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Sorrentino non è più quello de Le Conseguenze dell’amore
Il divo Paolo e la sua ultima fatica, È stata la mano di Dio.
Gli artisti devono soffrire, sosteneva Lars Von Trier. Se non soffrire, per lo meno, dovrebbero avvertire un’urgenza, un desiderio spasmodico di raccontare qualcosa. Di inventare una storia, personaggi, ambientazioni. Pescare tutto questo dal reale e trasformarlo in “realtà” cinematografica. Paolo Sorrentino, al suo Opus n.9 È stata la mano di Dio ha pescato dentro la sua memoria, ha cercato di riportare su pellicola facce, odori e sensazioni della sua adolescenza, tra la metà e la fine degli anni ’80, a Napoli.
Nello specifico, a ridosso dell’approdo nella città partenopea – anzi come dice lo stesso regista dell’“apparizione” (come la Madonna)- di Diego Armando Maradona, che nell’estate del ’84 venne acquistato dagli azzurri. Il tutto è filtrato dallo sguardo disorientato, passivo di quello che è l’alter-ego filmico del regista da adolescente, Fabietto Schisa, interpretato da Filippo Scotti. Il film è spaccato in due metà di cui la seconda non è il prosieguo dell’altra e la prima non è l’antecedente. Sono due universi divisi a metà dal lutto, dalla straziante perdita dei genitori, da quel vuoto che i genitori di Fabietto, interpretati egregiamente da Teresa Saponangelo e Toni Servillo, lasciano nella sua vita. Vuoto che Fabietto/Paolo colmerà con il cinema, una grande madre che lo accoglie in grembo, e che, in un ideale futuro sequel, che non sarebbe altro che la storia della sua carriera da regista, lo partorirà come una delle punte di diamante del cinema italiano del XXI secolo. Un autore che nell’arco di sei anni ha messo in fila una serie di “classici” del cinema italiano contemporaneo, da un esordio brillante con quel film ruvido e delicato che era L’uomo in più, approdando nel 2008 a quello che è un must per chiunque abbia il feticcio della prima repubblica, e del grande cinema, Il Divo. Il primo film a dare segnali della deriva “Grande Bellezza” in cui il regista sarebbe incappato da lì a pochi anni. Visto che tra L’uomo in più e il Divo erano usciti Le conseguenze dell’amore e L’amico di famiglia , probabilmente i migliori insieme al “biopic” sul Divo Giulio. Due film che portavano avanti una qualità di scrittura quasi impareggiabile, una forza di delineazione dei sentimenti umani, tra tutti la lacerante solitudine dei protagonisti, che insieme ad una regia virtuosa ma funzionale al racconto rendevano Sorrentino un grandissimo narratore del nostro cinema.
Ma il tempo passa, le basette si ispessiscono, i capelli si ingrigiscono e la narrazione va appiattendosi. La grande tratteggiatura nella messa in scena dei personaggi viene abbandonata a favore della coralità chiassosa, dei grandi flussi di scene, spesso sfilacciate tra loro, che almeno fino alla Grande Bellezza portavano da qualche parte, ad una sorta di approdo, ad uno sguardo finale incisivo. Come quello di Jep Gambardella, che alla fine del suo “viaggio al termine della notte” e della sua ricerca della “grande bellezza” scopre che doveva soltanto guardarsi indietro, scovando nella sfilata di fantasmi del passato quello sguardo, lo sguardo della ragazza che gli ha tolto la verginità. Il film del 2013 è certamente uno spartiacque, c’è un prima e un dopo. Forse vincere l’Oscar ti cambia, ti mette a riposo, e come se quella famosa urgenza venisse affogata nella convinzione più totale di essere arrivato, di essersi seduto a palazzo. Certamente da quel film in poi Sorrentino non è più tornato indietro. Se prima i suoi personaggi sparavano la battute sentenza, sfruttandole in realtà come scudo per celare la loro sofferenza (Titta Di Girolamo e Geremia de’ Geremei), nella filmografia post Grande Bellezza lo fanno soltanto per amplificare il chiacchiericcio sotto cui è sedimentato ormai il suo cinema, a tratti ancora splendido dal punto di vista visivo, probabilmente troppo fiacco e debole narrativamente. Youth era un ingombrante film colmo di insopportabili e presuntuosi aforismi, Loro una carnevalata anche divertente, ma inutile (pensa che guaio sarebbe essere “utili” risponderebbe Sorrentino), questo È stata la mano di Dio è sobrio, privo di spessore, colmo di sentimenti che rimangono più nelle intenzioni, che nella pratica. I sentimenti sono soprattutto di Fabietto che è appunto il filtro, tremendamente e volontariamente passivo, con cui osserviamo il mondo intorno a lui. Un universo che prima è familiare, e poi diventa, più genericamente, il mondo esterno, la città. Lui lo guarda disorientato, non sa quale sia il suo posto, lo trova in un cinema. L’approdo del personaggio all’epifania della settima arte è messo in scena in modo grossolano, superficiale. Non è vivido, né sottile, il suo “colpo di fulmine”, che sembra esserci per un’associazione che il ragazzo fa con l’emisfero femminile (le fotografie di Fellini, l’attrice di tragedie greche).
Ma come del resto nessun altro aspetto del film prende forza. C’è una pluralità di elementi, da Maradona alla perdita dei genitori, passando per la perdita della verginità, che non sono altro che una sequela di ricordi, montati e resi un film di 130 minuti. Ricordi incastonati nella memoria, di cui Sorrentino si limita a fare cronaca, a farne un amarcord. La struttura è poi, soprattutto, diseguale e squilibrata tra le due pareti che la sostengono, quel prima e dopo il lutto. Una prima parte anche brillante, un buon romanzo popolare ricco di personaggi, alcuni divertenti, dalla nonna che si ingozza di mozzarelle allo zio comunista disincantato, tra cui spicca la voluttuosa, e psicopatica, Zia Patrizia, interpretata da Luisa Ranieri. Il personaggio di Ranieri ha nella prima metà del film praticamente la stessa importanza che ha l’imminente (ma non certo) approdo di Maradona sotto il Vesuvio, oltre ad essere il primo ad entrare in scena. È il catalizzatore della fame sessuale di Fabietto. Oltre che esserne attratto, il ragazzo è l’unico ad empatizzare con lei, a credere alla distorsione che la donna propone della realtà. Il rapporto con la donna è però un altro aspetto che rimane in superficie e non assume l’importanza che sembrava potesse avere, soprattutto nella seconda parte. Dato che lei stessa incarna l’idea che la “realtà è scadente” a cui il protagonista approda (con un aiutino di Fellini). La zia attraverso la sua visione deformata non fa altro che essere l’espressione di quel concetto di rifiuto della realtà. E per quanto sembri veicolare un aspetto così radicato nell’anima del film, il personaggio finisce per essere alla stregua di un banale oggetto del desiderio.
Questo è sintomatico di un regista che non ha l’“umiltà” artistica di dedicarsi a pochi personaggi, di conferirgli maggiore forza invece di lasciarli vagare nella parata di figurine che mette in scena. Anche perché Zia Patrizia si inquadra perfettamente in quella carrellata di personaggi memorabili partoriti dalla penna di Sorrentino. Lo fa perché, oltre ad avere quella combo devastante di erotismo e follia, è segnata da un destino di solitudine, condizione umana verso cui l’autore ha sempre mostrato una forte predilezione. Una presenza quasi assidua, un aspetto che la maggior parte dei suoi personaggi condivide. Difatti lo stesso Fabietto porta nello sguardo quello smarrimento dettato da un profondo senso di solitudine, che se nella prima metà era represso dal calore famigliare che lo avvolgeva, nel seconda si impone prepotentemente. Altra cosa che accomuna i personaggi di Sorrentino è il desiderio di evadere da quella solitudine, di trovare una via di uscita. Si mettono in gioco. Finendo affogati nel cemento, in prigione, schiavi di una memoria passata, oppure con i capelli tagliati. Qui il protagonista trova la strada del cinema. Una scelta che nel film non viene messa in scena, se non didascalicamente attraverso l’escursione sul set di Antonio Capuano. Questa leggerezza nell’affrontare un aspetto così importante alle finalità di una sorta di arco narrativo, è significativa per raccontare il percorso di un autore che si è accomodato nella storia della cinema, senza più avere quell’urgenza di mettere in scena immagini drammaturgicamente potenti. Come lo sguardo di Dino Giuffrè, il “migliore amico” di Titta Di Girolamo, alla fine de Le conseguenze dell’amore. Un’immagine che, come tante altre della pellicola, parlava molto più di una battuta, raggiungendo la forma espressiva massima a cui il cinema può ambire.
E per quanto si riconosca l’onestà e la sincerità dell’operazione, che per Sorrentino stesso rappresenta quasi il film “della maturità”, quella qualità espressiva non è lontanamente avvicinabile, è stata sostituita dalla ricerca morbosa di fare il bel quadro, la bellezza dell’immagine che si esaurisce nel momento stesso in cui finisce di scorrere sullo schermo. Si ha così la sensazione che È stata la mano di Dio sia soprattutto la confessione di un autore divo, il frutto dell’interesse collettivo nei confronti di un’individualità, del desiderio legittimo di scavare nella vita degli artisti, cercando di farsi un’idea sul perché siano diventati tali. E se hanno scampato la morte a causa di un intervento divino la faccenda dovrebbe farsi ancora più interessante. In teoria.
Articolo di Cosimo Maj