mod. In particolare, Pete Townshend è affascinato dalla creatività di Lennon e McCartney e sente di voler dar libero sfogo alla sua, andando oltre la semplice rivisitazione di brani altrui e producendo musica originale.

Nel gennaio 1965, i ritrovati Who firmano il loro primo contratto con la casa discografica statunitense Decca. Il loro primo singolo, I Can’t Explain, scuote la scena inglese con il suo riff di chitarra aggressivo molto simile a quello di You Really Got Me dei Kinks. Qualche anno più tardi esce un altro singolo, I Can See For Miles: all’epoca viene definita in una recensione la canzone «più cattiva e selvaggia mai registrata». Questa impressione è data soprattutto dall’uso del basso che da mero accompagnamento diventa protagonista, sostituendo col suo suono carico e corposo il ruolo di una chitarra ritmica: è questa una delle caratteristiche del genere metal che trova qui i suoi antenati. Paul McCartney affermò di aver composto la sua Helter Skelter proprio con l’intenzione di scrivere una canzone ancora più dura e arrabbiata, la «canzone heavy definitiva».

La cover di The Kids Are Alright mi colpisce anche per l’attrito paradossale che intercorre tra quell’immagine e il contenuto del disco: gli Who sono addormentati, ma la loro musica era tutt’altro che soporifera. Era l’embrione di un suono diverso, mai sentito prima, che non si può più ballare moderatamente alle feste in casa il pomeriggio, sorseggiando succo di frutta. Un suono che fa ribollire il sangue, che la “musica del diavolo” di Presley a confronto è roba per bambini.

Nasceva sua maestà, l’hard rock.

 

Ascolto consigliato:

My Generation

Fin da subito è evidente che, come spesso accade, non si tratta solo di musica. La furia incendiaria degli Who non si limita alle loro canzoni, ma è manifestazione culturale del ribollire di una potenza sovversiva sul punto di esplodere. 

«I can do anything, right or wrong / 

I can talk anyhow, and get along / 

Don’t care anyway, I never lose / 

Anyway, anyhow, anywhere I choose» 

Così canta Daltrey in Anyway, Anyhow, Anywhere, secondo singolo del ’65. Il testo è coinvolgente e catchy, con la sua struttura a “domanda e risposta”, e diventa presto un inno anarchico per i ragazzi. Ai giovani le norme sociali del dopoguerra stanno strette, fanno quello che gli pare, come, dove e quando vogliono.

Il brano contiene anche uno dei primissimi feedback di chitarra mai registrati. Il nome scientifico è effetto Larsen, e sono sicuro che a chiunque legga sia capitato di sentirlo almeno una volta in qualche lezione su Meet o Zoom in quarantena. È il tipico fischio stridente che si sviluppa quando il suono proveniente da un amplificatore viene captato dallo stesso microfono che ha ricevuto il suono originario per amplificarlo, in questo caso il pick-up magnetico della chitarra elettrica che raccoglie il suono prodotto dalla vibrazione delle corde. Il fenomeno è spesso un problema in situazioni live, dove è difficile controllare al meglio l’acustica ambientale e mantenere sempre fissa la posizione e l’orientamento dei microfoni nello spazio.

Ma Pete Townshend, come già i Beatles in I Feel Fine o Hendrix con i suoi virtuosismi, ricercava volutamente l’effetto, posizionando l’amplificatore rialzato su una cassa, e rivolgendosi verso di esso, di solito nei pirotecnici finali delle esibizioni dal vivo.

Il più memorabile di questi finali ebbe luogo nel 1967 allo Smothers Brothers Show, programma televisivo americano alternativo e culturalmente all’avanguardia, un equivalente dell’attuale Saturday Night Live. In quell’anno gli Who avevano debuttato per la prima volta negli States con un tour; l’America andava pazza per il loro, e i quattro cavalcano l’onda della cosiddetta british invasion, con la strada spianata già da Lennon, Mick Jagger e soci. Gli americani degli Who amano la sfacciataggine, l’ironia tagliente e sempre sopra le righe. Il presentatore, scherzando sul nome della band chiede ai ragazzi i rispettivi nomi: «Vorrei farveli conoscere, oggi dicevo che avrei intervistato gli Who, e tutti mi dicevano “chi?” (“who?”)». Tutti rispondono con qualche battuta; per ultimo Moon, in un tono aspro, che è difficile decifrare se scherzoso o meno, se ne esce con: «Gli amici mi chiamano Keith, tu chiamami John.» Il guizzo di follia che gli si accende negli occhi già lascia intendere le sue cattive intenzioni. Gli Who scelgono di suonare quello che è il loro vero inno generazionale, già dal titolo: My Generation. Inconfondibile è il canto di Daltrey che balbetta volutamente sull’ultima parola di ogni verso, il che rende inspiegabilmente tutto più eccitante. Secondo alcuni si sarebbe ispirato al bluesman John Lee Hooker, secondo altri imiterebbe un mod sotto anfetamine, mentre Keith Moon riferì che durante delle prove in studio Roger aveva il raffreddore e non riusciva a cantare bene. Le amenità della balbuzie vengono bruscamente interrotte quando la voce di Roger esplode, rabbiosa e nevrotica, nel verso che al tempo fu una scioccante dichiarazione di ribellione giovanile: «I hope I die before I get old».

La carica eversiva degli Who fa scandalo nella società benpensante dell’epoca e sembra precedere il punk rock anni ’70 ed il suo grido: «No future». 

Allo stesso modo, proto-punk sono gli spettacoli autodistruttivi, ormai prassi consolidata in chiusura delle loro apparizioni live. Terminata l’esecuzione, Pete comincia a sfasciare la chitarra utilizzandola come un’ascia, Roger fa roteare pericolosamente il microfono in aria dal cavo e Keith… beh, Keith si era accordato col presentatore per piazzare una piccola carica esplosiva nella sua batteria, ma all’insaputa di tutti ne aveva poi aggiunte altre due, corrompendo gli addetti al palcoscenico offrendogli del brandy che sorseggiava prima di andare in onda. 

L’esplosione in diretta TV nazionale – ghigno al pensiero di vederne una oggi, magari da Barbara D’urso – lascia Pete Townshend momentaneamente sordo; Keith stesso viene ferito al braccio da una scheggia di un piatto frantumato. Il presentatore emerge dal fumo per annunciare la pubblicità, con in mano la sua chitarra acustica; un Pete ancora stordito gliela toglie e distrugge anche quella.

 

Ascolto consigliato:

Baba O’ Riley

Gli hippy e l’LSD. L’assassinio di Martin Luther King. Malcom X e le Black Panthers. Le marce contro la guerra in Vietnam. La morte e la santificazione di Che Guevara. Il blocco orientale si solleva contro la dittatura di partito in URSS: In Cecoslovacchia la “Primavera di Praga” viene repressa dal regime con la forza. La liberazione sessuale. La rivoluzione culturale in Cina. Agitazioni studentesche si estendono a macchia d’olio: la scintilla di Berkeley, California; poi la Sorbona, Parigi; poi Cambridge, Berlino, Roma. In Germania Ovest si solleva il dissenso contro la forte presenza militare USA e l’atlantismo del governo. A Francoforte gli studenti innalzano la bandiera dei Viet Cong.

Tutto questo, e molto altro fu il Sessantotto. Le masse di operai, studenti, intellettuali e minoranze volevano tutto, e subito. «We won’t get fooled again» canta Daltrey nell’omonimo pezzo: “Non ci faremo prendere in giro di nuovo”. Mai nella storia si era generato un movimento sociale simile, di portata planetaria, e per aggregazione spontanea. Il nemico comune era il principio di autorità in ogni sua forma, come giustificazione delle gerarchie di potere costituite. «Meet the new boss / same as the old boss» (Won’t get fooled again): se chi è al comando non cambia allora «combatteremo per le strade / con i nostri figli accanto / finché la morale che idolatrano non sparirà» 

I protagonisti di quella che oggi sconfina nella narrazione mitologica erano ragazzi arrabbiati come quei quattro che spaccavano chitarre.

Quelli che preferivano «morire prima di diventare vecchi», se dovevano marcire in un mondo così grigio.

Di ragazzi così probabilmente ne esistono molti ancora oggi, ma forse non abbastanza arroganti di dire: «I don’t need to fight / to prove I’m right / I don’t need to be forgiven» (Baba O’ Riley)

Nelle scuole si contestavano i pregiudizi dei professori e il sistema scolastico obsoleto. Nelle fabbriche si rifiutava l’organizzazione del lavoro. Si chiedeva la liberazione dei popoli dal giogo coloniale, dall’oppressione del militarismo, e l’eliminazione di ogni discriminazione. L’umanità si è avvicinata di tanto così a ribaltare completamente i rapporti di forza del sistema, compiendo la profezia di quel signore con la barba. 

La rivoluzione alla fine non l’hanno fatta. Ma il Sessantotto, protraendosi con strascichi fino a metà anni ’70, ha portato mutamenti sociali irreversibili in tutti i campi della vita. Mi piace pensare che simbolo della forza naturale che mosse tutto ciò, fosse proprio quel pericoloso batterista esplosivo di cui vi raccontavo. Forse per questo è rimasto proprio fino all’ora in cui il fermento deflagrante di quell’era si è spento: voleva godersi la festa fino alla fine. Nella notte tra il 7 e l8 settembre del 1978 Keith Moon ha appena lasciato un party organizzato da Paul McCartney. Dopo essersi messo a letto con la sua ragazza, la sveglia per chiederle uno spuntino notturno. Lei lo invita a rimettersi a dormire.

Keith, tuttavia, va in cucina e si prepara una grossa bistecca; per contorno, un numero spropositato di pasticche. Satollo, torna a letto. Né lui né la sua ragazza sanno che uno dei più spettacolari batteristi della storia del rock non avrebbe più riaperto gli occhi. 

 

Ascolto consigliato:

Pinball Wizard

Mi rigiro tra le mani il disco. Osservo ancora la foto in copertina; mi soffermo su Keith Moon, l’ultimo a sinistra, addormentato sulla spalla di Roger, il volto angelico di un bambino. Il prezzo è troppo alto per il cartoncino scollato e consumato. Lo compro lo stesso. La sorte volle che proprio nell’anno della morte di Keith il regista Jeff Stein propose agli Who di realizzare il documentario The Kids Are Alright, loro testamento, accolto come un capolavoro al festival di Cannes. Gli Who attraversano un periodo di buio totale, pensano di smettere. Riprenderanno, ma non torneranno mai ai picchi di prima. Tuttavia, penso che l’omaggio al loro vecchio, folle amico va cercato nel passato. Nel 1969, Pete Townshend, mente creatrice del gruppo, partorisce Tommy: un’opera rock che mette in musica lallegoria esistenziale di un ragazzo rimasto sordo, muto e cieco dopo aver assistito all’assassinio del padre attraverso uno specchio. Abusato e emarginato, ma dotato di una profonda sensibilità, riacquisisce infine i sensi distruggendo lo specchio fonte del suo trauma, e diventa una figura guida per gli altri. Tommy, nonostante gli handicap è un “mago del flipper”  (Pinball Wizard), il gioco che spopolava nelle sale giochi di tutto l’occidente in quegli anni. «He plays by intuition, never seen him fall» canta Daltrey «the deaf, dumb and blind kid, sure plays mean pinball». Nella mia mente l’immagine di Tommy che smanetta con maestria in tutte le sale giochi d’Inghilterra si sovrappone nostalgicamente con quella di un inarrestabile Keith Moon che pesta con furia diabolica piatti e tamburi. Nel ’69 gli Who portano Tommy a Woodstock. Hanno di fronte il popolo del Sessantotto. Tommy è proprio il messia che serve a quel popolo. Un ragazzino che pur nella sua innocente debolezza, ha il coraggio di combattere per trovare la sua redenzione, che sia il flipper, la grancassa di una batteria o un mondo migliore.

Articolo di Davide de Gennaro